4. Di nuovo a casa

(Un falso finale)

Ho creduto davvero che quello fosse l’ultimo viaggio, che fossi giunto alla fine della storia.

Al ritorno dalla Danimarca cominciai a riflettere su tutto quel girovagare, sulle informazioni raccolte; una frase di Alena continuava a risuonarmi in mente: «Più che alla storia in sé, sembrava interessata a come raccontarla» aveva detto quella sera. «A come narrarla». Riaffiorava il problema riguardante la mia generazione, di quanti avevano, diciamo, sette o otto anni a metà degli anni Sessanta, elucubrai, i nipoti di persone già adulte all’epoca di quei terribili accadimenti; una questione che nessun’altra generazione nella storia si troverà ad affrontare. Siamo talmente vicini a coloro che vissero quelle esperienze da sentirci vincolati ai loro racconti; ma ne siamo ormai, al tempo stesso, abbastanza distanti, e ora che i protagonisti di quelle vicende sono per la maggior parte scomparsi dobbiamo cominciare ad assumerci la responsabilità di tramandare i fatti. Riflettevo su questo; così miresi conto che, dopo aver percorso insieme a Matt più di sedicimila chilometri nell’ultimo anno, caratterizzato da continui viaggi, sotto certi aspetti i dati raccolti evidenziavano problemi di vicinanza e distanza.

Da un lato avevamo accumulato una gran quantità di informazioni, episodi, dettagli, grazie alla testimonianza di quanti avevano vissuto quegli eventi e che avevamo incontrato. Questo patrimonio sarebbe naufragato se non fossimo arrivati in tempo a recuperarlo da quelle persone – perché i protagonisti della nostra storia, Shmiel, Ester, le quattro ragazze di cui abbiamo finalmente appurato i nomi, sono inevitabilmente i personaggi secondari delle vicende dei sopravvissuti. Nei racconti raccolti in Australia, in Israele, in Svezia e in Danimarca, gli Jäger comparivano solo come amici, vicini, compagni di scuola, non certo come madri, padri,sorelle, fratelli, i propri cari sempre presenti nella memoria. Se non avessimo trovato i pochi superstiti di Bolechow, il ricordo di Shmiel e della sua famiglia si sarebbe perso una volta per tutte. Perché gli eredi dei sopravvissuti rammentano e documentano ciò che per loro – i Greene, i Grünschlag, i Goldsmith, i Grossbard,gli Adler, i Reinharze, i Freilich e i Kulberg – è importante, rimuovendo inevitabilmente tutti gli altri, i vicini, gli amici, i compagni di scuola, i cui nomi con il tempo sarebbero sbiaditi, esattamente quanto è successo a me, che ho rinunciato ad approfondire le vicende di altre persone in cui mi sono imbattuto nella mia ricerca sugli Jäger, secondarie rispetto alla mia storia.

Essere vivi significa avere qualcosa da raccontare. Vuol dire essere l’eroe, il protagonista di una vicenda. Quando si diventa un personaggio marginale nella narrazione di qualcun altro, allora si è davvero morti.

Eppure, nonostante tutto, se si ha voglia di raccontarne la storia, persino una figura di secondo piano può continuare a vivere nel ricordo. Cosa resterebbe di mio nonno adesso, se da ragazzo non mi fossi accucciato ai suoi piedi a imparare a memoria gli episodi che mi narrava? Naturalmente erano tutte vicende che lo riguardavano, e in quanto tali interessanti da ascoltare per il piacere della conoscenza, che caratterizza lo studioso;ma, in un altro senso, erano storie di identità familiare, particolarmente significative per tutti i discendenti, e quindi degne di essere tramandate.

Con i viaggi intrapresi ci siamo avvicinati a un passato che temevamo di aver perduto per sempre, come i parenti che in quel passato vissero, e delle cui esistenze abbiamo recuperato numerosi episodi. Ma in realtà cosa avevamo scoperto? Lui era sordo, lei aveva belle gambeed era una persona gentile, lui era intelligente, una figlia era riservata, o forse facile, a un’altra piacevano i ragazzi, o forse era difficile da conquistare. Era una farfalla! Possedeva due autocarri, portò le prime fragole, teneva la casa come uno specchio, era un pezzo grosso, giocavano a carte, le donne lavoravano all’uncinetto, era altezzosa, hoch Nase! Era una brava moglie, una buona madre, un’ottima donna di casa:che altro si può dire? Lo chiamavano «il re», lei portava i libri così, aveva gli occhi azzurri ma picchiettati di marrone,andavano al cinema, a sciare, giocavano a pallavolo, a pallacanestro, a ping pong! Fu il primo ad avere la radio, con un’antenna altissima, solo due persone a Bolechow possedevano un’automobile, e una di queste era lui. Frequentavano la sinagoga, o forse no, o vi si recavano solo per le festività piú importanti, recitavano le preghiere, cucinavamo tsimmes il primo dell’anno, sgattaiolavano nel retro di quella macelleria polacca a mangiare salsicce di nascosto! Adorava sua moglie, uh uh uh uh uh!

Erano una bella famiglia, persone molto raffinate.

Quella era vita, quella era vita.

Questo avevamo appreso dai sopravvissuti, che cominciavano a morire; scoprimmo dove vivevano, li raggiungemmo e ascoltammo quel che avevano da dirci sui nostri parenti.

Inoltre ci narrarono le loro storie, che divennero parte del nostro racconto. I nascondigli, il bunker, la soffitta, i topi, la foresta, i certificati di nascita falsi, i fienili. Conta anche il presente: le persone che conoscemmo e con cui parlammo, le loro famiglie, il cibo che ci offrirono, i rapporti cordiali inaspettatamente instaurati con tutti loro. E grazie ai viaggi, a quelle nuove amicizie, ho trovato anche qualcos’altro: un fratello mai davvero conosciuto, un uomo dalla profonda umanità e dal cuore tenero, un artista che parla poco e osserva molto, più sensibile di me ai sentimenti, a cui da bambino ruppi un braccio anche perché portava un nome di cui ero geloso.

Dunque la vicinanza, e tutto quel che comporta.

E poi? Aver conosciuto coloro che vissero quelle esperienze non risolve il problema della distanza. Innanzitutto spaziale, per la diversità dei luoghi tra i sopravvissuti e i nostri parenti scomparsi: case diverse,quindi lager diversi, e infine nascondigli diversi. A un certo punto era umanamente impossibile ricostruire il destino degli altri. Inoltre, una sorta di distanza psicologica: quando si è il protagonista di un’esistenza divenuta, per necessità, sopravvivenza bestiale, non ci si può abbandonare alle digressioni, ai voli pindarici, alle astratte divagazioni su altri personaggi. Adesso poi,ancora di più, è intervenuta la distanza temporale: i sessant’anni che ci separano da quegli avvenimenti, un baratro tra i fatti e il momento del loro racconto, un vuoto nel quale tanto si è perso.

Il tempo ha fagocitato ogni cosa, tutto è scomparso,rimane solo qualche particolare degno di nota: frammenti che, recuperato il possibile dalla memoria dei sopravvissuti, si rivelano troppo esigui e non potranno mai, ora è chiaro, formare un quadro completo.

Il ragazzo biondo non ebreo – era così innamorato di lei. Credo che fosse andata a trovare degli amici. La condussero lì e dopo un giorno e mezzo la fecero salire su un’asse sopra un fosso e la uccisero con una raffica di mitra. Ascoltava il pianoforte, mentre costringevano qualcuno a sedersi su una stufa rovente. Fu violentata. Forse la violentarono, è probabile. La prima Operazione ebbe luogo in ottobre. Faceva freddo. Li rastrellarono e li caricarono su carri bestiame, destinazione le camere a gas, fu nella seconda Operazione. Era settembre. Era agosto. La madre, il padre e la figlia minore. La madre e la figlia. Lavorava in una fabbrica di barili, riuscì a lavorare all’interno, mentre gli altri erano costretti a lavorare all’aperto, al gelo! Era ancora viva nel ‘41, era ancora viva nel ‘42,l’ultima volta la videro con Zimmerman. No, era con Halpern, era molto fedele alla sua sympatia, era una ragazza facile, chi lo sa? Si unì ai fratelli Babij, venne uccisa con loro nel ‘43, chi può dirlo?, l’ultima persona che la vide andò via nel ‘42. Un giorno venne nell’Arbeitsamt, parlò con una ragazza di nome Lew e con un certo Altmann. L’amica la abbracciò e le disse: «Forza, dammi un bacio». Furono tenuti tre giorni nel cortile e videro bambini scaraventati giù dalle finestre, mentre la signora Grynberg stava lì, incredula, con pezzi di placenta tra le gambe insanguinate. Si rifugiò dai Babji con la sorella. Rimase in città. L’amava così tanto. La nascose a casa sua. Zey zent behalten bay a lererin. Un’insegnante polacca la nascose a casa sua. Era incinta. Una maestra polacca li nascose a casa sua. Era incinta di qualcun altro, non di Ciszko. La domestica li tradì, un vicino li vide. Era sola, era con suo padre. Era Ciszko, era un’insegnante di disegno. Una donna. Sedlak. Shedlak. Serlak.Szedlak. Szedlakowna. Szedlakowa. Nessuno sa dove viveva.

Impossibile stabilirlo.

Anni fa cominciai la mia lunga ricerca nella speranza di scoprire com’erano morti, volevo una data precisa da segnare su un diagramma, perché mio nonno, che da ragazzo mi portava nei cimiteri dove si fermava a parlare con i defunti, un uomo che sapevo pieno di difetti eppure adoravo e che, vittima di un esaurimento nervoso, si era tolto la vita, avrebbe riposato in pace – un’idea romantica, lo riconosco – se fossi riuscito a trovare una risposta alla domanda alla quale immancabilmente reagiva ripetendo la domanda stessa e scrollava le spalle,scuotendo il capo: «Cosa accadde a zio Shmiel?» Il che significava che non ne avrebbe parlato. Si chiudeva in un mutismo per lui insolito, e io mi riproponevo di trovare prima o poi la risposta: accadde lì, il tal giorno; così ci saremmo recati dove riposava, avremmo messo una pietra sulla sua tomba e avremmo parlato anche con lui, con Shmiel. Ci siamo imbarcati in quest’avventura per scoprire come, dove e quando era morto, lui e la sua famiglia, per lo più senza successo. Ma da questa impresa fallimentare è emerso, quasi per caso, quel che nessuno si aspettava di scoprire, un dato che non può essere trascritto su un diagramma: chi erano, com’erano vissuti. Al ritorno da Copenaghen avevo ormai compreso l’ironia di tale epilogo: alla fine avevamo acquisito molte più informazioni su aspetti che esulavano dalla nostra ricerca rispetto a ciò che ci eravamo proposti di scoprire. D’altra parte, era questo il risultato dei nostri viaggi.

Era per via della distanza, riflettevo al termine di tutte quelle spedizioni, che in ultimo non sarei riuscito a ricostruire la storia come mi ero proposto di fare, con un inizio, uno svolgimento e una fine. Una vicenda che,come quelle narrate da mio nonno, partiva da lontano,si faceva serrata man mano che se ne delineavano i contorni, si definivano i personaggi e la trama, per arrivare a una conclusione memorabile, una battuta o un dramma destinati a rimanere impressi nella memoria. Avevamo scoperto ben più di quanto credevamo possibile, eppure, in definitiva, non ero in grado di raccontare tutta la storia, né di recuperarla dal passato, per loro,per mio nonno, o anche per me.

Nondimeno, per un certo periodo dopo quell’ultimo viaggio in Danimarca, meditando sul problema della vicinanza e della distanza, sugli avvenimenti e su come ricavarne una vicenda compiuta, ripensavo alle parole di Alena riguardo alla tesi della figlia di alcuni amici sulle traversie della nonna. Da una parte c’era la protagonista, colei che aveva vissuto quelle esperienze terribili, ben felice di raccontarle a una persona più giovane interessata ad ascoltarla come sua nipote, e come me. Dall’altra la nipote, che a causa della distanza, gli anni trascorsi e i vuoti di memoria, doveva inevitabilmente riempire quegli spazi per trasformare i dati grezzi in una storia completa in sé. In fondo, tutto ciò si poteva interpretare come una sorta di metafora dell’eterno conflitto tra gli avvenimenti e il racconto che si fa di essi, con l’inevitabile successo del narratore, pur nell’evidenza dei suoi limiti. I particolari degli accadimenti reali occorsi alla nonna in un dato momento dovevano essere inseriti in un quadro unitario elaborato dalla nipote, un po’ come i sassolini o le tessere usate dagli artisti greci e romani venivano incastonati nella malta o nel cemento secondo un disegno ideato dall’artista,senza il quale quei tasselli – rilucenti pietre semipreziose, di onice, quarzo, diaspro, o semplici cocci di pietra locale che fossero – non sarebbero stati altro che graziosi frammenti di pietra.

Si potrebbe anche dire che la vicinanza ci accosta a quel che accadde, è responsabile dei fatti che raccogliamo, dei reperti in nostro possesso, delle citazioni testuali; ma è la distanza a trasformare in racconto i fatti, a concedere la libertà necessaria di organizzare e dare forma a quei lacerti in un quadro unitario coerente e soddisfacente – per esempio, prendere tre testimonianze rese da una persona e raccolte nel corso di tre serate diverse e assemblarle per creare un effetto drammatico ben più efficace che se fossero riportate in tre diversi capitoli di un libro.

Per un lungo periodo dopo l’ultimo viaggio, l’idea della prevalenza della distanza, del narratore, mi parve interessante e seducente. Perché no? Dopo tutto sono l’epigono di mio nonno, un uomo (come si raccontava quand’ero bambino) che andava al supermercato per comprare mezzo litro di latte e tornava con una strabiliante storia da raccontare. A chi abbia qualità del genere, tramandate dalla propria famiglia, basta poco per creare una storia.

Per questo, quando tornai dalla Danimarca e visionai per l’ennesima volta le numerose videocassette con le immagini girate durante i nostri viaggi, analizzando tutti i racconti ascoltati, pur consapevole di non essere approdati alla storia compiuta che bramavamo di scoprire, decisi: «Basta così». Genug ist genug.

Ero convinto di essere giunto al termine della ricerca.