Lech Lecha
ovvero
Parti dal tuo paese
(giugno 2003 – febbraio 2004)
Il male delle fonti, però, anche se veraci nel-l’intenzione, sta nell’imprecisione dei dati,nella propagazione allucinata delle notizie...La proliferazione persino delle fonti seconde e terze, quelle che hanno copiato, quelleche lo hanno fatto male, quelle che hanno ripetuto per sentito dire, quelle che hanno alterato in buona o in mala fede, quelle per lequali era lo stesso, e anche quelle che si sono proclamate unica, eterna e insostituibileverità, sospette queste ultime piú di tutte lealtre.
José Saramago,
Storia dell’assedio di Lisbona
La parashat Noach, il tremendo racconto di uno sterminio, è per molti versi una storia che ha per tema l’acqua. Al contrario, la lettura settimanale della Torah che la segue, la parashat Lech Lecha, è incentrata sulla terraferma. Al pari della Noach, è anche una sorta di narrazione di viaggio,con la differenza che il paesaggio – sia terrestre che marino –che i personaggi della prima parashah devono attraversare è misterioso e inconoscibile, mentre gli eroi della Lech Lecha – Abramo, lontano discendente di Noè, un caldeo originario della città di Ur, e la sua famiglia, i primi adoratori del Dioe braico – si muovono attraverso spazi descritti nei minimi dettagli: la conformazione, le dimensioni, i popoli sconosciuti che li abitano. In effetti, si potrebbe considerare la Lech Lecha come il primo libro di viaggi, una storia che conduce il suo eroe dalla «terra natia, il luogo di nascita, la casa del padre» a una landa meravigliosa dove infine lui e la sua gente si stabiliranno.
Questa preoccupazione per la terra e il territorio non è casuale: com’è noto, Lech Lecha è la parashah in cui Dio stringe il suo patto con Abramo: «Parti dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla casa di tuo padre e va’ nella terra che io ti mostrerò. Io farò di te un popolo grande, ti benedirò, renderò glorioso il tuo nome e tu sarai una benedizione. Benedirò quelli che benediranno te e maledirò quelli che ti malediranno: in te saranno benedetti tutti i popoli della terra» (Friedman non è il primo commentatore a notare che non vengono mai chiariti la natura di questa benedizione né il vantaggio che ne deriverà a tutta la razza umana). Per questa ragione, tra l’altro, di tutte le prime parashot la Lech Lecha è quella piú manifestamente politica, poiché introduce a piú riprese nella storia del genere umano proclami, annunci e avvertimenti intesi a legittimare le rivendicazioni del popolo di Abramo nei confronti di un territorio ben preciso, quello di Canaan. Sin dal momento in cui Abramo giunge in questa terra, sono chiari i problemi che sorgeranno, visto che il testo ammette senza alcun imbarazzo che «i Cananei occupavano già quel territorio». Eppure Dio fa la sua promessa, ribadita per l’intera Lech Lecha: «Tutta la terra che vedi io la darò a te e ai tuoi discendenti». I riferimenti geografici delle terre strappate ai Cananei e concesse al popolo di Abramo – le parole di Dio non specificano le modalità della presa di possesso – sono accuratamente specificati: Sichem, i querceti di Moreh, Beth El a est e Ai a ovest, il Negev e cosí via.
La crescente specificità del testo riguardo al territorio riflette un piú importante processo di focalizzazione del puntodi vista narrativo, sottilmente analizzato da Friedman nel suo commentario: i primi undici capitoli della Genesi, egli scrive – cioè Bereishit e Noach – sono incentrati sui rapporti tra Dio e l’intera comunità umana. Questa relazione andò sempre piú deteriorandosi, fin quando, alla decima generazione, Dio distrusse l’intera umanità, salvando solo la famiglia di Noè (questo è il primo «restringimento» della visuale narrativa). Dopo altre dieci generazioni Dio sceglie come suo interlocutore uno dei discendenti di Noè, Abramo (secondo «restringimento»). Il resto della Bibbia conterrà essenzialmente la storia nei minimi dettagli della famiglia di quell’uomo virtuoso in lotta per conservare la terra promessa da Dio.
Personalmente non nutro interesse per l’aspetto territoriale e le implicazioni politiche della Lech Lecha, anche se va da sé che le promesse enunciate in questa parashah sono state di frequente citate a fini politici, cosa che del resto avviene ancora oggi (per quanto possa sembrare incredibile a dei laici, che considerano la Torah nient’altro che un’opera letteraria). A dire il vero, questa parashah affronta temi piú generali che risultano affascinanti per chi, come me, è profondamente interessato alla ricca complessità culturale di civiltà ormai scomparse, come per esempio quella austro-ungarica nell’epoca precedente la prima guerra mondiale, o alla società multietnica del periodo tra i due conflitti mondiali in città polacche come Lwów. Non da ultimo in tali storie si analizza la convivenza tra etnie stanziate in un determinato territorio o, piú di frequente, la loro reciproca conflittualità. Si potrebbe anche enucleare un altro tema: il significato del senso di appartenenza a un paese nel quale si è considerati stranieri, malgrado la consapevolezza di avere diritti radicati e inalienabili.
Ma a mio avviso l’aspetto piú significativo di questa parashah, per quanto interessante possa essere il suo implicito richiamo a questioni geografiche e culturali, è costituito da certi particolari relativi alle modalità espressive e narrative, argomenti che attraggono l’attenzione di appassionati lettorie non dei politici. Per esempio, lo stesso titolo di questa parashah è di per sé oggetto di lunghe controversie. La prima parola del titolo ebraico, lech, significa «andare, partire»; maè lo strano uso del vocabolo che segue, lecha, a confondere i commentatori. Si può tradurre piú o meno con «per te stesso»: ma cosa significa esattamente «parti per te stesso?» Come fa notare Friedman, la locuzione è stata tradotta con «Parti tu»; egli stesso, disdegnando quel che definisce una«goffa traduzione», preferisce semplicemente «Parti», mentre una recente traduzione lo rende con «Esci», imperativo che reca in sé un che di arcaico. Come al solito, Rashi si sofferma lungamente sulla questione. Alla fine suggerisce che la locuzione «per voi stessi» abbia una duplice valenza: «per tuo piacere» e «a tuo vantaggio». Perché Dio promette ad Abramo piacere e vantaggio? Perché, risponde Rashi, gli spostamenti di cosí vaste proporzioni che Abramo intraprende richiederanno un prezzo terribile. Viaggi di tale portata producono tre effetti negativi: la diminuzione delle nascite (per le coppie non è opportuno intrattenere rapporti coniugali quando si è ospiti in casa altrui, e Abramo e la moglie, Sara, non avranno una dimora fissa sino al termine della diaspora), perdita di ricchezze (a questo proposito c’è poco da aggiungere), e della reputazione – poiché in ogni luogo ove Abramo giunga per la prima volta, deve impegnarsi a costruirsi una reputazione dal nulla.
Il testo presuppone che la promessa di grandi ricompense fatta da Dio ad Abramo sia una sorta di risarcimento per le sue peregrinazioni nel mondo: sarà rinomato, il suo nome benedetto (come nota Rashi, il termine «benedizione» allude anche a beni materiali), la sua progenie sarà numerosa quanto la polvere della terra o le stelle. Nel tempo avrà dei figli, prima Ismaele, dalla schiava egiziana Agar, poi Isacco, dalla legittima consorte, Sara. Persino il suo nome si accresce di una sillaba: a metà della Lech Lecha, Dio dichiara che da quel momento egli si chiamerà «Abrahamo», e non piú «Abramo».
Forse è per via della mia formazione classica, ma quando leggo questa parashah, la storia di un uomo che si mette in viaggio attraverso lande sconosciute dove si trova di fronte amici inaspettati e acerrimi nemici, civiltà assai evolute o rozze e primitive, una figura su cui la divinità esercita una speciale protezione, guidandolo senza tuttavia facilitargli ilcammino, un racconto che mette in scena la lotta disperata di un uomo in cerca della propria terra, quando leggo tutto ciò penso piú ai greci che agli ebrei. Mi viene in mente l’Odissea di Omero. Anche in quel poema epico l’eroe sopravvive a spaventose peripezie e a viaggi che ne minano le certezze, nel tentativo di tornare in patria, e pure in questo caso egli riceve una ricompensa dagli dèi per le sue disavventure, riacquistando infine beni materiali, potere e famiglia. Ciò che mi sorprende è che, a differenza del suo omologo greco, il patriarca biblico – in realtà la Lech Lecha stessa – stranamente non sembra per nulla interessato alle terre che attraversa, non prova curiosità per le culture in cui si imbatte (e che, in ultimo, scalza dalla loro sede); credo che la differenza tra Abramo e Odisseo sia quella tra un’emigrazione irta di terribili pericoli e il ritorno alla propria casa. Qualunque sia la ragione, comunque, l’Odissea enfatizza un aspetto verso il quale la Lech Lecha pare indifferente, cioè che, viaggiando per il mondo e incontrando nuove terre, culture, civiltà, entrando in contatto con altri popoli e con i loro costumi, si ottiene una ricompensa ben maggiore: la conoscenza. È questa, dunque,l’altra benedizione, tanto maggiore quanto piú lontano ci sispinge.
Ma non sempre. Chiunque viaggi molto sa che, malgrado creda di conoscere l’oggetto della sua ricerca – la meta del viaggio – lungo la strada è possibile scoprire cose davvero sorprendenti.