3. E le cime delle montagne riapparvero

 

Era domenica 23 marzo 2003, giorno del compleanno di mio nonno. Dopo le parole di Boris: «Mi disse: “Scordatelo. Non è rimasto nessuno”» si erano alzati tutti in piedi, Jack, Bob, Meg e lo stesso Boris, e uno dopol’altro gli ospiti presero congedo. Jack insistette per accompagnarci in macchina in albergo. Quando scesi dall’auto, si chinò verso la portiera aperta e imprevedibilmente disse: «Certo che mi ricordo di Shmiel Jäger –non è uno che si dimentica!».

Il giorno seguente, lunedí, io e Matt tornammo a trovarlo per parlargli da solo; fu allora che ci diede tuttequelle informazioni su Ruchele. Come ho già ricordato,aveva cominciato a parlare di Frydka – «portava la borsa COSÍ!» – avvertendoci che Meg conosceva molti piúparticolari su di lei. Dopo qualche ora passata da Jack,quel lunedí pomeriggio io e Matt facemmo una passeggiata nel centro di Sidney. Malgrado il fulgore e l’animazione dei palazzi e delle strade, il caldo di quella tarda estate, l’avvenenza e la disinvolta cordialità delle commesse dei negozi, dei tassisti e dei passanti, fu unosforzo quasi fisico riemergere dalle fosche storie cheavevamo ascoltato, racconti – come quelli di Jack e Bob – di isolamento, nascondigli sotterranei, di forzata immobilità; a un certo punto mi fermai a una cabina telefonica e chiamai Meg a casa del cognato per chiederledi nuovo di parlare con lei.

Dico «di nuovo» perché il giorno prima, al momento dei saluti, avevo detto a ognuno di loro che avrei gradito molto incontrarli da soli, e tutti avevano accettato. Tutti tranne Meg, che aveva scosso il capo.

«Mi spiace» aveva replicato. «Le ho già detto quelloche ricordo, non posso piú esserle utile».

Inoltre, aveva aggiunto mentre recuperava la pochette di pelle, doveva badare a suo cognato, molto cagionevole di salute, con il quale voleva trascorrere piútempo possibile prima di tornare a Melbourne quel fine settimana.

Per questo ero tutt’altro che fiducioso quando digitai quello strano numero a otto cifre fornitomi da Jack.Il telefono squillò.

«Pronto?» rispose Meg.

«Salve, signora Grossbard» esordii, il cuore in tumulto proprio come mi era capitato anni prima quando, tutto compito e rispettoso, avevo chiamato la sorella di mio nonno, Sylvia, per chiederle di raccontarmianeddoti sulla nostra famiglia. Fu la volta che mi disse: «Non ti rivelo la mia data di nascita perché sarebbe stato meglio se non fossi mai venuta al mondo...». La salutai, dicendole che speravo ci avesse ripensato e che mi avrebbeconcesso di parlarle prima dell’imbarco sul volo di ventidue ore per New York.

Rispose con voce piú stanca che irritata.

«Non posso aiutarla, come le ho detto non ricordoaltro» ribadí. Sapevamo entrambi che mentiva.

Non avendola davanti, trovai il coraggio di insistere. «Oh, andiamo, vogliamo solo scambiare due chiacchiere con lei».

«E perché mai?» ribatté, come parlando a se stessa.«Sono vecchie storie, non interessano a nessuno. E comunque con noi finirà tutto».

D’un tratto compresi che desiderava essere convinta. Cosí l’incalzai: «Signora Grossbard, lei si sbaglia.Siamo venuti fin qui per questo, per parlare con tuttivoi, raccogliere le vostre storie per tramandarle. Io desidero preservare i suoi ricordi, è questo il mio intento.

«Se lei non parla con noi, andrà tutto perduto» aggiunsi dopo una breve pausa a effetto.

«Be’...». Seguí un lungo silenzio, poi si arrese: «Sevuole incontrarmi dobbiamo vederci in un ristorante, mio cognato è malato, non posso portare gente a casa».

«Non c’è alcun problema» la rassicurai. «Non importa dove, decida lei, mi dica solo quando». Intanto feci il gesto della vittoria a Matt.

«Grande!» fece lui.

«D’accordo» acconsentí Meg. «Vediamoci domani.Mi chiami stasera, fisseremo l’ora».

«Benissimo. Le sono molto grato!».

Piú tardi, quella sera, la richiamai dalla stanza d’albergo. Aveva avuto tutto il tempo di riflettere sul nostro incontro.

«Allora, ho deciso» mi informò, «venite qui, da Salamon, per pranzo».

«Magnifico!» esclamai. Feci di nuovo il segno dellavittoria a Matt che stava seguendo il telegiornale. Il primo soldato americano nella guerra appena scoppiataera caduto.

«Però non posso prepararvi da mangiare» puntualizzò.

«Non stia a preoccuparsi» la rassicurai.

«Magari potrei fare dei sandwich» propose.

«Adoriamo i sandwich» tubai.

«Allora venite verso mezzogiorno» decise. Mi diedel’indirizzo del signor Grossbard, escludendo categoricamente la possibilità di parlare con lui, perché non erain condizioni di alzarsi dal letto. Feci buon viso a cattivo gioco e la rassicurai, capivamo la situazione. Stavoper attaccare, quando aggiunse in tono piú aspro:

«E c’è un’altra cosa su cui non transigo».

«Cioè?».

Cosí dettò le condizioni del nostro incontro.

Innanzitutto, non voleva parlare della guerra, eratroppo doloroso. «Sa» mi spiegò, «non parlo mai dell’Olocausto. Mio figlio è un topo di biblioteca, mi prega sempre di scriverci su, e ora che non mi resta moltoda vivere forse mi deciderò. Ma non... non riesco a parlarne».

«Va bene» la tranquillizzai, non avremmo parlatodella guerra.

Inoltre non desiderava parlare di sé, avrebbe risposto solamente a domande generiche riguardanti la vitache si conduceva a Bolechow negli anni precedenti laguerra, durante la sua infanzia e la prima adolescenza.Era ben lieta di condividere con noi i ricordi che conservava degli Jäger, ma della sua famiglia preferiva nonparlare. Se per qualche ragione le fosse sfuggito qualcosa su certe esperienze vissute durante la guerra, eranoda considerarsi mai dette, mi proibiva di farne menzione nel libro che un giorno avrei scritto.

«D’accordo» acconsentii a malincuore.

«Malgrado ciò vuole ancora parlare con me?» midomandò. Ebbi come l’impressione che stesse sorridendo, di un ghigno amaro.

«Certo». Intimamente speravo che quando ci saremmo presentati con tutto il nostro armamentario, il registratore, i nastri, la videocamera digitale, il treppiede,gli apparecchi fotografici di Matt e tutto il resto, avrebbe cambiato idea.

«Un’ultima cosa» aggiunse infine.

Stavolta sapevo di che si trattava, prima ancora cheaprisse bocca.

«Non risponderò a nessuna domanda su CiszkoSzymanski».

 

Per questa ragione non posso scrivere quel che mirivelò nelle quattro ore trascorse insieme, durante le quali, avendo apparentemente dimenticato le limitazioni imposte, mi parlò diffusamente non solo dei mieiparenti, ma anche della guerra e di altre reminiscenze,rievocando storie spesso terribili.

«Non voglio che il suo libro parli della mia vita» miammoní. «Un giorno ne scriverò io stessa. Vedrà, lo farò».

Sapevamo entrambi che non l’avrebbe mai fatto. Eppure, malgrado la frustrazione provata per non poterriportare tutto quel che mi svelò quel giorno, storie eaneddoti che gettano luce sugli accadimenti di Bolechow durante la guerra, comprendo bene il suo timore,il motivo per cui non voleva che nel mio libro comparissero le storie che mi narrò. Sapeva che se mi avessepermesso di raccontarle, le avrei fatte mie.

Quindi non posso rivelarvi quel che mi raccontò quelgiorno. Posso solo dire che quando arrivammo nel piccolo appartamento di Salamon, dove aleggiava un lieveodore di chiuso, al centro di Sidney, non fummo accolticon dei sandwich. Sulla tavola accuratamente imbandita nella piccola cucina ci aspettavano quattro piatti coperti, fumanti. Con un sorprendente sorriso smagliantea illuminarle il volto, Meg ci fece accomodare.

«Dunque» annunciò, «ho preparato un piatto percui vostro nonno si sarebbe leccato i baffi».

Non credevo ai miei occhi. «Bene» risposi un po’sulle mie.

«Pietanze tipiche di Bolechow!» esclamò, indicandoi piatti. «Un déjeuner à la Bolechow!». Poi, lanciandomi uno sguardo circospetto, aggiunse: «Veramente non erosicura se... di dov’era vostra nonna?».

«Russa» risposi. Mi venne in mente la bicocca diOdessa in fiamme, l’adolescente «che attraversò l’Europa». Oh, pensai tra me, ne avrei anch’io di storie da raccontare.

«Ah, russa» fece Meg. E dopo qualche attimo: «E vostro padre?».

«Mio nonno paterno era di Riga, Lettonia» risposi.Nacque su una nave. Aveva un fratello gemello. Anchelui s’imbarcò per un lungo viaggio, per dimenticare ilpassato e ricominciare da capo; anche lui, come suo padre, la mia bisnonna e mio nonno, aveva attraversato mari e monti per rifarsi una vita, l’uno sempre pronto araccontare le sue storie, l’altro chiuso nel suo silenzio.

«E sua madre era di Cracovia» aggiunsi, giocandomi la carta galiziana.

«Ah, di Cracovia» ripeté Meg, con soddisfazione.«Sapete cos’è il kasha?».

«Kasha!» esclamai. «Adoriamo il kasha!». Mia nonna preparava sempre il kasha fumante al marito – chicchi di grano saraceno tostato abbrustolito in una padellacon olio e cipolle, serviti con pastina – che lui mangiava, come la farina o il porridge, meticolosamente, cominciando dal bordo della scodella e procedendo versoil centro. «Cosí non ci si scotta la bocca» mi spiegava, soffiando nel cucchiaio.

«Sapete cosa sono i pierogis 10?» ci chiese Meg.

«Certo» rispondemmo, «andiamo pazzi per i pierogis!». La sera che giungemmo in Polonia, il giorno prima della visita ad Auschwitz, Alex Dunai ci aveva portato in un ristorante tipico polacco. Con un raviolo inbocca, Matt aveva commentato: «Questa non è cucina polacca, è cucina ebraica!».

«E sapete cos’è un gołąki?» continuò divertita. Gawumpkee. Pensai alla signora Wilk, che per tutti queglianni aveva arrancato sui gradini di casa nostra col passo pesante da donna corpulenta qual era, recando, diquando in quando, capienti pentole di cavoli ripieni. Certo che lo sapevamo.

«Ah!» esclamò Meg. «Davvero? Be’, vedete, per noncorrere rischi... ho pensato che forse era meglio comprare anche un pollo arrosto. Dopo tutto siete americani di seconda generazione».

Pronunciò la parola «seconda» con un’impercettibile sfumatura di biasimo.

«Sapete» proseguí, «ormai sono rimasti in pochi dalle nostre parti a conoscere queste pietanze, giusto qualche sopravvissuto della Galizia. Quelli dell’ovest finirono nei campi, quindi ebbero qualche possibilità disalvarsi, a noi invece ci liquidarono nelle fosse comuni».

Difficile arguire che si parlava di cibo.

A quel punto, ciabattando lentamente con l’ausiliodi un tutore, con indosso un elegante pigiama che miononno, dedito per tutta la vita lavorativa a produrre nastrini e ricercate passamanerie, che disquisiva di coloricon l’entusiasmo con cui si parla dei gusti del gelato,avrebbe certamente definito color blu di Francia, il signor Grossbard fece il suo ingresso in cucina.

Si presentò a voce alta, tremula, si complimentò peril nostro progetto e sedette a tavola.

Sulle prime, per la sorpresa, rimasi senza parole.

«Prego, servitevi da soli» ci invitò Meg. Ebbi l’impressione che provasse piacere nel constatare il nostro stupore.

Sedetti accanto al signor Grossbard e accesi il registratore.

«Perbacco!» esclamò Matt. «Non vedevo cibo come questo da quando ero bambino!».

«Non dimentichi» volli sottolineare con Meg, lamente in fermento, «che anche noi siamo originari diBolechow».

«Era una bella città» commentò il signor Grossbard.«Si stava bene. Aveva dodicimila abitanti, vi convivevano tre culture diverse. Tremila ebrei, seimila polacchi, tremila ucraini».

Stava parlando della sua infanzia, gli anni in cui miononno viveva ancora lí.

E cosí ero riuscito a parlargli. Sul pigiama blu indossava una vestaglia che credo si possa definire color claretto. La massiccia montatura degli occhiali dalle lenti spesse allungava ancor piú il viso. Sulle tempie ricadevano bianche ciocche, mentre sul cranio i radi ciuffi rimasti erano pettinati con cura all’indietro. Quella immagine senile mi ricordava i volti essiccati delle mummie egiziane o mesoamericane, che con il tempo sembravano prosciugati del superfluo: non erano rimasti altro che glizi gomi dal sembiante incaico, l’aristocratico naso adunco, la bocca pronunciata che conferiva un’espressione intelligente, e un decrepito doppio mento. Ma i lineamenti erano in qualche modo addolciti dalle orecchie all’infuori, quasi comiche, che a tratti gli conferivano un’aria ieratica. Quando parlava, con voce flebile similea un sussurro, tendeva a sporgersi in avanti, come a chiarire un concetto, e si batteva impetuosamente le mani sulle cosce ossute; oppure si chinava lievemente all’indietro e sollevava le mani, allo stesso modo di un pescatore che vanti la grandezza della sua preda, o come stesse misurando qualcosa: il tempo passato, la sua vita. Il tutore poggiato accanto a lui aveva un che di rituale, come il simbolo di qualche oscura religione o uno scettro regale. Mentre discorreva, a volte si strofinava le mani, gesto che comunicava una certa agitazione.

«Era una bella città» ripeté.

«Lo so» confermai.

«Bon appétit!» augurò.

«Sono cosí contenta» esclamò Meg.

Non posso dirvi altro. Quando finimmo di pranzare ci spostammo nel soggiorno, e per ore Meg narrò le sue storie, inframmezzate, per la mia gioia, dai ricordi del cognato, che parlò della vita che si conduceva a Bolechow negli anni del primo conflitto mondiale, della casa di via Dlugosa dove era nato e dove visse con la moglie e il figlio che non scamparono allo sterminio.Dlugosa era la strada dove si era trasferita la famigliadi Shmiel, negli anni Trenta. «Il macellaio?» ricordò il signor Grossbard. «Era un uomo alto, forte, molto simpatico,certo che lo conoscevo, lo incrociavo spesso, le figlie però non le ricordo bene». E raccontò di come, allo scoppio della guerra nel 1939, si offrí volontario nell’esercito polacco,ma non venne arruolato in quanto ebreo («Malgrado fossi ingegnere, e loro avevano bisogno di ingegneri!» esclamò, ridendo con una energia sorprendente per un quasi centenario. E dopo qualche attimo, gridò: «Quella era la Polonia!»). Sebbene non possa riferire in dettaglio quel che appresi quel giorno, almeno fui felice che Meg, per qualche ragione, avesse mutato atteggiamento; parlò a ruota libera, e suo cognato fu abbastanza inforze da rimanere con noi diverse ore e accompagnarcieducatamente alla porta quando andammo via.

Poco prima che ci alzassimo da tavola, il signor Grossbard si chinò verso di me e mi disse con la sua voce sottile: «A Bolechow convivevano tre culture, e andavamo tutti d’accordo».

Annuii.

«Era un posto umano» aggiunse.

Annuii di nuovo.

«Era un posto umano» ripeté «dove non esisteval’antisemitismo».

Pronunciò cosí la parola: antisemi-TIS-mo.

«Davvero?» chiesi stupito. Riconosco la mia indole sentimentale, ma sono anche consapevole che la nostalgia non di rado falsa la realtà.

«Be’, esisteva, ma avevamo bisogno gli uni degli altri, capisce? I polacchi dipendevano dagli ebrei, perché questi gestivano le attività commerciali, gli ebrei dipendevano dai polacchi per gli uffici amministrativi. E in quanto agli ucraini, vivevano nel circondario, ma compravano cibo e legname, il lunedí, il giorno del mercato».

Questo lo sapevo. «E ogni Kol Nidre il boscaiolo ucraino era talmente terrorizzato, perché la città era cosí silenziosa e le montagne cosí buie, che scendeva a valle e trascorreva quell’unica notte dell’anno presso una famiglia ebrea, tanto temeva Yom Kippur».

«Sí, c’erano gli ucraini» continuò il signor Grossbard. «E gli uni avevano bisogno degli altri: quando finiva il mercato, gli ucraini andavano a bere birra nei locali degli ebrei. Ed era birra ebrea! E compravano legna per le case. Gli ebrei possedevano il centro di Bolechow, le loro abitazioni sorgevano sulle attività commerciali,

o comunque abitavano nei pressi. Tutti i negozi appartenevano a ebrei. Insomma, tutti si rispettavano. Il rispetto era un sentimento diffuso».

Rievocò la sua giovinezza, i parchi, i concerti che vi si tenevano, i viali alberati dove si recavano a passeggio le signore con il parasole.

Ascoltavo in silenzio, come facevo da bambino.

«E poi, sa, arrivarono i tedeschi e distrussero la mia famiglia».

Annuii. Aveva perso la moglie e il figlio.

«Ma nella mia famiglia» proseguí «quelli che non potremo mai perdonare sono i francesi».Si appoggiò allo schienale della sedia, annuendo,masticando lentamente un pierogi. «I francesi?» ripetei stupito. Lanciai uno sguardo a Matt, seduto di fronte, e lui sorrise. A nostro padre i francesi non sono mai andati a genio; ripete spesso, con un ghigno di scherno, che pur non avendo mai vinto una guerra vanno sempre fieri della loro grandeur. Il signor Grossbard aveva forse subíto maltrattamenti dai francesi, nel suo peregrinare conseguente all’Olocausto? O stava semplicemente farneticando? Cercando di non lasciar trapelare i miei pensieri, ripetei: «Non potrà mai perdonare i francesi?».

Il signor Grossbard si chinò nuovamente verso di me, agitando il dito.

«Sí, i francesi».

E dopo una pausa a effetto, spiegò:

«Sa, a mio padre non è mai andato giú l’Affare Dreyfus».

 

Nella parashat Noach, dopo aver dato istruzioni a Noè sulla costruzione dell’arca, Dio gli indica esattamente cosa portare a bordo; non bisogna infatti dimenticare che nessun essere vivente sarebbe sopravvissuto alla terribile distruzione. «Tutto ciò che è sulla terra morirà» dichiara Dio. Naturalmente Noè si salverà, con i figli, la moglie e le spose dei figli (l’ordine specifico – prima gli uomini, poi le donne, invece che, come ci si aspetterebbe, l’anziana coppia seguita da quelle piú giovani – indica che sull’arca di Noè viene mantenuta la separazione dei sessi. «Da ciò» osserva Rashi «deduciamo che fu loro proibito di avere rapporti»). Poi, com’è noto, gli animali e gli uccelli: non due di ogni specie, secondo l’opinione comune, ma almeno due esemplari di genere maschile e due di genere femminile; delle specie pure – vale a dire, adatte al sacrificio – vennero portate sette coppie, presumibilmente perché dopo il diluvio si potessero compiere le offerte rituali senza che si corresse pericolo di estinzione.

La stessa descrizione del Diluvio mantiene viva la tensione che già cogliamo negli eventi che lo anticiparono: le sorgenti della Terra e le cataratte del cielo si aprirono, e piovve per quaranta giorni, periodo, come nota acutamente Rashi, corrispondente a quello impiegato dal feto per formarsi dopo il concepimento (una sorta di ricompensa che Dio esige, continua Rashi, per il tempo in cui è stato occupato a plasmare l’embrione degli uomini che si riveleranno corrotti) e per centocinquanta giorni la Terra rimase sommersa dalle acque, che si innalzarono sino a coprire la cima delle montagne. Difficile immaginare un particolare piú efficace (be’, per lo meno in epoca biblica, quando il mondo conosciuto aveva dimensioni ridotte rispetto a oggi) per dare l’idea della portata della distruzione realizzata da Dio con il Diluvio – non solo l’annientamento della vita, ma la cancellazione della stessa morfologia della Terra, la rapida e improvvisa scomparsa di ogni punto di riferimento, di ogni luogo conosciuto.

Questa considerazione mi porta a riflettere su un dettaglio che non compare nella parashat Noach. Probabilmente per il fatto di aver trascorso gli ultimi anni ad ascoltare storie di persone costrette a fuggire precipitosamente dal loro paese o forse perché, nonostante il suo rapporto privilegiato con Dio, Noè salí sull’arca per ultimo, e questo particolare secondo Rashi indica che il patriarca, come gli uomini di quella generazione, «simostrò di poca fede, non credendo che sarebbe scoppiato il diluvio finché le acque non furono sul punto di sommergerlo» –mi chiedo spesso se Noè e la sua famiglia oltre agli animali portassero qualcos’altro con loro, che so, qualche ricordo della loro esistenza precedente la distruzione del mondo. Poiché il testo non ne fa menzione, deduco che non portarono nulla, e quindi non posso fare a meno di pensare che per questa terribile privazione Noè si rallegrò ancor di piú quando vide apparire il ramoscello di olivo nel becco della famosa colomba. Naturalmente il significato di questo simbolo è ben noto, cionondimeno sono convinto che tale visione – un’improvvisa, vivida, precisa reminiscenza del mondo che fu – deve aver costituito ai suoi occhi una parentesi da un altro genere di oblio.

 

Quello stesso pomeriggio incontrammo Bob Grünschlag. Fu anche il giorno in cui Matt decise di scattarela foto sulla spiaggia.

«Perché proprio lí?» gli chiesi, un po’ irritato, quando mi annunciò che voleva andare a Bondi Beach perscattare una fotografia dei due fratelli sopravvissuti, Jack e Bob, lungo la riva. Non sapeva che erano persone anziane? Non intendevo imporre loro la nostra volontà. Ci tenevo alla loro amicizia.

«Senti» rispose «tu occupati del tuo lavoro, io faccio il mio. La mia tattica è giocare a fare il duro con la gente, fino al punto di rottura. Ho bisogno di una foto che raffiguri l’essenza dell’Australia, altrimenti che sonovenuto a fare?».

«D’accordo» mi arresi.

Cosí, nel tardo pomeriggio, dopo il lungo pranzo con Meg e il signor Grossbard, andammo da Bob, che abita proprio di fronte alla spiaggia. Conversammo un po’, con grande soddisfazione di Jack, che aveva apprezzato il nostro interesse per il fratello minore, malgrado non avesse conosciuto le figlie di Shmiel.

«Sei proprio un bravo ragazzo» mi aveva detto, battendomi affettuosamente la mano sulla spalla, quando gli avevo comunicato che avremmo intervistato Bob.

«Be’» feci, «anch’io sono un fratello maggiore. So come vanno queste cose».

In realtà non era proprio cosí. Mi occorsero degli altri viaggi prima di avvicinarmi davvero a Matt, sviluppando un senso di protezione nei suoi confronti.

Una volta sulla spiaggia Matt chiese ai due fratelli di posizionarsi sulla battigia; poi, avendo constatato che non c’era altro modo di scattare la foto che aveva in mente, all’improvviso si tolse le scarpe e me le affidò. Entrò in acqua fino alle ginocchia e cominciò ad aprire la custodia della macchina fotografica appesa al collo.

Scrutò il cielo con sguardo preoccupato. La conversazione con Bob si era prolungata piú del dovuto; il sole cominciava a calare.

«Faccio foto solo con la luce disponibile» disse.

«Io parlo solo con persone disponibili» gridai di rimando, con voce stridula.

Jack e Bob scoppiarono a ridere. Erano di buon umore; non era stato necessario insistere per condurli lí. «Un po’ piú in acqua» gridò Matt, facendo segno ai due fratelli mentre metteva a fuoco con la sua vecchia Hasselblad, in tutto simile a una scatola. Palesemente divertiti, i fratelli arrotolarono ancor piú i risvolti dei pantaloni. Udii il caratteristico e ormai familiare rumore dell’otturatore della macchina fotografica: piú un k-shonck che un click. Poiché non avevo niente da fare, mi avviai a fare due passi. Lascialo lavorare, pensai.

Ma proprio mentre stavo per andare notai che una piccola folla di surfisti si stava radunando alle spalle di Matt, che continuava a scattare foto. K-shonck, k-shonck. Erano le sette di sera, la luce calava vistosamente, e dall’aspetto accigliato di mio fratello intuivo che non era riuscito ancora a scattare la foto desiderata. Era chiaro che non riusciva a imprimere sull’obiettivo l’immagine che aveva in mente. Be’, pensai, so bene cosa si prova. All’improvviso lo vidi dirigersi verso l’acqua spumosae avvicinarsi a un surfista con i capelli scuri e la dentatura smagliante. Il rumore delle onde mi impediva disentire cosa dicessero; era come assistere a una pantomima. Matt fece segno con la mano al surfista, un giovane di non piú di venti anni, quindi indicò Jack e Bob,e con l’indice e il medio a mo’ di V capovolta fece il segno di una persona che cammina. Dolina hoise, pensai. Il surfista scoppiò in una sonora risata, e annuí. Sollevò il surf e prese a muoversi avanti e indietro alle spalle di Bob e Jack, mentre i due fratelli si mettevano in posa abbracciati. Matt cominciò a scattare una serie di fotografie. Adesso sorrideva. Era quello che voleva.

Anch’io ebbi il mio momento di gloria. Mentre il sorridente surfista manifestava disinvoltura facendo da sfondo ai soggetti della foto, alcuni suoi amici si radunarono intorno a me: due giovanotti, uno biondo, piuttosto alto, con l’espressione del volto seria, l’altro scuro e sghignazzante, e una ragazzona bionda dal sorriso radioso. Erano curiosi di sapere chi fossero quei due vecchi. Erano personaggi famosi? I nostri genitori? Quel tipo era un fotografo di moda? Che facevano lí?

Guardai i due anziani fratelli di Bolechow, quindi quei ragazzi australiani. Erano alti, ben piantati, trasudavano salute e cordialità. Non avevano piú di diciannove anni. Mostravano un interesse genuino. La ragazza, la testa reclinata da un lato, aspettava le mie spiegazioni.

«Be’» risposi, «è una lunga storia».

Lei sorrise e indicò il giovanotto che Matt aveva reclutato per la sua fotografia. «Ehi, è un nostro amico» tenne a precisare. «Comunque dobbiamo aspettarlo».

«D’accordo» acconsentii. E cosí cominciai: «Dunque, mio nonno nacque in una cittadina polacca...».

La sera seguente Meg tornò a Melbourne.

Quel giorno aveva invitato tutti a pranzo in un caratteristico ristorante del centro: Jack, Sarah, Bob, Boris, Matt e me. Era inaspettatamente di ottimo umore. La lunga conversazione del giorno precedente aveva prodotto dei cambiamenti: si era convinta che eravamo persone a posto («Vi ha preparato il pranzo?» si era stupito Jack la sera prima, quando l’avevo chiamato per informarlo dell’incontro con Meg). Vorrei tanto potervi riferire quel che Meg mi disse. E mostrarvi il suo viso, l’espressività, l’arguzia, il mesto umorismo che a volte trapelava, il modo in cui l’ironia dimessa improvvisamente e in modo sconcertante si trasformava in una tristezza sconfinata, come accadde in quel tardo pomeriggio. Matt le aveva chiesto di posare con una foto della sua vecchia amica Frydka. Nel momento in cui si aprí l’otturatore, un qualche ricordo dovette lambire la suamente; nella fotografia, che voi non vedrete mai, compare con gli occhi chiusi, come sopraffatta dal dolore, ilvolto segnato di una donna raffinata e minuta che nella mano impeccabilmente curata stringe l’istantanea di una ragazza dall’espressione trasognata e assorta, gli occhi spalancati. Anche se, quasi un’ironia della sorte, oggi sono gli occhi della donna anziana a essere aperti, mentre quelli della ragazza si chiusero per sempre sessant’anni fa.

Durante quel pranzo di addio era di ottimo umore,il volto esprimeva vivacità. Quando ci incontrammo davanti al ristorante, mi si avvicinò.

«Allora, non mi dà un bacio?» mi salutò civettuola. Le sorrisi e le diedi un bacetto sulla guancia. Quindi si voltò verso Sarah Greene, che stava ridendo, e tutta espansiva esordí: «È sbalorditivo, non posso credere diessere ancora viva, dopo tutto questo tempo, e poi diaver conosciuto i cugini della mia amica. Ancora non riesco a capacitarmi, sono qui con i cugini di Frydka. Non mi sembra vero. Da non crederci».

Sapevo quel che intendeva: la sorpresa per aver ritrovato all’improvviso legami da lungo tempo perduti, che non immaginava esistessero ancora (Il dottor Begleiter? Era un grande dottore!). «Adesso siete la mia famiglia» aveva detto a mia madre il giorno prima, dopo la nostra conversazione, quando chiamai i miei genitori a Long Island per presentare quella donna alla cugina della sua amica perduta. «Adesso siete miei parenti».

Ci avviammo verso l’ingresso del ristorante e, preso il coraggio a due mani, le espressi il desiderio che ci fossero altri come lei ad aver conosciuto i miei parenti.

«Come?» reagí lei, simulando contrarietà. «Non lo sa? Certo che ci sono altri che li conobbero».

Guardai Matt e dalla valigetta tirai fuori penna e taccuino.

«Chi?» domandai.

Sorrise soddisfatta e cominciò: «Un’amica di Frydka, si chiamava Dyzia Lew, adesso ha assunto il nome di Rybek. Aveva sposato un russo. Dopo la guerra le dissi: “Vado all’ovest”. E lei rispose: “A far che? In Unione Sovietica ci sono 350 milioni di mendicanti, due in piú non fanno differenza”. Cosí io emigrai e lei rimase. In seguito si trasferí in Israele, dove ha conosciuto Shlomo, la cui sorella era mia amica».

«E gli altri?» chiesi mentre appuntavo: DYZIA LEV? LOEW?

«Una vive a Stoccolma» rispose Meg. «Si chiama Klara Schoenfeld, no, scusi, questo era il nome da nubile. Suo marito fu quello che scappò, l’unico che riuscí a fuggire mentre li portavano al cimitero per trucidarli. Sichiamava Jacob Freilich. Klara Freilich vive a Stoccolma. Non era molto intima con noi, eravamo conoscenti, ma lei non frequentava le superiori. Comunque dicerto conosceva Frydka».

Sorrisi, e rivolto a mio fratello, a voce sufficientemente alta perché lei sentisse, dissi: «Che ne dici Matt, andiamo a Stoccolma?». Desideravo la sua approvazione, volevo farle capire quanto facessimo sul serio.

Meg spalancò gli occhi.

«Dice sul serio?» si stupí. «Posso darvi l’indirizzo».

Prese penna e taccuino dalle mie mani e, dopo averfrugato nella borsetta e recuperato l’indirizzo, lo trascrisse. Quindi strappò il foglietto e me lo diede. Con una grafia antiquata aveva segnato il nome KLARA FREILICH e l’indirizzo. Nella luce intensa del pomeriggio di fine estate nel Nuovo Galles del Sud, rimasi a contemplare quei caratteri e quei nomi singolari, che evocavano luoghi remoti, alludevano a nuovi viaggi. EDESTAVÖGEN, aveva scritto, un nome che non mi diceva assolutamente nulla. E SVESIA, un errore a cui da tempo non facevo piú caso, avvezzo com’ero all’ortografia degli ebrei di Bolechow. «Questa è la scuola pubblica che frequentai. Quello seduto è il mio caro fratello SHMIEL, con la divisa dell’esercito austriaco, la foto risale al 1916». Be’, pensai, probabilmente faremo un viaggetto in «Svesia».

«Cos’altro vuol sapere?» chiese Meg, la voce sempre piú flebile mentre riponevo il foglietto. «Le dirò tutto quello che vuole sapere».

Si lisciò una ciocca di capelli color rame scomposta dalla calda brezza estiva, e accennò un sorriso. «No, non tutto. Ci sono cose che non si possono raccontare».

«Fa niente» la rassicurai; stavo già pensando che almeno una di quelle altre persone, nei cui nomi non miero mai imbattuto, mi avrebbe raccontato di Frydka edi Ciszko Szymanski.

«Allora?» chiesi.

«I Reinharz!» esclamò Jack rivolto a Meg. «Dovrebbe parlare con loro».

«Chi sono i Reinharz?» domandai.

«È una coppia di sopravvissuti, sono certo che conoscevano Shmiel e gli altri».

Pronunciò la parola soprauissuti, proprio come avrebbe fatto mio nonno.

«E poi?» incalzai.

«Dovresti andare anche a Tel Aviv» disse Meg, «lí c’èKlara Heller. Era amica di Lorka».

Amica di Lorka? Chissà perché non avevo mai pensato che potesse avere... comunque non avrei mai immaginato che fosse ancora viva chi l’aveva conosciuta. AMICA DI LORKA!! → CLARA HELLER → ISRAELE appuntai nel mio taccuino.

«Soddisfatto?» chiese Meg, allargando le braccia perradunare tutti ed entrare nel ristorante.

«Soddisfatto» risposi. E finalmente entrammo.

Tre mesi dopo ci recammo in Israele.

10 Piatto tipico della cucina polacca, una specie di ravioli dalla pasta piú morbida di quelli italiani, piú simile a quella dei ravioli al vapore cinesi, preparati con diversi tipi di ripieni (N.d.T.).