Parte quinta

Vayeira

ovvero

 

L’albero nel giardino

(8 luglio 2005)

 

... La condizione mentale di chi «osserva» è di gran lunga inferiore a quella di chi crea.

Marcel Proust,

All’ombra delle fanciulle in fiore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il funerale della signora Begley ebbe luogo la mattina di un freddo e luminoso martedì di fine dicembre. Era morta il sabato, due giorni prima del novantaquattresimo compleanno. Come al solito aveva ragione: non ero riuscito a terminare in tempo il mio libro.

La sua salute era peggiorata negli ultimi mesi. «Non mi sento ppene, non sto ppene per niente» replicava in modo brusco ogni volta che la salutavo al telefono con la banale frase di rito: «Come sta?». Conoscevo bene la risposta. Malgrado le pessime condizioni fisiche, la mente era lucida come al solito. Ascoltava con attenzione il resoconto dei miei viaggi, i progressi delle ricerche e del libro che stavo scrivendo. Un pomeriggio la chiamai per comunicarle la notizia della morte di Dyzia Lew in Bielorussia, motivo per cui non saremmo più andati a Minsk; mi sorprese la sua commossa partecipazione. «Ce ne stiamo andando tutti, uno dopo l’altro» commentò con voce inespressiva. Leggeva sempre il Times e la New York Review of Books da cima a fondo, e durante tutto il 2004 mi chiamava spesso per commentare i miei articoli. Un mese prima della sua dipartita, durante una conversazione telefonica in cui si parlò dei drammaturghi greci,rispolverò una storia che mi aveva già narrato un giorno di gennaio di quasi cinque anni addietro, davanti alla prima delle numerose tazze di tè che mi avrebbe offerto,quando, un po’ sulle spine, accettai il suo invito e mi recai a farle visita. Appena terminata la guerra, il primo evento culturale organizzato in Polonia fu la rappresentazione dell’Antigone di Sofocle. Ne è eroico protagonista un individuo che si oppone strenuamente a un governo totalitario e muore per i suoi ideali. Eppure, rifletto spesso, esistono forme di resistenza del tutto sconosciute all’universo morale della drammaturgia greca, come la mera sopravvivenza. Così, quando mi capita di tenere corsi sulla tragedia greca, ai miei studenti racconto entrambe le storie: quella dell’Antigone rappresentata in Polonia dopo la guerra, e la vicenda della signora Begley,che si salvò nascondendosi.

«I greci» disse con un sospiro grave, «i greci, il teatro, li conoscevo, non mi perdevo uno spettacolo».

Ma il suo fisico stava cedendo, sebbene evitassi, come sempre, di pensare alla fine, all’inevitabile approdo di quello sfacelo. Quando mi recavo da lei a Lexington Avenue mi informava puntualmente dei suoi problemi alle ginocchia: ormai non mi accoglieva più sulla porta, ma aspettava sulla poltrona preferita accanto al condizionatore spento, o seduta al tavolo della sala da pranzo sulla sedia più vicina alla cucina, i vassoi con il salmone affumicato, il pane e una montagna di pasticcini già serviti.«Che importa se sono immobilizzata qui?» ridacchiò mestamente al telefono un giorno di metà agosto, qualche mese prima di morire, durante un black out che aveva colpito New York. «Tanto non posso muovermi!».L’avevo chiamata dal mio appartamento sulla Settantunesima strada (lei abitava alla Novantaquattresima), per sincerarmi se avesse bisogno di qualcosa. Il telefono collegato alla rete elettrica era fuori uso come tutti gli elettrodomestici, ma avevo recuperato un vecchio apparecchio dal ripostiglio, un modello massiccio risalente al1950, acquistato per un ghiribizzo al mercato delle pulci. Non funzionava a elettricità, proprio come quello della signora Begley. Mentre componevo laboriosamente il numero, aspettando che il disco tornasse indietro a ogni cifra, con un rumore che non sentivo da anni, mi ricordai di mia madre che parlava al vecchio telefono in cucina,mentre accennava con la testa bionda in direzione della casa dei vicini. Componendo il numero ero sicuro dimettermi in contatto con lei. Rispose con voce sorprendentemente divertita, come se l’eccitazione per il blackout che aveva paralizzato la città avesse recato giovamento alla sua salute compromessa. Mi assicurò che stava bene e che non aveva bisogno di niente.

Dalla finestra rivolta a oriente si profilavano gli edifici bui; giocherellando con il pesante ricevitore, le feci notare: «Probabilmente siamo gli unici abitanti di New York che parlano al telefono!».

«E sa il motivo?» bofonchiò. «Perché solo noi abbiamo telefoni così! Perché a noi piacciono le cose antiche! Ah!».

Aveva problemi alle ginocchia. Un deficit di sodio, o calcio, o forse era potassio, non ricordo esattamente i nomi delle sostanze chimiche che circolavano troppo dense o troppo fluide nel suo sangue. Era una condizione frustrante, che le procurava una sorta di afasia e la faceva imbestialire. Nel bel mezzo di una conversazione, d’improvviso manifestava una rabbia impotente, e se ne usciva: «Ecchhh, non riesco a concentrarmi, capisce?». Non sempre capivo, ma rispondevo: «Non si preoccupi, signora Begley, non fa niente». Comunque, nei mesi precedenti il decesso le erano rimasti ben chiari nella mente due concetti: quelli espressi dagli aggettivi sentimentale e più bello.

In ultimo si ammalò di polmonite, che, tra alterne vicende, la condusse infine alla morte.

La cerimonia funebre si tenne nella cappella di Madison Avenue; la bara di pino, spoglia come da tradizione,era sistemata in un modesto ambiente con semplici panche di legno smaltato. Erano presenti una ventina di persone: a parte i parenti stretti erano quasi tutti amici del figlio, e pochissimi, come me, anche suoi. Nella piccola anticamera dove ci radunammo in attesa della funzione, una minuscola donna anziana, rattrappita come un idolo tribale, sedeva su un divanetto, vestita in modo sorprendentemente elegante: un cappellino di feltro dai colori sgargianti, un abito confezionato su misura, un vistoso paio di occhiali. Solo le scarpe, dalla foggia stravagante e le suole spesse, sembravano fuori luogo. Dimostrava cento anni, e in effetti, come scoprii, li aveva quasi. Anka, la moglie di Louis, mi prese per mano e mela presentò: «Questa signora era una vicina di casa della signora Begley a Stryj». L’anziana donna alzò gli occhi ingigantiti dalle lenti, e squadrandomi disse: «Conosco Louis da quando era in fasce! Adesso sono rimasta solo io».

Per una volta non mi andava di avviare una conversazione con una vecchia signora ebrea; mi limitai ad annuire e tornai alla chetichella al mio posto, evitando accuratamente ogni contatto con gli astanti. L’ultimo funerale di una persona nata in Galizia cui avevo partecipato era stato quello di mio nonno, e tra l’emozione,i pianti di mia madre e degli altri parenti, il tempo era stranamente volato via. Avevo venti anni. Stavolta avevo superato i quaranta. Ero cosciente della perdita.

Durante la breve cerimonia tirai fuori una fotografia scattata quattro anni prima, il giorno in cui mi aveva invitato a pranzo per festeggiare il ritorno dall’Ucraina. La ritrae seduta al tavolo, la mano curata con le vene ingrossate poggiata sulla tovaglia, lo sguardo circospetto verso l’obiettivo, l’occhio sano semiaperto, il viso affilato dai tratti tipicamente mitteleuropei, l’espressione non ostile ma distaccata e stanca. Intanto suo figlio stava tenendo il discorso funebre – «Ma qualcosa in lei si era spezzato» osservò a un certo punto – poi sul pulpito salirono i nipoti e la pronipote della signora Begley, un’adolescente vivace, con i capelli scuri, le labbra carnose e occhi dallo sguardo sognante. Sono convinto che assomigli straordinariamente alla sua bisnonna da giovane. Conobbi questa ragazza la stessa sera in cui incontrai per la prima volta la signora Begley, quando mi schernì correggendomi la pronuncia, «Bo-LEHkhoof!». Rammento di aver esclamato: «Oh, assomiglia moltissimo alla sua bisnonna!», frase adatta come incipit di un libro da scrivere tra trent’anni. Mentre i familiari della signora Begley ricordavano la defunta, tirai fuori questa fotografia e mi misi a contemplarla, accarezzandola delicatamente con le dita, come aveva fatto mia madre con un’immagine di mio nonno, quel lontano giorno di giugno del 1980, quando la nuda bara di pino fu calata nella terra del cimitero di Mount Judah; l’accarezzava, mentre un rabbino che non aveva conosciuto il defunto officiava meccanicamente il rito funebre, in modo impersonale, non comunicando quindi alcun dettaglio significativo sulla persona le cui spoglie stava affidando alla terra, e mormorava in continuazione: «Di’ che persona divertente era, com’era spassoso!».

Questo avveniva un quarto di secolo prima. Adesso era venuto il momento di seppellire la signora Begley, che mi aveva dato una seconda opportunità di conoscere qualcuno della generazione e dell’estrazione culturale di mio nonno, di porre domande che non avrei saputo formulare a venti anni. Al termine della funzione la sala si svuotò lentamente. Indugiai fin quando non rimasi solo; andò via anche la vecchia signora, un tempo una fanciulla dal volto roseo in una città lontana, che mi figuravo avesse vezzeggiato il neonato della sua vicina chiamandolo per nome, «Ludwik, Ludwik!» e accarezzandone la morbida carne. Mi sentivo a disagio, non volevo lasciarla sola in quella sala asettica dal soffitto alto; e poi sapevo che, una volta attraversato l’ampio ingresso per unirmi ai suoi familiari radunati nel corridoio per ricevere le condoglianze, non l’avrei mai più rivista. Feci per allontanarmi, ma qualcosa mi trattenne; esitavo, come bloccato da una forza fisica, una mano serrata sulla spalla. Mi voltai. Incurante di essere visto o di apparire ridicolo, percorsi la fila centrale tra le panche e mi avvicinai a passo rapido alla bara. Posai la mano sul legno grezzo, maculato di nodi scuri, simili alle macchie sulla mano di un vecchio, e la accarezzai, come fosse il braccio di una persona anziana, delicatamente, e con un bisbiglio rassicurante mormorai: «Le ho voluto davvero tanto bene, Signora Begley, mi mancherà molto».

Poi mi allontanai. Ma prima di arrivare alla portami fermai di nuovo e tornai indietro, per darle un ultimo saluto – dopo tutto sono un sentimentale – e infine andai via, e quella fu l'ultima volta che parlammo.

Pur non essendo la conclusione della Genesi, la parashat Vayeira, che prende il nome dalla manifestazione divina ad Abramo con la quale inizia – Egli Apparve – rappresenta, a mio avviso, una conclusione valida e appropriata, avvincente da un punto di vista drammatico e al tempo stesso appassionante per le questioni morali che solleva. Essa raccorda fra di loro le prime poche parashot della Bibbia che tracciano l’evoluzione del Popolo Eletto, restringendo sempre più la visuale man mano che la narrazione procede: dall’enorme, colossale, universale dramma della Creazione del mondo e di tutti gli esseri viventi sino, come attraverso una serie di scatole cinesi sempre più piccole, alla storia di una specie, l’umanità, quindi alle vicende di una determinata famiglia, e infine di un uomo prescelto da Dio, Abramo, il primo ebreo. La storia di Abramo e dei suoi rapporti con Dio, verso il quale fu il primo a manifestare un autentico timore religioso, termina con la parashat Vayeira, che a sua volta culmina con due celebri, sconvolgenti racconti.

Il primo, la storia della distruzione da parte di Dio di Sodoma e Gomorra, ricapitola temi già apparsi nella Genesi, ma esplora con maggiore profondità le implicazioni morali dell’essere eletto. Tanto per cominciare, presenta un altro esempio di annientamento operato da Dio: la sua decisione di distruggere un numero tutt’altro che insignificante di esseri umani – l’intera popolazione di due grandi città – quale punizione per la loro malvagità, evento che non può non richiamare alla mente un precedente, descritto nella Noach, lo sterminio dell’intera umanità con l’eccezione di Noè e della sua famiglia. Quella decisione solleva inquietanti interrogativi circa la possibilità che insieme ai colpevoli periscano anche degli innocenti – problema morale che viene affrontato compiutamente nella storia di Sodoma e Gomorra. Inoltre, poiché istituisce un netto confronto tra eletti e non eletti, vale a dire tra la scelta del bene e quella del male, è come se la parashat Vayeira presentasse al lettore un’ulteriore – forse finale e più raffinata – serie di quegli atti di differenziazione così memorabilmente descritti all’inizio della Genesi. Perché come abbiamo visto, l’atto della separazione è il segno distintivo della creazione stessa.

Queste e altre ricorrenze tematiche mi inducono a pensare che la parashat Vayeira sia stata concepita come una conclusione, un epilogo. La caratteristica ciclica del testo riguarda non solo i temi e i motivi principali, ma anche i dettagli secondari. Per esempio: in questa lettura apprendiamo che dopo la distruzione delle città gemelle, come Sodoma e Gomorra sono spesso chiamate, Abramo e Sara si recano nel Negev, nella città di Gerar. Qui, proprio come aveva fatto in Egitto, il patriarca fa passare la moglie per sua sorella, con il risultato che, esattamente come già capitato, il sovrano del luogo l’accoglie nella propria famiglia, e non la tocca solo per l’intercessione di Dio in persona, che lo ammonisce in sogno. Quali intenzioni questo re, Abimelec, avesse sulla novantenne Sara non è chiaro, ma il motivo ricorrente del patriarca che mente riguardo alla moglie, per quanto a questo punto paia inverosimile, ha certo lo scopo di rinviare il lettore, nel momento in cui la storia dei viaggi di questa coppia volge al termine (poiché Sara muore all’inizio della parashah seguente), al punto in cui ebbero inizio quelle peregrinazioni. Certi tipi di manipolazione della verità riescono pienamente nel loro intento se la forma narrativa è perfettamente compiuta.

E così arriviamo alla storia di Sodoma e Gomorra. La seconda delle storie portanti narrate nella parashat Vayeira, quella del sacrificio di Isacco, suggerisce abilmente – poiché implica la relazione tra un genitore e il giovane figlio, così come con il padre divino – il fatto che ognuno di noi rappresenta un ponte tra passato e futuro; e introducendo in ultimo Isacco come personaggio a tutto tondo, questo racconto gettale fondamenta per la vicenda dei discendenti di Abramo, che accompagnerà i lettori fino al termine della Bibbia stessa. Ciò che segue, comunque, non ci interessa in questa sede poiché,come ho detto, quando da giovane studiavo superficialmente la Torah prima di riprendere i miei amati greci, mi fermai alla parashat Vayeira. Per cui è qui che ci fermeremo.

Tornerò in seguito sulle storie individuali; a questo punto credo valga la pena cercare di interpretare uno degli episodi più celebri della Vayeira, non fosse altro perché entrambi i commentari che ho scelto per gettare luce su questi testi,l’antico e il moderno, quello di Rashi e quello di Friedman, mi sembra che non riescano a chiarire il significato di questo strano e celebre episodio. Mi sto riferendo alla nota storia della moglie di Lot – di come, mentre lei, il marito e due figlie vengono salvate dalla città condannata per intervento dell’angelo di Dio, che li trascina via dalla loro casa, la moglie di Lot viola l’ordine esplicito del messaggero divino di non voltarsi a guardare la città, e per tale trasgressione viene trasformata in una colonna di sale.

Trovo davvero sorprendente che Friedman non abbia nulla da dire su questo affascinante racconto – forse perché riserva tutte le sue argomentazioni esegetiche al tema più importante, la ben più inquietante storia della disponibilità di Abramo a uccidere il proprio figlio. Nemmeno la spiegazione di Rashi, per una volta, mi appare persuasiva. Lo studioso medievale francese comincia con lo spiegare che l’ordine impartito dall’angelo di non «guardare dietro» è una sorta di punizione: chiosa le parole «Non guardarti indietro» suggerendo che, poiché Lot e la sua famiglia avevano peccato esattamente come gli abitanti delle città gemelle, e poiché vengono salvati solo per il legame di parentela con Abramo, il buon patriarca, non hanno alcun diritto di assistere alla punizione dei condannati. «Non meritano di vedere la punizione loro comminata mentre vengono salvati» scrive il commentatore francese. Riguardo al destino della moglie di Lot, Rashi spiega il bizzarro dettaglio della sua metamorfosi da essere umano a minerale affermando che lei «ha peccato con il sale» e quindi «con il sale viene punita». Il peccato con il sale si riferisce a una tradizione midrashica secondo cui la moglie di Lot aveva lesinato il sale agli ospiti (secondo la stessa tradizione, in seguito, con il pretesto di prendere a prestito del sale dai vicini, la moglie di Lot riferisce alle autorità di Sodoma le azioni di suo marito, uno straniero – cosa che ci fa ritenere che presumibilmente sia nativa di quella città). Per quanto geniale possa essere questa spiegazione, mi sembra che non colga affatto la valenza emotiva del testo – la splendida e asciutta rappresentazione di certi sentimenti dolorosi che molti ben conoscono: il bruciante rimpianto per il passato che si è costretti ad abbandonare, il tragico desiderio di ciò che bisogna lasciarsi alle spalle. Sarà forse per la mia formazione classica, ma leggendo la spiegazione di Rashi di questo brano mi ha colpito quanta poca attenzione sia dedicata dal testo ebraico e dai suoi commentatori a quella che a me pare l’ovvia questione posta dalla storia di Sodoma e Gomorra: il valore della bellezza e del piacere. Non bisogna dimenticare che Abramo è nato in una città, ma ha trascorso la maggior parte della sua esistenza da nomade, come è chiaro dalla parashat Lech Lecha; forse a quel punto ha dimenticato i piaceri che la vita urbana può offrire. Al contrario, la moglie di Lot è profondamente legata alla sua città – Rashi la considera una «metropoli» – e possiamo immaginare che, come tutte le grandi metropoli, quella che appare nella parashat Vayeira offriva indubbiamente la sua parte di bellezza,di esclusivi e raffinati piaceri, tra i quali certo i vizi per i quali venne infine castigata. Ma forse è il pagano e l’ellenista che è in me a spingermi a parlare così (al contrario, il rabbino Friedman non prende nemmeno in considerazione l’intenzione degli abitanti di Sodoma di violentare i due angeli di sesso maschile, quando questi si affollano attorno alla casa di Lot all’inizio della storia, interpretazione questa accettata senza troppa enfasi da Rashi, il quale sottolinea disinvolta-mente che se gli abitanti di Sodoma non avessero desiderato ottenere il piacere sessuale dagli angeli, Lot non avrebbe offerto loro per salvarli, in modo alquanto sorprendente, le sue due figlie. Ma dopo tutto Rashi era francese).

È questa incapacità intrinseca a comprendere Sodoma nel suo contesto, un’antica metropoli del Medio Oriente, luogo di sofisticati, persino decadenti piaceri e bellezze ultraraffinate, a determinare l’impossibilità del commentatore di percepire il significato autentico dei due elementi fondamentali del racconto: l’ordine impartito dall’angelo alla famiglia di Lot di non voltarsi indietro a guardare la città durante la fuga e la trasformazione della moglie di Lot in una colonna di sale. Perché se si considera la città di Sodoma in tutto il suo fascino – a maggior ragione per chi è costretto ad abbandonarla per sempre, un po’ come succede per i parenti defunti, ritenuti sempre in qualche modo più belli e più buoni di quelli ancora in vita – allora apparirà chiaro che a Lot e alla sua famiglia viene proibito di guardare indietro non per punizione,bensì per una ragione pratica: perché il rimpianto per ciò che si è perduto, per il passato che si è abbandonato, spesso mina ogni tentativo di ricominciare una nuova vita, che è proprio quel che Lot e la sua famiglia devono fare, come un tempo Noè e i suoi cari, come in realtà tutti i sopravvissuti a un orripilante sterminio. Questa spiegazione a sua volte aiuta a chiarire la forma assunta dalla punizione subita dalla moglie di Lot – se di punizione si tratta, cosa che sono portato a non credere, poiché mi pare molto più simile a un processo naturale, l’inevitabile conseguenza del suo modo di essere. Perché coloro che per indole sono costretti a guardare al passato, a ciò che è stato, piuttosto che al futuro, corrono il grande pericolo dell’infelicità, quell’autocommiserazione che i greci, e forse anche l’autore della Genesi, riconoscevano non solo come una sofferenza, ma anche come una sorta di piacevole narcosi: una dolente contemplazione talmente perfetta e cristallina da condurre infine alla stasi assoluta.

 

«Oh, Daniel, non tornare indietro!» mi supplicò una sera mia madre, qualche mese dopo il funerale della signora Begley.

Le avevo chiesto di rievocare alcuni ricordi. In quel periodo ripensavo spesso al viaggio di mio nonno in Israele nel 1956, e qualche giorno prima l’avevo pregata di ripescare alcune fotografie che potevano tornarmi utili – non certo per rinfrescarmi la memoria, visto che all’epoca non ero ancora nato, ma per avere un riscontro visivo alle storie così spesso ascoltate. Con tipica meticolosità tedesca, mi aveva invitato a richiamarla dopo qualche giorno, per darle il tempo di recuperare e scartabellare con calma gli album fotografici laboriosamente avvolti in carta velina, che dall’età di otto anni mi hanno sempre ricordato le bende di una mummia. Quel giorno d’estate, non più di un mese fa, mi assicurò di averli tirati fuori tutti, e mi descrisse alcune foto, mettendo da parte quelle che avevo specificato.

«Ecco Nana» esclamò a un certo punto, «è seduta su una sedia a sdraio sulla nave, stava così bene quell’anno». Poi l’istantanea di sua madre che sorride bonaria, alla festa inaugurale del viaggio nella cabina del capitano, abbracciata alla cognata, zia Sylvia, come al solito ingrugnata, e Minnie Spieler che, fedele alla leggenda di donna bohémienne, sfoggia un audace completo da uomo con tanto di cravatta. E altre fotografie riposte alla rinfusa nell’album con l’etichetta VIAGGIO ISRAELE – STATI UNITI, che non andavano lì, come osservò sorpresa e lievemente irritata. Ed ecco la foto dell’unico zio materno, Jack, l’attraente scapolo che non godeva delle simpatie del cognato (perché troppo simile a lui, riflettei mentre descriveva le immagini), e quella della sorella maggiore della madre, che aveva dei problemi mentali; ricordo che negli ultimi anni di vita rifiutava di fare il bagno perché convinta che i russi le avessero messo degli elettrodi nei capelli, aneddoto che da ragazzi ci faceva morire dal ridere. Era lei che aveva cercato di impedire il matrimonio dei miei nonni. Questa storia mi era ben nota sin da quando avevo dieci anni,un cavallo di battaglia nel repertorio postprandiale di mio nonno: come Pauline per ben tre volte aveva brigato per far rompere il fidanzamento, con la motivazione che la sorella minore, americana autentica nata a New York, non poteva sposare un uomo di condizione sociale inferiore, un immigrato appena sbarcato negli Stati Uniti. «Ma l’amore trionfò!» scherzava mio nonno; e anni dopo, quando ormai si era fatto una posizione,avendo rilevato la fabbrica dei Mittelmark, e viveva agiatamente in Florida, quella stessa Pauline una sera era andato a trovarlo, in occasione della Pasqua ebraica, e per festeggiare l’evento mia nonna aveva preparato la sua famosa zuppa e i dolci che non poteva mangiare. Lei gli aveva detto: «Sai una cosa, Abe? Sei sempre stato il mio cognato preferito!». Al che mio nonno, non lasciandosi sfuggire l’occasione, aveva replicato: «Ahhh, Pauline... e così adesso sono diventato un autentico Yankee!».

Cosa del resto vera. Nessuno giurava fedeltà alla bandiera a voce più alta di lui, nessuno ne sventolava una più grande in occasione del Memorial Day, o offriva più coni gelato il 4 luglio. Del resto, si era sobbarcato un lungo viaggio per tutto questo.

E così mia madre riesumò queste vecchie storie dagli album di famiglia, che ama sistemare con quel suo ordine maniacale, perché cento anni prima di quella nostra conversazione un mezzano di Bolechow aveva scelto per il giovane vedovo Elkune Jäger una ragazza di Dolina a nome Taube Ryfka Mittelmark, Mittelmark, una famiglia, come amavano ripetere, nelle cui vene scorreva sangue tedesco, il che spiegava il gusto per l’ordine, e i cui geni tramandavano nasi dritti, occhi azzurri e la predisposizione al tumore del colon. Fu in quel frangente, mentre mia madre scartabellava le foto perfettamente ordinate, che le comunicai la mia decisione di tornare in Ucraina, a Bolekhiv (dovrò chiamarla così d’ora in poi, poiché so che non ci tornerò mai più. Ormai non c’è più nulla da vedere, nulla è rimasto di Bolechow – e quindi sono disposto a permetterle di rivivere nel presente). Le dissi che non mi allettava l’idea di un altro viaggio – per giunta, in un posto dove eravamo già stati, dove avevamo già parlato con delle persone e visto quel che c’era da vedere – ma in quel momento reputavo che così avrei concluso la ricerca iniziata tanto tempo prima. Chiarii la mia convinzione:il ritorno a Bolekhiv, più di ogni altra cosa, avrebbe segnato la parola fine. Certo, molte vicende sarebbero rimaste avvolte nel mistero, ma mi sarebbe piaciuto mettere a confronto le due esperienze: camminare di nuovo per le strade tortuose della città, stavolta forte di ben altre informazioni rispetto a quel primo viaggio di quattro anni prima, quando dei nostri parenti conoscevamo a mala pena i sei nomi. Questa volta avevo i taccuini pieni di dati, i nastri registrati, le storie, le descrizioni,le mappe che Jack e Shlomo avevano meticolosamente tracciato e poi spedito via fax, la miriade di notizie raccolte in quattro anni, che mi avrebbero permesso di percorrere fiducioso le vie della città di origine della mia famiglia, ormai in grado di affermare: «Questa è la strada dove vivevano, via Dlugosa, e qui, a cinque metri dal Magistrat, sorgeva la macelleria, lì c’era la scuola, l’edificio della Hangar, laggiù il Dom Katolicki, e quella è la strada per Taniawa, là c’era il negozio della famiglia Szymanski, quella è la strada che porta alla stazione ferroviaria, quello il binario che conduce a Belzec». Questa volta qualcosa sapevamo, anche se non tutto quel che desideravamo, e pensavo di poter concludere la ricerca comparando le conoscenze acquisite con l’ignoranza assoluta del primo viaggio. Certo, il tempo aumenta la distanza, ma in extremis eravamo riusciti ad approssimarci quel tanto che bastava ad acquisire alcune informazioni. Non arriveremo mai alla certezza assoluta, una data, un luogo,eppure la mole di notizie ricavata dalle nostre ricerche era notevole. Quest’ultimo viaggio avrebbe rappresentato un epilogo, anche se, per quanto ci fossimo avvicinati, i miei parenti scomparsi sarebbero rimasti comunque lontani.

Comunicai tutto questo a mia madre; lei reagì con un sospiro. «Devi proprio tornarci?» chiese preoccupata. «Tu e Matt non siete già stati dappertutto?» aggiunse con quel caratteristico schiocco della bocca che fa quando si rassegna a una decisione sbagliata: un suono tipo «tch, tch» prodotto dalla lingua che batte contro la volta del palato. Probabilmente era un’abitudine trasmessale dalla madre, che a sua volta l’aveva ereditata dalla sua, e così via, un filo che si snodava sino in Russia, risaliva indietro, al diciassettesimo secolo, a Odessa nel sedicesimo secolo, e si perdeva nella notte dei tempi; un filo che da quel pomeriggio di giugno del2005, quando mia madre mi supplicò di non tornare a Bolechow, si snodava fino al giorno del suo matrimonio a Manhattan nel 1953, a quello dei suoi genitori nel Lower East Side nel 1928, al giorno delle seconde nozze di Elkune Jäger a Bolechow nel 1894, a quello dei suoi genitori nella stessa cittadina nel 1846; al giorno in cui l’architetto Ignaz Reiser concepì un progetto che avrebbe visto la luce con le arcate in stile moresco dell’ingresso della Zeremonienhalle nella nuova parte ebraica del cimitero di Vienna, al giorno in cui un impiegato austriaco dell’anagrafe, in un borgo che si chiamava Dolina, scrisse le parole «Il nome della madre di questo figlio illegittimo è...», al giorno in cui Ber Birkenthal decise di affidare le proprie memorie alla penna del suo ebraico elegante, al remoto giorno in cui un ignoto slavo stuprò una ragazza ebrea in un villaggio nei pressi di Odessa,trasmettendo il gene di un particolare colore di capelli e di occhi nel corredo genetico di una famiglia che si sarebbe chiamata Cushman; un filo che si svolgeva di continuo, fino a quella domenica del 1943 quando i primi mezzi carichi di ebrei partirono dalla stazione ferrovia-ria di Salonicco, a un mercoledì del 1941 quando la prima Operazione di Bolechow vide la conclusione nella radura di Taniawa, a un venerdì di marzo all’alba del Rinascimento, quando Ferdinando e Isabella di Spagna firmarono l’editto di espulsione degli ebrei, al martedì di maggio del 1420 che vide il duca Alberto V espellerei giudei da Vienna, a un venerdì del 1306 in cui Filippo il Bello cacciò gli ebrei dalla Francia, confiscando i prestiti loro dovuti dai cristiani, al martedì del 1290 quando Edoardo I espulse gli ebrei dall’Inghilterra, sino al Medio Evo, al periodo in cui Saadia Gaon esponeva lesue dotte argomentazioni davanti al califfo di Baghdad,al momento in cui il primo dei Caraiti dichiarò l’allontanamento dall’ortodossia ebraica; e, tornando ancora più indietro nel tempo, questo particolare insignificante aveva creato di madre in figlia un legame, un percorso che in teoria si potrebbe seguire proprio come l’eredità mitocondriale, quel patrimonio genetico unico,trasmesso solo in linea materna, puro rispetto ai cromosomi del padre, determinando una catena ininterrotta che dal presente si perde nella notte dei tempi. Forse,fantasticai sentendo mia madre produrre quel suono indice di disapprovazione, si poteva risalire, di era in era, al momento in cui una donna dai capelli scuri, gli occhi neri, il naso aquilino, in una città da lungo tempo scomparsa, Ur, un pomeriggio lo aveva emesso quando suo figlio Abramo le aveva annunciato l’intenzione di lasciare la casa paterna per non farvi più ritorno.

«Sì» confermai a mia madre, quel giorno che osservava le fotografie del viaggio in Israele. «Devo proprio andare».

Poi, per tranquillizzarla, la informai che mi sarei recato a L’viv per scrivere un articolo di viaggio da pubblicare su una rivista alla quale collaboravo. «Vale comunque la pena di partire, anche se non dovessi scoprire niente di nuovo a Bolekhiv».

Mia madre produsse di nuovo quel suono. Percepivo in sottofondo il fruscio della carta, mentre riavvolgeva le fotografie, i menu e le liste dei passeggeri nelle buste e riponeva i sacchetti di plastica nelle scatole di cartone.

«Va bene» si arrese. «Ma dopo questo viaggio, genugist genug, siamo intesi?».

«Lo so» risposi. «Lo so».

«Bene» concluse. «Allora, tesoro, adesso attacco. Ciao e buona fortuna».

Questa era l’immancabile formula di commiato tra lei e il padre al termine delle conversazioni telefoniche,che adesso lei usava con noi. Ma prima di riagganciare aggiunse una frase che mi colse di sorpresa.

«I miei parenti si sono rovinati la vita a forza di guardare al passato, non voglio che tu faccia lo stesso».

Il 4 luglio partii per l’Ucraina.

Ancora una volta insieme a Froma. Tra tutte le città un tempo grandi dell’Europa orientale dove erano presenti comunità ebraiche, L’viv, Lwów, Lemberg era l’unica dove non era mai stata. Sapevo che desiderava vederla («È l’ultima volta!» esclamò quando la chiamai per chiederle di accompagnarmi, al che sorrisi pensando «Non credo proprio»). Non volevo fare quel viaggio da solo. Eravamo nel bel mezzo dell’estate, e Matt era sommerso di lavoro con i matrimoni e i book fotografi

ci. Non poteva liberarsi.

«Fino a settembre non ho nemmeno un fine settimana libero» mi aveva comunicato quando gli avevo proposto di unirsi a me per scattare altre fotografie della città. In quel periodo, sia per discutere delle immagini da inserire nel libro, sia anche per aggiornarlo sulle notizie provenienti dai vari amici di Bolechow, lo sentivo quasi ogni giorno: chi l’avrebbe detto, cinque anni prima? «Va bene» lo rassicurai, «abbiamo parecchie foto di Bolechow, useremo quelle. Non preoccuparti». In realtà ero molto dispiaciuto. Mi ero abituato a quelle interminabili ore di volo insieme a lui, che mi offriva sempre il posto vicino al corridoio, raggiante come un bambino davanti ai fumetti del New Yorker che amava descrivermi invece di lasciare che li leggessi; andava pazzo per Pisellino.

E così anche questa volta, nell’ultima spedizione, sarei partito con Froma.

Ma era previsto un terzo viaggiatore. Una mia amica, fotografa di professione, aveva deciso di raggiungerci a L’viv il fine settimana. Lane è una brillante ragazza dai capelli scuri, originaria della Carolina del Nord, stabilitasi a New York da parecchio tempo; aveva lavorato per diversi anni a servizi fotografici sui «siti dei genocidi». La conoscevo da almeno un lustro, emi aveva spesso parlato dei suoi viaggi in Rwanda, Darfur, Cambogia, Bosnia, una lista sempre più lunga di paesi, a dimostrazione, non perdeva occasione di ricordare, che lo slogan MAI PIÙ era destinato a rimanere una pia intenzione. Il suo problema, mi confidò, era quello di non aver ancora avuto un vero approccio con l’Olocausto. Temeva che Auschwitz fosse diventato un cliché – «Serve a metterci in pace con la coscienza» mi disse una sera a cena a casa sua, mentre contemplavo le fotografie da lei scattate.

Mi venne in mente quella turista ad Auschwitz che aveva esclamato: «Se non trovo una bottiglia di Evian svengo» e il carro bestiame al museo dell’Olocausto, le cartoline da spedire via internet con la scritta ARBEIT MACHT FREI acquistabili al museo in rete di Terezín. «Sì»annuii, «capisco cosa intendi». E aggiunsi: «Se torno a Bolekhiv devi venire con me. Quelle zone pullulano di luoghi che sono stati teatro di genocidi». Pensai subito a Taniawa, di cui avevo scoperto l’ubicazione.

E così Lane ci avrebbe raggiunti a L’viv. Arrivammo il martedì per trascorrere buona parte della settimana a visitare la città e a raccogliere informazioni ed esperienze per l’articolo che avrei scritto; Lane sarebbe giunta il sabato, e quel giorno stesso saremmo andati a Bolekhiv per scattare qualche fotografia, quindi avremmo fatto una puntata alle città dei dintorni, luoghi che un tempo si chiamavano Dolina, Drohobycz, Stryj, Kalusz, Rosniatów, Halych, R ohatyn, Stanislawów e altri ancora,tutti con una propria Taniawa, i monumenti e le fosse comuni. Avremmo passato il sabato e la domenica in giro alla ricerca dei resti della Galizia ebraica, e poi saremmo tornati a casa, una volte per tutte.

All’aeroporto Alex ci accolse con un sorriso radioso. Lo trovai un po’ ingrassato: aveva l’aria di un orsetto affettuoso. Ormai ci conoscevamo bene, e stavolta non esibiva il pezzo di cartone con la scritta MENDELSOHN. Dopo essersi fatto largo tra la folla nel piccolo aeroporto di L’viv, mi strinse tra le braccia poderose, così forte da mozzarmi il fiato. Gli sorrisi: ero felice di rivederlo. La prospettiva di passare tutto quel tempo in compagnia di Alex attenuava la sensazione di inutilità che provo sempre tornando in un luogo dove sono già stato. Lo consideravo un amico, avrei potuto discutere con lui in tutta franchezza di certi argomenti venuti a galla durante la mia ricerca, non ultima la spinosa questione dei rapporti tra ebrei e ucraini, prima e dopo la guerra. In un articolo scritto dopo il nostro primo viaggio a L’viv quattro anni prima, avevo messo in rilievo il contrasto tra quello che mi ripeteva sempre mio nonno – «I tedeschi erano cattivi, i polacchi ancora peggio. Ma erano gli ucraini i peggiori di tutti» (come faceva a saperlo? Chestorie conosceva?) – e l’accoglienza riservataci ovunque in Ucraina, il calore sincero, la generosità e l’affabilità che le persone con cui eravamo entrati in contatto ci avevano dimostrato. Mi sembrava che tale discrepanza fosse dovuta a una particolare congiuntura storica e, più in generale, all’epoca. Essendo completamente estraneo ai fatti, mi è lecito pensare che i comportamenti aberranti di cui molti ucraini si resero protagonisti durante la guerra furono il prodotto di specifiche circostanze storiche; e trovo difficile credere che le atrocità perpetrate dagli ucraini contro gli ebrei nel 1942 siano espressione dell’indole di quel popolo, così come non ritengo che le atrocità commesse dai serbi contro i musulmani bosniaci nel 1992 riflettano il carattere di quella gente. Peccherò di ingenuità, ma sono restio a condannare gli «ucraini» tout court, pur sapendo che molti di essi si macchiarono di mostruosità. D’altra parte, sono portato ad avvalorare generalizzazioni di altra natura, per esempio il furioso risentimento di un’etnia nei confronti di un’altra verso cui avvertiva una certa inferiorità, tanto più in un momento storico caratterizzato da un’odiosa oppressione – basti pensare alla decisione di Stalin di affamare la popolazione ucraina, che determinò la morte di cinque, forse sette milioni di ucraini tra il1932 e il 1933, evento considerato un’indelebile tragedia nazionale, proprio come l’Olocausto lo è per gli ebrei. Il rancore incontrollabile di un popolo, in una particolare combinazione di circostanze, si trasformerebbe in ferocia bestiale nei confronti di quanti siano ritenuti, per quanto ingiustamente, responsabili delle proprie sofferenze. So bene come sia più facile addossare responsabilità alle persone a noi più vicine.

Più in generale, ritenevo che la differenza tra «Erano gli ucraini i peggiori di tutti» e la nostra personale esperienza in Ucraina dove, per quanto ebrei, fummo trattati con i guanti bianchi, fosse chiaramente legata ai cambiamenti prodotti dal trascorrere del tempo, argomento per me particolarmente interessante. Sono convinto che le abitudini culturali e i modi di essere mutino nel corso degli anni; pur ammettendo che in passato in luoghi come Bolechow un rabbioso antisemitismo serpeggiasse nella popolazione ucraina, volevo convincermi che la situazione fosse cambiata – non avevo ragione di temere alcun pericolo viaggiando in Ucraina più di quanto mi capitasse in Germania, malgrado gli avvertimenti di alcuni dei sopravvissuti. «Stia molto attento quando torna lì» mi aveva raccomandato Meg in Australia. «Perché?» mi stupii. «Crede che ancora odino gli ebrei?». Mi lanciò uno sguardo affranto e rispose: «Dire che odiano gli ebrei è un eufemismo». E in effetti alcuni sopravvissuti ai quali avevo parlato della mia amicizia con Alex e, più in generale, della gentilezza con cui ci avevano accolto gli ucraini, avevano reagito con un riso amaro o peggio, asserendo che erano stati cordiali con noi in quanto americani, nella speranza di ricavare del denaro. «Tu non c’eri, non hai visto niente» mi venne fatto notare quando ribadii la mia esperienza personale con gli ucraini; ma cosa potevo replicare,convinto come sono dell’impossibilità di superficiali confronti tra le esperienze di persone della mia classe sociale, generazione e origine, e quella vissuta da alcuni durante la guerra? Quando questi scuotevano il capo ammonendomi di evitare gli ucraini, mi sfiorava l’idea che potessero avere ragione: forse erano cambiate troppe variabili, era impossibile sapere, così come non basta salire sul carro bestiame al museo dell’Olocausto di Washington per capire cosa si provava a essere trasportati a Belzec nell’estate del 1942. Io, più di altri, conoscevo bene le radici di quell’amara, pervasiva animosità verso gli ucraini – dopo tutto, i sopravvissutiavevano visto con i loro occhi impalare bambini ebrei con i forconi, scaraventarli giù dalle finestre, sfracellarli contro muri o calpestarli, così come era accaduto al neonato della signora Grynberg, ucciso poco dopo essere venuto al mondo, mentre lei era rimasta con il cordone ombelicale pendulo tra le gambe. Loro, non io,erano stati testimoni di una ferocia bestiale, una crudeltà tale, come è stato documentato, da indurre a volte gli stessi tedeschi a intervenire per contenerla. Loro avevano assistito a tutto questo, io non sarò mai testimone di simili atrocità. Malgrado ciò trovo alquanto irrazionale questo atteggiamento di chiusura, perché in fondo tutti i sopravvissuti da me incontrati erano stati salvati da ucraini. Questa considerazione la tenni per me, pur essendo convinto che gli ebrei, più di chiunque altro,debbano astenersi dal condannare senza appello intere popolazioni.

Durante la permanenza in Ucraina discussi di tutto questo, in maniera aperta e schietta, con Alex. Storico di formazione, cerca di analizzare i problemi nella loro complessità ed è restio alle generalizzazioni. Questo è anche il mio atteggiamento e, sulla base della conoscenza dei classici, amo osservare la realtà attraverso la lente della tragedia greca, che tra i tanti insegnamenti ci ammonisce come gli autentici drammi non scaturiscano da una semplice contrapposizione tra il Bene e il Male quanto piuttosto, in maniera ben più sottile e angosciante, dal conflitto tra due modi incompatibili di vedere il mondo. Gli eventi catastrofici che colpirono alcune aree geografiche dell’Europa orientale tra il 1939 e il 1944 furono, in questo senso, un’autentica tragedia, poiché – come ho già avuto modo di accennare – gli ebrei della Polonia orientale, consapevoli di andare incontro a sofferenze inimmaginabili se fossero finiti sotto il tallone nazista quando nel 1939 la Polonia orientale fu ceduta ai sovietici, considerarono questi come dei liberatori; al contrario, in quello stesso territorio gli ucraini, reduci da inenarrabili sofferenze per l’oppressione bolscevica negli anni Venti e Trenta, reputarono il medesimo evento una catastrofe nazionale e accolsero i nazisti nel 1941 come liberatori quando li invasero e presero il potere. Naturalmente questa non è una formula in grado di spiegare quel che accadde, i bambini impalati con i forconi o i cordoni ombelicali, ma quanto meno è una spiegazione più complessa, e come tale probabilmente più adeguata, rispetto alla generalizzazione secondo cui ci si limita a etichettare invariabilmente gli ucraini come «i peggiori di tutti». Ebbi modo di discuterne a più riprese con Alex,che in ultimo si strinse nelle spalle, tirò un sospiro e ribadì un concetto già espresso negli anni da più parti:«Vedi, alcuni erano buoni, altri cattivi».

Ma questo accadde in seguito. All’aeroporto, il giorno del mio ritorno a L’viv, ricambiai l’abbraccio con Alex e gli presentai Froma. Gli chiesi di sua moglie, Natalie, del figlio Andriy, un ragazzino studioso che in mia presenza chiama sempre Andrew, e della figlia dal grazioso viso ovale, Natalie, entrambi ormai parecchio cresciuti dall’ultima volta che li avevo visti, durante quella lauta cena di addio preparata in nostro onore a casa sua. «Tutto a posto, stanno tutti bene» rispose Alex. Insisté per portare i nostri bagagli, si accollò persino la valigetta con il computer, e uscimmo dal bizzarro, piccolo aeroporto. Era una luminosa giornata di sole. Accanto al marciapiede era parcheggiata la Volkswagen Passat blu. «No!» esclamò in risposta al gesto teatrale a cui mi lasciai andare quando la vidi.«Non è la stessa macchina. Il modello è quello, ma è un’altra, più nuova. La stessa eppure diversa».

Andammo di filato in albergo. Fu allora, o forse poco dopo, che Alex se ne uscì con la sua fragorosa risata e mi annunciò: «Non ci crederai, Andrew ha imparato a leggere in yiddish!».

 

Era un martedì. Il venerdì saremmo tornati a Bolekhiv.

Fu una buona idea trascorrere qualche giorno a L’viv.La prima volta, ansioso com’ero di visitare Bolekhiv,non le avevo rivolto la dovuta attenzione. Adesso immagino di averla visitata tutta.

Dirò subito che molti luoghi di interesse storico dove un tempo vivevano le scomparse comunità ebraiche,seppur conservati, appaiono diversi. Ne è esempio il singolare edifico massiccio, piacevole alla vista (caratterizzato da piccole torri), che sorge al civico 27 di T.Shevchenko Prospekt, oggi chiamato Desertniy Bar. Ad alcuni è più noto come Szkocka Café, Caffè scozzese, e in passato si trovava nel viale Akademichna – nome davvero appropriato, visto che il locale era il luogo d’incontro di un celebre circolo di autorevoli matematici, noto come scuola di Lwów. Nel gruppo spiccava il matematico polacco Stefan Banach, autore di lavori seminali nell’analisi funzionale, fondatore nel 1939, insieme a un collega di Lwów, Hugo Steinhaus, della rivista Studia Mathematica, che insieme alla Fundamenta Mathematicae di Varsavia divenne uno dei principali organi di diffusione della vivace e importante scuola polacca di studi matematici durante il periodo tra i due conflitti mondiali. Fu Banach che, nel corso di animate conversazioni accompagnate da innumerevoli caffè, annotò problemi spinosi e relative soluzioni su un voluminoso taccuino divenuto in seguito leggendario. Alla fine di ogni incontro il taccuino veniva conservato da un cameriere, che lo restituiva la sera seguente, per poi riporlo di nuovo alla fine della serata.

La scuola di Lwów e l’attiva scena di studi matematici non si sarebbe mai riavuta dai devastanti effetti dell’occupazione nazista, che decimò i ranghi dell’accademia polacca, sia cattolici che ebrei. Comunque, Banache Steinhaus uscirono vivi dalla guerra, pur tra indicibili privazioni. Banach nacque in un borgo nei pressi di Cracovia nel 1892, apparteneva quindi alla stessa generazione di zio Shmiel; figlio illegittimo, portava il nome della madre (come abbiamo visto, poteva accadere anche ai figli legittimi), venne arrestato dai nazisti e depauperato dei privilegi goduti prima della guerra, fu costretto a lavorare in un laboratorio per lo studio delle malattie infettive dove, per tutta la durata dell’occupazione, trascorse i suoi giorni a nutrire cavie per gli esperimenti. Morì di cancro ai polmoni tre mesi dopo la fine del conflitto, nell’agosto del 1945. Steinhaus, di qualche anno più anziano del collega, era ebreo, il che significa che con l’arrivo dei nazisti dovette occuparsi di ben altro che delle cavie. Riuscì a sfuggire alla morte nascondendosi, soffrì severe privazioni, non ultima la fame; ma nonostante tutto, «persino in tali condizioni questa brillante mente sempre attiva elaborava una moltitudine di idee e progetti», come ci informa il suo biografo –non diversamente da Klara Freilich che, come sappiamo, ebbe modo di occuparsi di matematica mentre sene stava rannicchiata sottoterra in compagnia dei topi. In ogni modo, alla fine della guerra Steinhaus si trasferì a Wrocław, come la famiglia di Ciszko Szymanski,dove morì nel 1972 all’età di ottantacinque anni. Devo aggiungere che riuscì a recuperare il taccuino al Caffè scozzese, che così poté essere pubblicato. Il recupero di quella preziosa testimonianza riveste un significato simbolico, visto che a Steinhaus è ascritto il merito di aver aiutato alcuni matematici polacchi a risorgere dalle ceneri dopo la devastazione dell’università e della vita intellettuale polacca in seguito al conflitto mondiale.

Ho avuto l’opportunità di vedere con i miei occhi un particolare reperto legato a questo tipo di distruzione operata dalla guerra. Mi ero recato per la prima volta al Caffè scozzese – o meglio, al Desertniy bar – per via di mio padre, anch’egli matematico. Sapendo del nostro viaggio a L’viv, ci aveva raccomandato di visitare quel luogo celebre, una sorta di santuario per gli studiosi di quella disciplina, sebbene la categoria non si distingua per la devozione ai santuari. A dire il vero, quel poco che so sulla scuola di Lwów lo devo al mio padrino italiano, l’amico intimo di mio padre, Edward, da noi chiamato affettuosamente Nino. Per molti anni docente di matematica all’università di Long Island, è l’unico, a quanto ci risulta, ad aver colto e mangiato i frutti del melo nel giardino di casa dei miei genitori, quando da bambino mi chiedevo se l’albero della conoscenza fosse davvero una pianta. Per una curiosa coincidenza, uno dei campi di specializzazione di Nino è l’analisi funzionale, settore di studi avviato tanto tempo fa dalla scuola di Lwów. Quando andai a trovarlo appena tornato dall’ultimo viaggio in Ucraina per raccontargli le nostre scoperte, cercò di spiegarmi in cosa consista l’analisi funzionale. Molto di quel che mi disse era troppo complicato, ma mi affascinò l’idea che l’avesse impiegata per risolvere dei problemi in un campo chiamato teoria dell’ottimizzazione. Mi era piaciuta la locuzione teoria dell’ottimizzazione, così, tornato a casa, gli mandai una email pregandolo di spiegarmi di cosasi trattasse. Rispose subito:

 

ottimizzazione è lo studio dei massimi e dei minimi in forme diverse. Due rapidi esempi, il primo classico, attribuito a Didone, il secondo tratto dall’era dello sputnik:

 

1) quale superficie chiusa di una data area racchiude il massimo volume? (Didone: quale figura piana di un dato perimetro racchiude l’area maggiore? Risposta: il cerchio)

 

2) quale traiettoria compie un razzo per rendere minimo il tempo necessario a collegare due punti che si trovano su due orbite differenti?

 

Così scoprii che un personaggio della letteratura latina a me ben noto era inaspettatamente assurto a simbolo di un famoso problema matematico. Nell’Eneide si narra la storia della regina di Cartagine, Didone, di cui Enea si innamora ma che poi abbandona, procurandole un dolore che la spingerà a togliersi la vita. Esiliata dalla terra natia, Didone vagò in lungo e in largo in cerca di un luogo dove stabilirsi. Sbarcata sulla costa nordafricana, concluse uno strano accordo con il sovrano del luogo, che acconsentì a cedere a lei e ai suoi seguaci un territorio esteso quanto la pelle di un toro. Didone tagliò la pelle in strisce sottili, le unì fino a formare una lunga corda e con essa tracciò un cerchio gigantesco: il territorio della futura Cartagine, che in seguito sarebbe diventata una grande città. Fu lì che Enea s’imbatté in un dipinto raffigurante la sua vita, davanti al quale scoppiò in lacrime.

Quando i matematici parlano del «problema di Didone» si riferiscono a questo: come trovare la massima area di una figura piana avente un dato perimetro. Ai letterati Didone evoca ben altre risonanze: la vicenda di una donna costretta a lasciare la patria e fuggire per salvarsi la vita, che mette a frutto ingegno e intelligenza per costruirsi una nuova e prospera esistenza, cui pone termine per amore.

In ogni modo, quando lessi per la prima volta l’email di Nino non ero sicuro di aver compreso a pieno lesue spiegazioni. Eppure trovai estremamente interessante la sua risposta, forse perché ero appena tornato da quel viaggio, che mi aveva posto di fronte al problema di come superfici chiuse potessero racchiudere il massimo volume e di come ridurre al minimo il tempo necessario a collegare due punti, anche se ovviamente in un contesto diverso.

Sempre a proposito della scuola di Lwów, Nino mi mostrò diversi fascicoli delle riviste Studia Mathematica e Fundamenta Mathematicae. Di quest’ultima conserva il numero memorabile pubblicato nel 1945, che si apre con un elenco incorniciato in nero recante i nomi di decine di collaboratori che persero la vita in guerra. Già solo a scorrerlo si intuisce quanto fosse arduo il compito prefissatosi da Hugo Steinhaus di riportare in auge la scuola dei matematici polacchi. Quando si pensa a catastrofi di enormi proporzioni, la decimazione di intere popolazioni, il milione e mezzo di armeni massacrati dai turchi nel 1916, i cinque, forse sette milioni di ucraini lasciati morire di fame da Stalin tra il 1932 e il 1933, i sei milioni di ebrei sterminati nell’Olocausto, i due milioni di cambogiani trucidati dal regime di Pol Pot negli anni Settanta e via dicendo, si tende, naturalmente, a pensare subito agli individui, alle famiglie cancellate, ai bambini che non nasceranno più; e poi agli oggetti familiari, le case, i ricordi, le fotografie, che non avranno più significato con l’annientamento di quella gente. Ma esiste anche un altro tipo di perdita: i pensieri mai più formulati, le scoperte non più raggiunte, le opere d’arte non più create. I problemi trascritti su un taccuino sopravvissuto a coloro che ve li appuntarono, mai più risolvibili.

Comunque, sono stato al Caffè scozzese a L’viv. Per dirla con Alex, è lo stesso eppure diverso; paradosso che ben descrive la L’viv di oggi, una città ricostruita,rinnovata, dal turismo crescente: vecchia e nuova a un tempo, risorta dalle ceneri, per così dire, perlomeno dove sono rimaste ceneri da cui risorgere.

Anche Bolekhiv era la stessa eppure diversa.

 

Come la volta precedente, Alex fermò la macchina sulla sommità della collina da dove si godeva la vista della cittadina racchiusa nella valle, immortalata quattro anni prima da Matt. «Eccoci tornati» annunciai con un velo di malinconia a Froma e Alex. Ma questa volta,quando vi entrammo dopo aver attraversato il piccolo ponte in pietra proteso sull’insignificante rigagnolo cui è ormai ridotto il fiume Sukiel e oltrepassato quel che un tempo era il ristorante Bruckenstein, stentammo a riconoscerla. Quel pomeriggio piovigginoso di quattro anni prima la città sembrava deserta; il desolante grigiore di quell’umida domenica mi era in qualche modo parso l’ennesima prova schiacciante di come questo luogo sembrasse perpetuamente sotto processo e il tempo e l’umore ne fossero testimoni. Stavolta invece,in una luminosa e serena tarda mattinata, Bolekhiv ferveva di attività: automobili ronzavano rumorosamente attorno alla piazza, dai cantieri edili si levavano fragori metallici e rumori crepitanti, le strade brulicavano di donne con passeggini, e il panorama era ravvivato dai colori sgargianti di edifici tinteggiati di recente. Meg Grossbard, quel pomeriggio dopo pranzo a casa del cognato, quando ci accompagnò in strada a prendere il taxi, mi aveva dato una fotografia della casa in cui era nata, chiedendoci di darle un’occhiata. Ci fece promettere che se mai fossimo stati così stupidi da tornare in Ucraina («cannibali!») non avremmo rivelato a nessuno che lei viveva in Australia; notando la mia espressione stupita, spiegò: «Hanno sterminato la mia famiglia, perché non dovrebbero uccidere anche me?». La casa di Meg Grossbard era dipinta di rosa.

Scendemmo dalla Passat; guardandosi intorno, Froma si chiese: «Chissà se la nostra presenza li incuriosisce».

Anche questa volta mi resi conto che nel viaggio precedente avevamo visto solamente metà della Rynek.Con l’ausilio della cartina inviatami per fax da Jack una settimana prima della partenza, cominciai a orientarmi e a seguire dei percorsi, insieme ai miei compagni. Individuai la casa natale di mio nonno, i susini carichi di frutta, il parco cittadino con i tigli. Ci fermammo davanti al Magistrat, e indicai il punto esatto dove un tempo sorgeva la macelleria di Shmiel. Tirai fuori una fotocopia della fotografia del libro Yizkor di Bolechow,quella a cui mio nonno aveva aggiunto la didascalia LA NOSTRA MACELLERIA, e la mostrai a Froma e ad Alex per un confronto. Annuirono sorridendo. Trovammo il Dom Katolicki, divenuto luogo d’incontro dei Testimoni di Geova, un massiccio edificio a due piani, di rara bruttezza, con finestre squadrate e un ondulato tetto di lamiera, al centro di un quartiere residenziale in fondo alla strada un tempo denominata via della Chiesa polacca. Ancora una volta, come mi accade spesso davanti a monumenti che non recano alcun segno – come potrebbe essere altrimenti? – degli eventi storici di cui sono stati testimoni, avvertii una vaga delusione, un senso di inutilità. Mi era difficile collegare quella piccola costruzione insignificante agli accadimenti raccapriccianti che vi avevano avuto luogo. Solo settimane dopo, esaminando le fotografie di quel viaggio, notai le vistose insegne in cirillico con lettere di metallo di fattura recente, affisse sulla facciata di quella struttura decrepita, proprio sotto il tetto di lamiera ondulato. KIHO, sulla parte sinistra dell’edificio; TEATP, sulla destra. Cinema. Teatro.

Così scoprii che il cinema era ancora lì.

Ero di ottimo umore, probabilmente perché le mie ricerche risultavano fruttuose, me la cavavo bene con la cartina e con le informazioni ricavate dalle mie chiacchierate con i sopravvissuti di Bolechow, o forse semplicemente per il tempo così bello. Contrasto più stridente tra questo viaggio, caratterizzato da grande ottimismo,e quello del 2001 non poteva esserci. Per una volta credevo di aver trovato esattamente quel che cercavo.

Ma dopo pochi minuti apparve chiaro che mi sbagliavo.

 

Non riuscivo a individuare il luogo che più desideravo vedere, la casa di Shmiel. In Australia, Boris Goldsmith ci aveva riferito che Shmiel non viveva più nella casa natale, la Casa numero 141, l’indirizzo che compariva sulle centinaia di certificati di nascita e di morte che Alex mi aveva inviato anni prima; negli anni Trenta aveva acquistato una casa più grande in via Dlugosa.In parecchi, in Australia, Europa e Israele, mi avevano confermato quella notizia, e Jack aveva tracciato delle mappe per indicarmi l’ubicazione della strada – nei pressi del parco cittadino – e l’edificio, il quarto a destra. Ma lungo la strada che grosso modo corrispondeva alla via indicata come Dlugosa dalla cartina di Jack,oggi denominata Russka, si ergeva un imponente casermone che occupava vari lotti di terreno. Era chiaro che in quel punto non era mai sorta nessuna casa. Girovagammo nei dintorni, allontanandoci dal parco. Fu una passeggiata tranquilla per le vie della città, molto più piacevole di quella del viaggio precedente, una scarpinata sotto la pioggia su strade fangose con Andrew,Matt e Jen. Non erano ancora le undici, ma il caldo si faceva già sentire. I nostri passi scricchiolavano sulla ghiaia e sul terriccio. Quasi tutte le abitazioni avevano un ampio giardino sul retro, con alberi di mele, prugne e mele cotogne. Qualche cane abbaiava svogliatamente. Alex chiese a una ragazza se conosceva qualche persona anziana che viveva nei paraggi, in grado di dirci dove si trovava quella che un tempo era via Dlugosa. Parlottarono per un minuto, quindi Alex ci fece segno di avvicinarci. «Dobbiamo tornare verso il parco» spiegò.«All’inizio della strada abita un uomo anziano».

La ragazza ci accompagnò fin davanti all’abitazione. Un uomo robusto, con il volto dal sembiante slavo e una fluente chioma argentea pettinata all’indietro sulla fronte bassa abbronzata, sedeva su una specie di carrozzella a motore nel giardino prospiciente la casa;quando ci vide arrivare si alzò in piedi. Alex spiegò cosa cercavamo. Non dava l’impressione di poterci aiutare. Alex fece un rapido cenno col capo, come a indicare che stavamo perdendo tempo, quando il vecchio della carrozzella salutò a gran voce qualcuno che si stava avvicinando. Ci voltammo a guardare. «Stepan» lo chiamò il vecchio. Il nuovo venuto ci raggiunse e ci diede lamano. Aveva una stretta decisa. Indossava una camicia da operaio azzurra e grigia e un cappello antiquato. Quando parlava emetteva una specie di ronzio. Gli mancavano gli incisivi, cosa che non gli impediva di sorridere in continuazione. Aveva la pelle brunita e incartapecorita come una sella di cuoio.

Alex ripeté la domanda già posta al vecchio: «Stiamo cercando via Dlugosa. Cerchiamo la casa del prozio di questo americano, un ebreo che viveva a Bolekhiv, a Bolechow, prima della guerra. Shmiel Jäger».

«Jäger!» esclamò Stepan. E prese a parlare in maniera concitata con Alex.

Il mio amico, il viso arrossato dal sole e imperlato di sudore, sorrise. Si voltò verso di me e annunciò: «Ha detto che suo padre era l’autista di Shmiel Jäger!».

«Davvero?». Che notizia! Ecco un’altra sostanziale differenza tra questo viaggio del 2005 e quello del 2001:quella prima volta io e Jen scoppiammo a piangere solo perché qualcuno aveva sentito parlare di Shmiel e della sua famiglia, pur non avendoli conosciuti personalmente: allora ci sembrava impossibile che persone ancora in vita si ricordassero di loro. Ora, dopo aver parlato con tutti quei sopravvissuti che li avevano conosciuti intimamente, ascoltai Stepan con interesse, ma non con l’eccitazione di un tempo.

«Jäger, tak» stava dicendo Stepan. Alex traduceva in simultanea.

«Jäger possedeva un autocarro, con il quale portava la merce da Bolechow a Lwów. E lo guidava suo padre. Jäger a volte gli chiedeva di portare un paio di cavalli per trainare l’autocarro sulla collina, perché capitava che si impantanasse per il carico eccessivo! Cavalli molto grossi, tedeschi, della razza impiegata durante la guerra per trasportare i cannoni».

«Davvero?» ripetei. Nel frattempo attorno a noi si era formato un capannello di curiosi: una donna dimezza età con una vestaglietta, e due più giovani in jeans e maglietta attillata. «Andava spesso a Lwów» continuò a tradurre Alex,«era sempre preoccupato, se qualcosa andava male sarebbe stato rovinato! La sua macelleria si trovava da qualche parte vicino al centro, dove di recente hanno costruito tre nuovi palazzi. Non lontano dal Ratusz, di fronte al Magistrat. Al di là della strada».

«Sì» confermai.

E così Stepan andò avanti per un po’, rivelandoci parecchi dettagli. Ricordava la famiglia polacca di Szymanski. In casa avevano una specie di taverna dove si mangiavano ottime salsicce. Adesso non esisteva più. Non sapeva altro di loro. Ricordava anche i Grünschlag; avevano una falegnameria. E gli Zimmerman. Sia lui che il vecchio sulla carrozzella ricordavano gli Ellenbogen, che avevano un negozio sulla Rynek. E degli ebrei deportati in Siberia nel 1940, i Landes. Fece anche altri nomi mai sentiti: Blumenthal, Kelhoffer. Citò Eli Rosenberg, tornato a Bolechow dopo la guerra, dove si fermò per lungo tempo. Rievocò lo sterminio degli ebrei durante l’Occupazione. Gli tornarono alla mente degli aneddoti, per esempio il giorno che sentì degli spari mentre lavorava con il padre non lontano dalla Rynek. Proiettili che fischiavano, «pchoo! pchoo! pchoo!» fece Stepan, mimando il sibilo delle pallottole. «Giù! Giù!» urlò il padre. E si stesero sul prato per evitare i proiettili. «Chi stavano uccidendo?» chiedemmo. «Probabilmente degli ebrei» rispose. Una volta vide un gruppo di ebrei condotti sulla strada, sorvegliati da soldati tedeschi con le maniche della divisa arrotolate e i mitra spianati, e un paio di persone del posto, in abiti borghesi, che li coadiuvavano. C’era anche la milizia ebraica organizzata dai nazisti, i cui membri conoscevano tutti. Furono portati fuori città,dalle parti di Taniawa. Era pratico di quel posto, suo padre era stato tra quelli che avevano eretto il monumento. Ci andavano a falciare l’erba. «Bene» decisi, «ci andremo». Mi avevano detto che la vegetazione aveva coperto le tracce di quegli eccidi; Stepan era certo la persona più indicata per accompagnarci lì. Infatti più tardi ci andammo; dopo un’ora di ricerche nella foresta lussureggiante con fiori selvatici che arrivavano al petto, in uno scenario da fiaba, mi rivolsi ad Alex, come avrebbe fatto mia madre: «Che posto incantevole!». Lui sorrise e replicò: «Accadeva sempre in un bel posto». In ultimo, con l’aiuto di un tale che viveva nei paraggi (ricordava anche lui che il padre un giorno era tornato a casa e aveva raccontato la scena raccapricciante a cui aveva assistito, centinaia di ebrei allineati e freddati con raffiche di mitra), individuammo il sito e con quell’uomo, Alex, Froma e Stepan, rimanemmo in raccoglimento davanti al piccolo obelisco di cemento. Per quanto temessi di apparire ridicolo, tirai fuori l’ingrandimento della fotografia di Ruchele e dissi: «Fermiamoci un attimo a commemorare questa ragazza, una giovane di sedici anni. Riflettiamo sulla sua vita. Morì in questo posto, proprio lì». Passai la fotografia; a turno la osservarono, annuendo tristemente. Poi andammo via.

E così, in via Russka, eravamo tutti raccolti intorno a Stepan ad ascoltare i suoi ricordi. Froma era interessata ai sentimenti degli ucraini durante l’occupazione.«Avevano tutti paura» rispose Stepan. L’altro, quello con l’espressione fiera e la zazzera di capelli bianchi, rimasto in silenzio tutto il tempo, balzò in piedi. «Certo che avevano tutti paura!» esclamò. E ci raccontò una storia. Un ucraino, un certo Medvid – la parola significa «orso» – aveva nascosto una famiglia di ebrei. Furono scoperti, e i nazisti impiccarono non solo lui e la sua famiglia, compresi i bambini, ma uccisero anche tutti gli altri Medvid della zona.

«Logica teutonica» avrebbe detto Jack. Disciplina assoluta, vuote regole irrazionali e amorali. «E dopo questo episodio» continuò il vecchio «nessuno tentò più di aiutare gli ebrei». O quasi nessuno.

Pensai a Ciszko Szymanski, ai sopravvissuti che avevo conosciuto, quasi tutti nascosti con l’aiuto degli ucraini. E alla signora Szedlak, chiunque fosse. In effetti, per qualche inspiegabile motivo, la gente continuò ad aiutare gli ebrei. Quando Alex, di sua iniziativa,chiese a Stepan se era a conoscenza di persone che avevano denunciato ebrei alle autorità, la risposta fu: «No,non ne ho conosciuti. C’era gente buona e gente cattiva». Era proprio così, riflettevo. C’erano gli Szymanskie le Szedlak, ma anche i vicini traditori, i forconi. In fondo, era tutto così misteriosamente semplice.

Parlammo per una quarantina di minuti sotto il sole, con Alex che diventava sempre più paonazzo. Nessuno sapeva dove si trovasse via Dlugosa. Stepan si grattò il mento, inarcò le sopracciglia e scosse il capo,mentre ripeteva: «Dlugosa Dlugosa Dlugosa». Ci disse che durante l’era staliniana tutti quelli che abitavano nella strada dove ci trovavamo, via Russka, vennero deportati in Siberia perché le loro case avevano tetti di lamiera, e questo agli occhi dei sovietici significava essere borghesi controrivoluzionari. La sua famiglia, aggiunse con un largo sorriso sdentato come quello di un neonato, era stata risparmiata perché la casa aveva il tetto di canne, e quindi proletario.

Poi soggiunse qualcosa ad Alex, che si voltò verso di noi e tradusse: «Vi consiglia di parlare con una donna che vive... nella zona tedesca?».

«Sì» confermai. La conoscevo, si trovava nei pressi del ponte, me ne aveva parlato Jack.

«Nella zona tedesca, anche il fratello di questa donna era un autista di Shmiel, forse sa qualcos’altro».

«D’accordo» acconsentii.

«E poi ha detto che sarebbe ancora meglio se parlaste con un uomo molto anziano, si chiama Prokopiv, lavora in chiesa. È molto vecchio, probabilmente è più informato di tutti».

«Va bene» ripetei.

«Vuoi proprio andare?» si sincerò Alex. Sapeva che eravamo tornati lì per una ragione specifica: quell’esperienza mi serviva per terminare il libro: volevo vedere i posti che ormai conoscevo bene, ripercorrere i passi dei miei parenti scomparsi. In tutti quegli anni avevamo intrattenuto una fitta corrispondenza via email, ormai mi conosceva bene, si rendeva conto che non avevo intenzione di perdere tempo a spigolare storie già sentite.

«Sì, certo, perché no?». Erano comunque racconti affascinanti: il cavallo da tiro, l’autocarro impantanato.

Salii in macchina con Alex, Froma e Stepan, e ci dirigemmo a casa di Prokopiv.

 

Non foss’altro che per la gravità della punizione loro inflitta, è strano che il peccato per il quale gli abitanti delle lussuriose città di Sodoma e Gomorra furono sterminati in realtà non sia mai indicato, né tanto meno descritto nei particolari nella parashat Vayeira. Sebbene si intuisca chiaramente che abbia attinenza con la trasgressione sessuale,con pratiche che esulano totalmente dalle prescrizioni del Levitico, un testo biblico sul quale non ci soffermeremo, in effetti non viene spiegato per quale ragione le due città debbano essere distrutte: Dio si limita ad annunciare ad Abramo, praticamente senza preavviso, che «il clamore delle colpe che giunge a me da Sodoma e da Gomorra è grande» e il loro peccato – non menzionato – è «molto grave». In difesa di Dio, la cui tendenza all’annichilimento totale oltre che alla creazione a questo punto della Genesi è ormai evidente, Rashi mette in evidenza il suo annuncio che «scenderà» per osservarle città delle pianure, e accertarsi della gravità delle colpe.«Questo» dichiara il saggio francese «deve ammonire i giudici a non emettere un verdetto capitale senza prima aver verificato di persona», monito certo non privo di suggestione,anche se si può tranquillamente affermare che i magistrati di oggi forse appunterebbero la loro attenzione sul fatto che, in questo caso, i condannati non sembrano essere informati dell’accusa a loro carico – accusa che, almeno nel testo a nostra disposizione, non viene né contestata né, a dire il vero, provata, circostanza alquanto inquietante se si considera che essa è rivolta a un’intera popolazione.

Da ciò consegue uno dei più strani dialoghi nella lunga serie di colloqui problematici che nella Torah contraddistinguono i rapporti tra i patriarchi e la Divinità. Mentre gli angeli sterminatori inviati da Dio calano sulle città malvagie,Abramo rivolge a Dio delle domande che ogni lettore moderno si sarebbe posto. La stessa preoccupazione di Abramo ha animato alcuni esegeti di fronte ai passi in cui emergerebbe un’efferata crudeltà nella punizione di Dio (come, per esempio, nel brano della Noach che insinua la vaga possibilità che degli innocenti – per esempio dei bambini – fossero affogati nel Diluvio): che vivessero persone senza colpa nelle città che Dio ha destinato a ineluttabile sterminio – cosa molto probabile, vista la portata dell’annientamento. E se tra i malvagi di Sodoma e Gomorra fossero vissuti, mettiamo, anche solo cinquanta uomini giusti? (Cinquanta, è evidente – come quarantotto – è un numero irrisorio rispetto alla popolazione di una città). Non sarebbe un sacrilegio contro Dio stesso, argomenta Abramo, punire il giusto insieme all’empio? Non sarebbe ingiusto? Il giudice supremo non commetterebbe un’ingiustizia?

Dio ascolta le parole del patriarca e gli assicura che, se ci fossero anche solo cinquanta uomini retti a Sodoma, risparmierebbe l’intero territorio («l’intero territorio» sottolinea Rashi, ansioso com’è di sottolineare che Dio è generoso anche quando non dovrebbe esserlo, si riferisce non solo a Sodoma ma anche alle altre città della pianura, poiché Sodoma è una «metropoli»). Forse preoccupato per l’immediata risposta di Dio –chiunque stia contrattando diffida quando l’altra parte accetta prontamente i termini proposti – Abramo incalza, e cerca di far scendere la quota a quarantacinque: chiede a Dio se salverebbe Sodoma (e l’intero territorio) qualora vi fossero quarantacinque persone giuste. Dio acconsente. E così continuano, da quarantacinque a quaranta, a trenta, a venti, a dieci. Abramo desiste da questa contrattazione estenuante solo dopo aver ottenuto da Dio la promessa che non avrebbe distrutto il territorio di Sodoma se dovessero esservi dieci uomini retti. Alla fine Sodoma e Gomorra, le sfarzose e decadenti città dell’Oriente, vengono distrutte con tutti gli abitanti, giovani, vecchi,malati, zoppi, presumibilmente persino i neonati attaccati al petto della madre; anche in questo caso il testo non si dilunga in particolari, quasi riluttante a descrivere le vittime della punizione così come lo è nel descrivere il peccato.

In un certo senso, questa storia esercita un particolare fascino su coloro che trovano inquietante la storia del Diluvio,lasciando vagamente intendere che il timore di Abramo che vengano uccisi degli innocenti e dei giusti si realizza in quell’occasione. Eppure, per me il destino di Sodoma e Gomorra– o piuttosto la morte di uomini, donne e bambini delle due città, poiché ormai ho capito che è fin troppo facile parlare di città distrutte, quando ciò cui realmente ci si riferisce è l’uccisione di esseri umani – è inquietante per un’altra ragione. Per quanto ammiri la capacità di mercanteggiare da parte di Abramo, mi chiedo perché si sia fermato al numero dieci. Friedman non dice quasi nulla sull’argomento, ma si limita ad accettare il verdetto di Dio: «Poiché Dio conosce bene la situazione e il suo inevitabile esito, che dire?» Rashi spiega,alludendo ingegnosamente alla storia del Diluvio, che è il prototipo di questo racconto, il motivo per cui nel mercanteggiare Abramo diminuisce di dieci in dieci il numero dei giusti (perché il numero degli individui salvati nell’arca di Noè è otto, e otto più Abramo e Dio fa dieci). Ma nessuno dei due commentatori sembra preoccuparsi molto della questione che mi turba così tanto: se anche fossero vissute meno di dieci persone rette a Sodoma – anche se, mettiamo, ce ne fosse stata una sola in tutta la vasta popolazione della metropoli – non sarebbe comunque ingiusto ucciderle insieme ai colpevoli? O anche, se c’è un solo abitante buono in un paese di malvagi, si può dire che tutta la nazione è colpevole?

 

Da Prokopiv non trovammo nessuno. Accompagnammo Stepan a casa, dove la moglie lo stava aspettando sul portico alquanto infuriata, chiedendosi dove fosse finito, le mani sui fianchi in posa minacciosa, e ci dirigemmo nella zona tedesca, dove cercammo l’indirizzo della signora Latyk, l’anziana donna il cui fratello aveva lavorato per zio Shmiel.

Come sempre, Alex bussò alla finestra invece che alla porta, gridando in ucraino: «C’è nessuno?». Dopo un paio di minuti una donna dai capelli bianchi apparve dietro il cancello chiuso con un catenaccio, da cui si raggiungeva un piccolo giardino ben curato situato sul retro. Il volto largo, grinzoso ma vivace, dai lineamenti sorprendentemente mobili, il naso dritto con la punta all’insù, la folta chioma bianca legata con cura in un piccolo chignon, le mani grandi e vigorose sempre in movimento mentre avanzava lentamente verso il cancello, persino il fiordaliso azzurro ricamato sulla vestaglietta di cotone sottile – tutto in lei suggeriva un senso di estrema affidabilità. Alex cominciò a parlarle, e a un certo punto lo udii pronunciare il nome Shmiel Jäger; lei annuì decisa e disse: «Tak, tak» invitandoci con un cenno a entrare. Ci fece accomodare su delle sedie di plastica in un angolo del piccolo giardino, all’ombra; ci disse che era nata nel 1919. Stepan si era sbagliato: l’autista di Shmiel era lo zio, non il fratello. Ricordava bene Shmiel Jäger. Lo incontrava di rado e non rammentava le figlie (pensava che potesse esserci stata una figlia), ma lui sì, aveva un grosso autocarro. Gli autisti andavano a Lwów, dove acquistavano mercanzia di ogni tipo, capi di vestiario, cibo, frutta (pensai alle fragole) e altro, che smerciavano in vari paesi.

Conversammo per una mezz’ora; lei rievocò i suoi ricordi: particolari banali, quotidiani, dicerie. Sapeva che Jäger abitava vicino alla Rynek, ma la casa non esisteva più, al suo posto ne era stata eretta un’altra. Lo zio si trovava bene a lavorare per Jäger, che stravedeva per lui!Erano amici, non solo legati da rapporti di lavoro. Jäger godeva fama di persona simpatica e generosa. Piaceva alla gente. E suo zio come si chiamava? Stanislaw Latyk. «Stas». I figli erano da tempo emigrati in America; si offrì di darci gli indirizzi. Mi disse che il figlio aveva parecchio da raccontare. Accettai e la ringraziai per la gentilezza, pensando che anche loro avrebbero potuto ricordare aneddoti interessanti («Jäger voleva tanto bene a nostro padre!»). Mi diede un foglietto su cui appuntai gli indirizzi, poi ci mostrò delle fotografie dello zio e della famiglia. Le promisi di chiamare i suoi cugini una volta tornato negli Stati Uniti, quindi la salutammo calorosamente e tornammo verso la nostra Passat. Alex non si era sbagliato: non dovevamo sprecare ancora troppo tempo con queste interviste.

In effetti contattai i figli di Stas Latyk qualche settimana dopo, ma le storie che mi raccontarono non erano certo piacevoli. Lydia, la figlia, che vive nei pressi di New Haven, accettò di buon grado di parlare dei suoi ricordi e cercò di aiutarmi in ogni modo. Anche lei ricordava Shmiel Jäger: suo padre era stato in ottimi rapporti con lui, erano amici intimi. Durante la guerra suo padre aveva acquistato un autocarro – non lavorava più per Shmiel, si era messo in proprio negli anni Trenta – e nel capiente serbatoio aveva creato una sorta di nascondiglio, aiutando alcuni ebrei a scappare (quando la informai di cosa avevo scoperto della sorte di Shmiel, ipotizzò che fosse stato il padre a portarlo nella casa dell’insegnante polacca). Questo episodio avvenne prima del giorno in cui schiaffeggiò un soldato tedesco che durante una retata aveva strappato il figlio a una donna e lo insultò gridandogli: «Vergogna!». Venne arrestato dalla Gestapo e malmenato per due giorni. Tornò a casa irriconoscibile e la moglie, nel vederlo in quelle condizioni, svenne. Temendo per la propria vita, Stas Latyk si rifugiò nella foresta. Lydia, il fratello e la madre scoprirono in seguito che si era unito all’esercito russo; fece ritorno a Bolekhiv solo dopo la guerra, quando il resto della famiglia era già emigrato in America e,per una ragione o per l’altra, non l’avevano più rivisto.

Chiamai anche Michael Latyk, il figlio di Stas, il cui nome originario era Mikhailo. Vive nel Texas. Fu molto affabile quando lo contattai, il giorno dopo aver chiamato la sorella, si mostrò disponibile a parlare del padre, del periodo della guerra e di tutto ciò che ricordava. Confermò quanto riferitomi da Lydia riguardo alla profonda amicizia che legava il padre a Shmiel, aggiungendo un particolare che ricordava distintamente:spesso improvvisavano degli incontri di lotta.

Incontri di lotta? Non vedevo l’ora di raccontarlo a mia madre.

«Cos’altro rammenta?» gli chiesi. Era dura, all’epoca era solo un ragazzo, erano tempi terribili, vide cose spaventose. Quella sera di ottobre davanti al Dom Katolicki assistette all’uccisione di ebrei, allineati contro un muro, con armi da fuoco. Ricordava un giorno di giugno: stava cogliendo e mangiando delle ciliegie e all’improvviso udì degli spari; vide un gruppo di persone radunate in un campo e uccise con raffiche di mitra. Dopo aver assistito a quella scena era rimasto digiuno per tre giorni. Ma era stato testimone di altre atrocità. Una donna incinta di sei o sette mesi, ferita, che chiedeva l’aiuto di un dottore. E quella volta, dopo una delle grandi Aktionen, un ragazzo della sua età, ferito a una spalla durante una retata – «Aspetti, era la spalla sinistra, ce l’ho ancora davanti agli occhi» – che in qualche modo era riuscito a sopravvivere. L’aveva rivisto quattro giorni dopo, seduto vicino al recinto di un lager. «Sedeva sotto il recinto» ricordò Michael, «gonfio per la fame, e prendeva...».

La voce gli si arrochì e scoppiò a piangere. «Mi perdoni, mi perdoni» si scusò. «Non ce la faccio a raccontarlo».

«Non si preoccupi» lo rassicurai, con il tono che uso talvolta con i miei figli. «Stia tranquillo, respiri profondamente».

Tirò un sospiro e ricominciò: «Prendeva...».

Si fermò di nuovo. Non immaginavo quale potesse essere la fine di quella storia. Ero lì seduto alla mia scrivania, le mani sudate serrate sul ricevitore.

Finalmente Michael Latyk, dal Texas, quel giorno di agosto del 2005, respirò a fondo e continuò: «Sedeva tutto gonfio per la fame, vicino al recinto, prendeva dei pidocchi dal corpo e li mangiava».

Poi aggiunse: «Mi scusi, non riesco più a parlare di queste cose».

Annuii, poi mi sovvenni che ero al telefono e mormorai: «Va bene, mi è stato davvero utile, la ringrazio molto per avermi fatto partecipe dei suoi ricordi, io e la mia famiglia le siamo grati...».

All’improvviso m’interruppe. «Devo dirle un’altra cosa. Conosce l’espressione “dieta bilanciata”? Be’, da allora, ogni volta che la sento, mi ricordo quella scena».

Avevo tenuto fede alla promessa fatta alla signora Latyk di chiamare i suoi cugini.

Arrivammo dal vecchio Prokopiv giusto in tempo. Mentre parcheggiavamo, lo vedemmo allontanarsi rapidamente dalla porta della sua abitazione – come ci informò più tardi, si stava recando in chiesa, dove faceva le pulizie. Aveva una casa accogliente e spaziosa, in una massiccia struttura in legno con un ripido tetto spiovente in lamiera di stagno. Era dipinta di rosso, coni telai delle finestre bianchi. Sembrava un fienile, impressione accresciuta dal fatto che sorgeva defilata dalla strada, nel bel mezzo di un gruppo di meli, in tutto simile a una casetta di campagna. Prokopiv, il cui nome di battesimo era Vasyl, non dimostrava per niente i suoi novant’anni. Di corporatura alta e robusta, aveva un bel viso ovale dalla pelle soda, quasi liscia, a eccezione di due rughe profonde ai lati della bocca larga. Il naso da folletto all’insù, come quello della signora Latyk, gli conferiva un’espressione assurdamente fanciullesca. Indossava una camicia marrone con le spalline, simile a quella di Josef Adler quando feci la sua conoscenza. Dimostrava non più di settant’anni. Aveva una stretta di mano ferrea. Sapendo che aveva premura, Alex non si dilungò nelle presentazioni. Gli spiegò che eravamo americani e stavamo cercando qualcuno che aveva conosciuto gli Jäger di Bolechow.

Prokopiv portò la mano al volto in posa cogitabonda, e parlò per qualche minuto in ucraino.

«Non ricorda gli Jäger» tradusse Alex.

Era stata una lunga giornata: l’inaspettata chiacchierata con Stepan e con la signora Latyk, l’ora trascorsa a cercare la località di Taniawa. Il sole scottava. Un po’precipitosamente dissi: «No? Va bene».

Prokopiv proseguì, in tono interrogativo. Ero sicuro di aver sentito la parola zhid, ebreo.

Alex rispose «Tak» cioè sì, e aggiunse qualcosa. Prokopiv scoppiò a ridere, gettando il capo all’indietro. Aveva capito.

Alex spiegò: «Gli ho parlato degli autocarri e l’ha subito ricordato». «Tak, tak». «Sì, sì, se lo ricorda. Shmiel Jäger. Viveva nella zona russa di Bolechow, ma non rammenta la strada. Lo conosceva solo di nome».

«Bene» commentai. Quindi chiesi ad Alex di domandare a Prokopiv, che aveva fretta di andare in chiesa, se ricordava qualcuno di questi nomi: Szymanski,Grünschlag, Ellenbogen. Parlarono per qualche minuto, quindi Alex tradusse: «Sì, li conosce. La città era piccola. Si conoscevano tutti».

«Dunque, ricorda alcuni nomi» presi atto.

Alex annuì, sul viso un’espressione come a dire«Andiamo via, non scopriremo altro da lui». «Be’, tutto qui» aggiunse.

Ringraziammo Prokopiv, che si avviò verso la chiesa, mentre io e Alex ci dirigemmo verso la macchina.

«Aspettate!» esclamò Froma d’un tratto.

Ci volgemmo a guardarla.

«Non volete chiedergli altro?». È la solita storia, pensai: l’intraprendenza, la riluttanza ad andare via, l’insistenza a dare un’ultima occhiata, porre un’ulteriore domanda. Ero esasperato, e non solo perché non volevo tornare indietro. A Taniawaera scoppiata una piccola discussione tra Froma e Alex.Quando finalmente riuscimmo a trovare la fossa comune, un luogo idilliaco e remoto, la mia amica aveva commentato che i tedeschi non avrebbero mai scoperto quel posto senza l’aiuto degli ucraini. Sin dal nostro viaggio a Vilnius, quando visitammo la fossa comune nella foresta di Ponar, dove centomila ebrei dormivano un sonno inquieto sotto un terreno oggi meta di picnic,disquisivamo di frequente, quasi ossessivamente, sulla questione del collaborazionismo delle popolazioni autoctone. In diverse occasioni avevamo discusso degli eccidi, che spesso non sarebbero stati possibili senza l’aiuto delle popolazioni locali, gente che conosceva gli ebrei, dove vivevano, e i luoghi più adatti dove seppellire i cadaveri. Generalmente quando si pensa all’Olocausto si è portati a ritenere responsabili solo i tedeschi. Di recente, a un bat mitzvah a New York al quale ho presenziato (funzione che mio nonno avrebbe disapprovato, ma il tempo modifica anche le tradizioni), un conoscente, venuto a sapere delle mie ricerche su Shmiel e dei molti viaggi all’estero, mi chiese: «Non ti senti a disagio con i tedeschi?».

«Intendi i tedeschi in genere?» replicai sulle prime,ma poi scossi il capo, ridendo, e risposi: «No, certo che no». Quindi aggiunsi: «E comunque, se la pensassi così,avrei più paura degli ucraini che dei tedeschi». Froma era particolarmente interessata alla questione e a Taniawa se n’era uscita con quella frase. Alex, accaldato e stanco, si era risentito e aveva replicato seccamente che «non era possibile appurare» l’ipotesi di Froma. Non si era risentito in quanto ucraino; Alex è uno storico, interessato ai fatti, quindi ben edotto delle atrocità commesse dai suoi connazionali, così come quelle dei soldati sovietici che, nel prendere possesso delle città e dei villaggi ucraini, requisirono i viveri e lasciarono morire di fame gli abitanti, i quali furono costretti a cibarsi di ratti, topolini e persino carne umana. Proprio per questo aveva risposto un po’ piccato: «Mi perdoni, ma come può sostenere una cosa del genere, non ci sono prove nel caso specifico,all’epoca era solo una radura, e comunque ogni posto sarebbe andato bene, chiunque passando per questa strada avrebbe potuto individuarlo, un posto vale l’altro, non crede?». Per stemperare la tensione li avevo invitati ad alta voce, mentre eravamo lì in quel frondoso spiazzo verdeggiante: «Fermiamoci un attimo a commemorare questa ragazza, una giovane di sedici anni. Riflettiamo sulla sua vita».

Avevo ancora in mente quella scena imbarazzante,temevo che Froma avrebbe tirato di nuovo in ballo la storia del collaborazionismo degli ucraini, e forse fu per questo che respinsi con fermezza la sua proposta:«No, basta così».

Lei non si arrese. «Perché non gli chiedi cosa ricorda del momento in cui li portarono via?».

«Hmm?» tentennai. Non volevo litigare. Sapevamo già cosa era accaduto ed era chiaro che quel Prokopiv non conosceva i miei parenti. Avevo deciso di finirla lì,scattare ancora qualche fotografia e andare via.

«Quel che hai chiesto anche agli altri» insisté Froma.«Cosa accadde quando portarono via gli ebrei?».

Alex era in un bagno di sudore. È un uomo robusto,e soffriva il caldo più di noi. Eppure richiamò Prokopiv e gli ripeté la domanda in ucraino. Il vecchio parlò per un po’. Ricordava un episodio, degli ebrei portati in una radura di fronte all’edificio dove un tempo sorgeva la fabbrica di mattoni e costretti a scavare una buca, dove vennero sepolti dopo essere stati uccisi. Oggi in quel sito sorge un monumento alla memoria. Gli altri furono trucidati nel cimitero.

«Dove si trova questo monumento?» chiese Froma.

«Pensa che sia nella foresta» tradusse Alex. «I tedeschi li radunarono prima in un circolo ricreativo, nell’edificio dove proiettavano i film, poi li condussero in quel posto e li trucidarono».

Era chiaro che si riferiva alla prima Operazione e a Taniawa. Stavamo solo perdendo tempo.

«Va bene, ringraziamolo e andiamo» decisi.

Ma Froma non si arrendeva. «Conosce la storia di qualcuno che si era nascosto?». La domanda era motivata. Quella mattina davanti al Dom Katolicki avevamo incontrato una donna molto anziana, minuta. Si era fermata per salutare Stepan e aveva cominciato a parlare con noi; ci disse che durante la guerra aveva aiutato una ragazza a nascondersi, una certa Rita. A quel punto era scoppiata in lacrime, dicendo: «Gli ebrei non avevano fatto male a nessuno, eppure li hanno uccisi tutti». Froma era rimasta molto colpita dalla storia, per questo pose quella domanda: «Conosce la storia di qualcuno che si era nascosto?».

Alex, discosto qualche metro da noi insieme a Prokopiv, fece segno di non aver sentito. Gli ripetei a voce alta la domanda e lui la girò a Prokopiv. A quel puntomi arresi. Tornai sui miei passi e mi avvicinai a loro.

Prokopiv fece un cenno affermativo. «Nascosti» ripeté. «Sì, la conosco».

Indicando con un cenno del capo la strada adiacente a quella dove ci trovavamo, il vecchio ricominciò a raccontare. Mi sembrò di sentire il nome Kopernika. Copernico? La mia conoscenza dell’ucraino non era certo maggiore del polacco.

Alex ascoltò e poi tradusse. «Ha detto che in via Kopernika c’erano due insegnanti polacche. Una nascondeva due ebrei, che poi furono catturati, e lei venne uccisa».

 

In quel momento, quando Alex disse «due insegnanti polacche, una nascondeva due ebrei», compresi per la prima volta l’espressione radicato al suolo. L’emozione fu tale che non riuscivo a muovermi. Le orecchie mi ronzavano. Quando infine parlai, sentii la mia voce rimbombare nel cervello. So cosa dissi solo perché il registratore digitale era acceso: «Ma questa è la... è la...».

Mi sforzavo di riordinare i pensieri. Dissi ad Alex:«Chiedigli se era un’insegnante di disegno. Potrebbe essere la stessa che nascose mio zio e la figlia, una professoressa d’arte, chiediglielo...».

Solo allora mi resi conto di non aver raccontato ad Alex questa parte della storia. Dall’ultima volta che ci eravamo visti avevo appreso parecchi altri particolari emi ero ripromesso di ragguagliarlo durante la cena che lui e Natalie ci avrebbero offerto a casa loro la sera seguente, dopo l’arrivo di Lane. Non sapeva ancora niente, non avevo nemmeno accennato al fatto che Frydka e Shmiel si erano nascosti, né a Ciszko e alla Szedlak, non immaginavo fosse importante raccontarglielo subito, quel giorno stesso.

Lo avevo pregato di fare quella domanda al vecchio,quasi inconsapevolmente. Mentre Alex traduceva, mi schiarii la gola e aggiunsi: «Ricorda il nome di quell’insegnante?». Era ben probabile che in quella città ce ne fosse più d’una, pensai, dopotutto non sarà stata l’unica a nascondere ebrei. Forse non si trattava della medesima persona. Dovevo essere sicuro. Alex formulò la domanda. Prokopiv ascoltò, quindi annuì ripetutamente, con convinzione, e fece un largo sorriso. Aveva una dentatura piccola e regolare. «Tak tak» rispose.

«Szedlakowa» soggiunse.

E poi aggiunse qualcos’altro, un’intera frase.

Alex si voltò a guardarmi e tradusse: «Ha detto che fu uccisa nel cortile della sua abitazione».

Rimasi inebetito e mi rivolsi direttamente a quel vecchio, come se la forza dell’emozione potesse trascendere le barriere del linguaggio:

«Erano mio zio e sua figlia. Erano loro».

Ogni volta che racconta quell’episodio, Froma riferisce che nell’udire Prokopiv pronunciare il nome Szedlakowa mi ero letteralmente sciolto. Ed è vero, in quel momento era come se mi si fosse spezzato qualcosa dentro. Semplicemente, mi lasciai andare, mi accovacciai su quella strada polverosa e scoppiai a piangere.

La reazione fu in parte dovuta alla consapevolezza di quale bizzarra coincidenza ci era capitata: avevamo rischiato di non incontrare quell’uomo, non gli avremmo mai parlato se fossimo arrivati cinque minuti dopo,non gli avrei mai posto la domanda giusta se Froma non avesse insistito in quel modo. Con tante persone che si erano nascoste conosceva proprio la vicenda che stavo cercando di ricostruire, cui avevo dedicato gli ultimi quattro anni della mia vita.

Ma la causa era anche un’altra: per lungo tempo sembrava impossibile trovare conferma a quella storia,perché tutti quelli da cui l’avevo sentita, nelle varie versioni che circolavano, non ne erano stati testimoni oculari. Adesso invece stavo parlando con un ucraino, non con un ebreo, cioè con qualcuno che era presente. All’improvviso, aveva assunto le dimensioni di una vicenda reale più che di una storia. Ero arrivato al nocciolo.

Mi accovacciai su quella strada tranquilla, le mani sugli occhi umidi di pianto e, quando infine alzai lo sguardo, vidi che Prokopiv si era avvicinato e mi guardava con un’espressione di profonda, quasi paterna commozione, nel modo in cui un uomo guarda un bambino che si è fatto male.

«Aiiiii» esclamò con un profondo sospiro. «Tak tak». «Sì sì». Sembrava avesse detto «Su su».

Froma e Alex tacquero per un po’, poi la mia amica chiese a bassa voce: «Lo sapevano tutti? Conoscevano tutti questa storia?».

Prokopiv annuì convinto. «Sì, sì» tradusse Alex. «Lo sapevano tutti. Ha detto che se ne parlò parecchio quando accadde».

Quando accadde. Non nel 1946 a Katowice, o nel 1950 in Israele, o nel 2003 in Australia. Fu quel pensiero a spronarmi: dovevo raccogliere altre informazioni. La mia mente si schiarì e mi rimisi in piedi.

Dissi: «Quindi ha detto che le insegnanti erano due?». Era una novità.

I due ucraini parlarono per un po’: il vecchio di novant’anni, un uomo che ne aveva viste di tutti i colori, e il giovane di trentacinque anni dalle sembianze di un orsacchiotto che, per chissà quali ragioni misteriose,per scelta, temperamento o caso, aveva consacrato la sua esistenza alla ricerca delle tracce degli ebrei della Galizia. Alex riprese: «Sì, erano due sorelle, vivevano insieme. Secondo lui sono state entrambe uccise».

«Ricorda in che zona della città vivevano?» chiesi.

Alex tradusse la domanda, poi mi lanciò un’occhiata intensa, rassicurandomi: «Certo che lo ricorda. Ci accompagnerà lì, se lo desideriamo».

La strada era silenziosa. Si udiva lo stormire delle foglie dei meli scosse da una lieve brezza.

Annuii: «Sì, andiamo».

 

La casa un tempo appartenuta alle sorelle Szedlak,un villino basso a un piano, tipica costruzione di Bolekhiv, appariva deserto quando Prokopiv ce lo indicò. Lo accompagnammo alla chiesa, ringraziandolo di cuore.

Durante il tragitto, Froma aveva chiesto ad Alex di domandare al vecchio se ricordava il nome del traditore. Era tale l’emozione per la scoperta della casa delle Szedlak che a me non era venuto in mente. In fondo ero pago. Ma Alex, anche lui in fibrillazione, era deciso quanto Froma a scoprire il più possibile. Formulò la domanda, ma Prokopiv scosse tristemente il capo.

«Non sa chi li tradì» tradusse. Stavamo percorrendo il breve tragitto dal Dom Katolicki alla Rynek, dove sorgeva la chiesetta ortodossa dalla cupola dorata, a cinquanta passi dalla casa natale di mio nonno. Poi aggiunse: «Probabilmente allora lo sapeva. Sì, all’epoca la gente lo sapeva... Ma è passato così tanto tempo».

Per un attimo, il pensiero che Prokopiv stesse proteggendo qualcuno mi attraversò la mente, e quando Froma osservò: «Tutto quel che accadde fu possibile perché qualcuno, un individuo, prese una decisione»ebbi la certezza che condivideva il mio stesso dubbio. Ne avevamo discusso spesso in tutti quegli anni. A Ponar aveva espresso una considerazione che ripeteva spesso: l’Olocausto è un evento di tale portata, di dimensioni così gigantesche, smisurate, da indurci a ritenerlo una sorta di meccanismo impersonale, anonimo. Ma gli eventi furono determinati da decisioni di esseri umani. Tirare un grilletto, azionare un interruttore,chiudere la porta di un carro bestiame, nascondere, tradire. In nome di quella convinzione che unisce all’astratto giudizio morale l’analisi dei fatti storicamente accertati, gli eventi cui hanno assistito dei testimoni,Froma aveva chiesto: «Chi era il traditore?». Come me, si stava domandando se dietro la reticenza di Prokopiv nel pronunciare il nome un tempo di pubblico dominio, si celasse una decisione di ordine morale, il rifiuto di denunciare dopo tutti quegli anni un vecchio, malvagio vicino, o se invece l’avesse davvero dimenticato.

Dopo averlo accompagnato tornammo verso la casa delle Szedlak. Prokopiv ci aveva detto che un tempo sul davanti si apriva una bella veranda, di cui non restava traccia. Il villino si presentava tranquillo, una bianca distesa di stucco con tre anguste finestre. Comunicava un’idea di impenetrabilità.

L’entrata doveva essere sul retro, raggiungibile da un viottolo che attraversava un cortile sbarrato da un cancello chiuso con un catenaccio, al cui limitare sorgeva una piccola costruzione dal tetto spiovente di lamiera ondulata, la stessa copertura della casa, con una porta e una finestra. «Troppo ovvio» pensai. Due cani, un piccolo terrier nero e un grosso pastore tedesco ci scrutavano minacciosi.

Alex bussò alla finestra. Dopo qualche attimo una donna dall’aria sciatta apparve sul cortile. Aveva tratti slavi, il viso largo, capelli nerissimi raccolti sulla testa,e indossava una lunga veste sottile d’un color porpora sgargiante, legata frettolosamente attorno alla vita, non certo esile. Poteva avere sessanta come quarant’anni. I cani presero ad abbaiare furiosamente. Io e Froma aspettammo in strada dietro il cancello, mentre Alex parlava con la donna.

«Ci invita a entrare nel cortile» annunciò dopo qualche minuto. «Ma non sa niente, si è trasferita qui dalla Russia negli anni Settanta».

«Va bene» accettai, «vogliamo solo dare un’occhiata». Prokopiv ci aveva riferito che li avevano uccisi nel cortile. Volevo vedere il posto, fermarmi qualche attimo in raccoglimento.

Attraversammo il viottolo, con i cani che ci abbaiavano alle calcagna. Alex disse qualcosa, e la donna riprese i cani, placandoli. «Il cortile» aveva detto Prokopiv. «È lì che li hanno uccisi». Passai la videocamera ad Alex, chiedendogli:«Non ci riesco, puoi filmare tu?». Annuì comprensivo. Gironzolammo un po’ in quello spazio angusto, pavimentato in cemento. «È qui che sono morti» pensai. Stentavo a credere di aver trovato il posto. Confessai a Froma: «Sono confuso. È incredibile, accadde proprio qui». Continuavo a scuotere la testa, mentre osservavo il villino decrepito, il piccolo cortile, il capanno cadente.

Dunque non furono catturati nel castello di un conte polacco.

Esaminando il capanno mi venne un’idea. Domandai ad Alex: «Puoi chiedere a questa signora di farci entrare?». Volevo vedere la casa. Lì fuori, in un punto qualsiasi di quel cortile dissestato, erano morti. In casa invece, ovunque si fossero nascosti, erano ancora in vita. Trent’anni prima in una lettera zia Miriam mi aveva scritto: «Onkel Shmil e la figlia Fridka i tedeschi uccisero nel1944 a Bolechow, così mi dice un uomo di Bolechow nessuno sa cosa è vero». Adesso avevamo accertato la verità. Si erano nascosti in quella casa, proprio lì dentro. Volevo constatare con i miei occhi.

Altre tre donne, dall’aspetto trasandato come la prima, i piedi nudi e sporchi, si erano radunate sull’uscio. Alex disse: «Faremmo meglio a non fermarci a lungo,sono alcolizzate – e piuttosto gravi».

Annuimmo. Varcammo il piccolo ingresso. Due gatti smagriti stavano copulando sul divano. L’ambiente puzzava di chiuso, alcol e urina. Le stanze erano poco spaziose: un cucinino proprio dietro la porta d’ingresso,oltre il quale si apriva un soggiorno angusto con due sofà – su uno, mi resi conto dopo qualche attimo, giaceva il corpo inerte di una donna avvolta in una coperta –quindi una sala da pranzo con un tavolo e qualche sedia. I muri di quella stanza erano dipinti d’un giallo acceso; una rigogliosa pianta di edera correva lungo il soffitto. Le finestre avevano tende di pizzo e le pareti erano decorate con drappeggi di poco valore dalla foggia orientale. Vi notai appese un’icona, una vecchia fotografia ritoccata e, particolare alquanto stravagante, dei vecchi poster che ritraevano modelle anni Quaranta, in pose languide, che sfoggiavano una seducente biancheria intima. C’era un’ultima stanza; aprii la doppia porta emi trovai davanti un adolescente allampanato, dai tratti somatici slavi, con un viso molto bello. Aveva capelli corvini e la pelle nivea, quasi diafana. Mi fissò con sguardo vitreo, gli occhi persi nel vuoto. Richiusi la porta e tornai sui miei passi. Alex era dietro di me.

«Non solo alcol» osservò. «Probabilmente droghe».

E così quella era la casa. Con la sua storia. A parte le foto alle pareti, doveva apparire così a quel tempo; mi figuravo la scena, le tende di pizzo accostate, il forno con le piastrelle accanto alla cucina, ora freddo, ma dal quale un tempo emanava un intenso aroma di cibo. Gironzolavo inquieto, riluttante ad andare via, la mente in subbuglio. Dove poteva trovarsi il nascondiglio?

«Va bene così» decisi infine.

D’un tratto ebbi un’intuizione; mi battei letteralmente la fronte con la mano. Dissi ad Alex: «Chiedile se c’è un piano interrato, uno scantinato o qualcosa del genere».

La donna ci aveva seguito mentre ispezionavamo la casa. Immagino temesse che scoprissimo dove teneva gli alcolici e chissà cos’altro. Alex tradusse la domanda. Sì, sotto c’era uno stanzino.

La donna dai capelli neri sospirò pesantemente, con espressione rassegnata, lievemente accigliata, come fosse abituata a subire imposizioni. Percorse i pochi passi che dividevano la sala da pranzo dal minuscolo soggiorno. Ci accodammo tutti e tre. I due divani erano a meno di un metro l’uno dall’altro, divisi da un tappetino tondo intrecciato. Con gesto stanco, lo spostò con il piede e indicò con un cenno del capo.

Sotto, intagliata nelle assi del pavimento, c’era una botola di una sessantina di centimetri per lato, con i bordi allineati alle assi. Perfettamente mimetizzata, pensai. A un’estremità era agganciato un piccolo anello di metallo, una sorta di maniglia. La osservammo, pensando tutti la stessa cosa.

Mi voltai verso Alex, e indicando la botola chiesi: «Posso entrarci?».

Prima ancora che traducesse la domanda, la donna annuì. Si rivolse ad Alex, che mi spiegò che lo scantinato esisteva già quando quelle donne si erano trasferite lì dal sud della Russia. Adesso era adibito a ripostiglio:vi avevano ammassato barattoli di conserve, sottaceti e roba del genere. Mi chinai per tirare la piccola maniglia e sollevai la botola. Era sorprendentemente pesante e massiccia. Si aprì, e subito fuoriuscì un odore di chiuso e di umidità. Un’altra donna, seduta sul divano di fronte a quello dove giaceva quella inerte, allungò premurosamente la mano per tenere la porta aperta. Guardammo tutti dentro. Per qualche secondo non si vide altro che un buco nero, ma presto si delineò la sagoma di alcune mensole, ricolme di bottiglie e vasetti. Girai intorno all’apertura. Da un lato scendevano alcuni gradini di legno costruiti di recente.

Alzai gli occhi e comunicai ai miei compagni: «Devo scendere lì sotto». Alex, la videocamera in mano, annuì.

Mi accovacciai e allungai le gambe nel vuoto, cercando i gradini con il piede. Li trovai e cominciai ascendere, guardando in alto verso la luce per tutto il tempo. Come ho già avuto modo di dire, soffro di claustrofobia, ma non era certo il caso di parlarne in un simile frangente. Mi venne in mente il carro bestiame al museo dell’Olocausto. Chissà, forse anche Shmiel soffriva di claustrofobia. Magari è una patologia genetica,chi può saperlo? Con la differenza che io potevo risalire all’aria aperta quando volevo.

Era poco più di un buco, non più di due metri e mezzo sotto il livello del pavimento. Non c’era luce, malgrado la botola fosse aperta l’ambiente era immerso in un’oscurità pressoché totale. Allungai le braccia per toccare le pareti e mi resi conto di quanto fosse stretto quello spazio: non più di un metro di lato. Sorprendentemente freddo. Lottai contro un attacco di panico e pensai: «È terribile, è come essere in una...».

«Oh, mio Dio, che stupido sono stato!» esclamai. Kestl, kestl, non castle. C’era stato un grosso equivoco,non frutto di disattenzione, ma perché il trascorrere degli anni modifica le cose: un nipote non può essere identico al nonno, per quanto possa provarci; non possiamo essere altro che noi stessi, condizionati come siamo dal tempo, dal luogo e dalle circostanze in cui viviamo. Per quanto desideriamo apprendere, possiamo solo guardare al mondo con i nostri occhi, ascoltare con le nostre orecchie, e ciò che interpretiamo, vediamo e sentiamo dipende, in ultima analisi, da chi siamo, dal nostro bagaglio culturale e dal desiderio di conoscenza. In yiddish kestl significa scatola. Anni prima, tra i tanti racconti, mio nonno mi aveva fornito un dettaglio sulla morte di Shmiel e io, nell’udire il suono di quelle vocali smorzate e di quelle consonanti aggrovigliate, avevo interpretato a modo mio, trasformando quella storia in una favola,un racconto tragico con tanto di nobile polacco e castello. Ma in quel caso non mi stava narrando una delle sue storie, intreccio inestricabile di realtà e fantasia, in cui agivano degli ebrei in una terra lontana, rifugiatisi in un castello. Si erano nascosti in una specie di scatola. Quindi aveva sempre saputo qualcosa, gli erano giunte voci su particolari ormai irrecuperabili; una storia non lontana dalla verità, come avevo scoperto. Ecco dunque l’approdo delle mie ricerche, il risultato di tutti quegli anni e dei tanti chilometri percorsi: per capire ciò che mi era stato detto avevo dovuto vedere con i miei occhi.

Si erano rinchiusi in uno spazio incredibilmente ristretto e angusto, descritto da qualcuno, chissà dove e quando, come una specie di scatola, kestl. Ora che ci ero entrato, avevo finalmente compreso.

Tremante, recuperai dalla tasca la macchina fotografica di Froma e scattai una foto alla cieca. L’immagine appare vuota: una nuda parete violentemente illuminata dal flash. Erano rimasti nascosti laggiù, per settimane, mesi, chissà. Ma era lì. Avevo sempre cercato dei particolari concreti. Li avevo trovati.

Mi fermai per qualche minuto, mi sembrava doveroso, e poi avevo bisogno di riordinare i pensieri, che si perdevano in mille rivoli; infine risalii in fretta. Ci trattenemmo ancora un po’ per scattare fotografie alla stanza, al tappeto, alla botola, ai divani, al nascondiglio. Non c’era più niente da fare. Ringraziammo la donna e andammo via.

In quell’ultimo viaggio a Bolekhiv feci altre due scoperte fondamentali.

Una volta tornati alla macchina, pregai Alex e Froma di aspettarmi un attimo; intendevo chiamare i miei genitori e renderli partecipi di quella notizia. Mi allontanai e digitai il numero con il cellulare. Rispose mio padre. Negli Stati Uniti il fuso orario era di sette ore avanti. Sono in grado di riportare alla lettera le mie parole, perché avevo dimenticato il registratore acceso;qualche settimana dopo, trascrivendo le registrazioni effettuate durante il viaggio, rimasi sorpreso nel sentire la mia voce eccitata pronunciare frasi che andavano inserite alla fine del capitolo che avevo intitolato LA CASA DOVE SI NASCOSERO. Comunque, la conversazione immortalata è, come certi altri dialoghi familiari divenuti parte della storia che state leggendo, riportata in maniera parziale, in quanto nelle registrazioni non è possibile udire le battute dell’interlocutore.

«Papà? Sono Dan, passami mamma».

(Pausa).

«Mamma...».

(È un mistero che abbia usato quella parola, non la chiamavo così da quando avevo quattro anni).

«... sono Daniel, ti chiamo da Bolechow. Sì, sono a Bolechow. Aspetta, non ci crederai, è successa una cosa incredibile. Pensa, abbiamo incontrato un vecchio che ci ha portato nella casa dove si era nascosto Shmiel... E ci sono entrato e ho visto con i miei occhi il nascondiglio, esiste ancora, è una specie di scantinato nascosto sotto terra, è ancora lì. E il vecchio ricorda tutto, si erano nascosti lì sotto e qualcuno li ha denunciati, li hanno portati nel cortile e gli hanno sparato... Sì,è incredibile, ci sono sceso dentro. Non avrei mai pensato di poter scoprire il posto. Sì, l’ho fotografato, l’ho fotografato. Comunque è tutto così... emozionante e strano. Sto bene, sto bene, adesso torniamo a Lwów. Non avrei mai immaginato di trovarlo. Pensavo solo di tornare qui per scattare qualche foto. Senti, chiama mia sorella e i miei fratelli e di’ loro che ho scoperto la casa, che una persona ci ha indicato la casa dove si erano nascosti, che sono stato nel posto esatto dove sono stati uccisi. D’accordo, sì, ti chiamo dopo, va bene, anch’io ti voglio bene, ciao, ciao».

Ho descritto così ai miei genitori quella clamorosa scoperta. Ma fu nel corso della conversazione telefonica successiva che appresi altri particolari, dopo essere tornati a L’viv e aver avuto il tempo di riflettere sugli avvenimenti, di analizzare le intense emozioni di quel giorno. Più tranquillo rispetto alla telefonata precedente, richiamai i miei genitori dalla stanza dell’albergo. Mio padre era uscito. Lentamente, con dovizia di particolari, ricapitolai a mia madre gli eventi di quella giornata.

«Meno male che c’era Froma» esclamò, «altrimenti non l’avresti mai trovata! Anche in Israele fu merito suo se hai incontrato Yona!».

Ammisi sorridendo: «Sì, è vero. Ho pensato anch’io all’analogia tra questa incredibile scoperta e quell’episodio». A quel punto mi fece una domanda superflua,alzai gli occhi al cielo e replicai: «Sì, certo che l’ho ringraziata». Quando dissi a Froma: «È tutto merito tuo» lei fece una considerazione interessante. Sprizza energia da tutti i pori, si intrufola in faccende che non la riguardano in maniera strettamente personale, ama andare a fondo senza arrendersi mai, come suole ripetere, e disdegna complimenti e adulazioni, come ho già avuto modo di osservare. Così, quando le diedi atto: «È tutto merito tuo» reagì con una smorfia e rispose: «Be’, sì e no. Voglio dire, se fosse piovuto, se non avessimo incontrato nessuno per strada, se Stepan non si fosse trovato a passare di lì, o se il vecchio Prokopiv fosse uscito dieci minuti prima per andare in chiesa? Sì, è stato merito mio ma è stato possibile anche grazie a tutta una serie di circostanze».

Mentre parlava mi tornò in mente quel pomeriggio in Israele e tutte le strane circostanze occorse durante quella lunga ricerca. L’uomo nell’ascensore a Praga. L’incontro con Yona. Shlomo che accende la radio mentre stavano trasmettendo proprio quella canzone, Sixteen Again I’ll Never Be, cantata da Nehama Hendel. Non credo nel soprannaturale; quando, un mese dopo, un’amica mi riferì di una sensitiva che avrebbe detto: «Lo hanno guidato i morti, hanno fatto in modo che li trovasse», mi limitai ad alzare gli occhi al cielo e ad assumere l’espressione tipica di mio padre in frangenti del genere. Quindi mi diedi una spiegazione razionale, giungendo a questa conclusione: le scoperte, le esperienze vissute durante quelle lunghe ricerche, non erano altro che storia. Da una parte esiste l’infinita gamma di possibilità dovute al caso, al tempo, allo stato d’animo, l’inconoscibile e sterminata massa di eventi che costituiscono la vita di un individuo o di un popolo; dall’altra, in questo incredibile e illimitato universo di fattori e possibilità, si intersecano la personalità e la volontà individuale, le decisioni, la capacità di operare distinzioni, quindi di creare, perseverare; l’impulso costante di tornare a dare un’ultima occhiata, che fa voltare a sinistra piuttosto che a destra, fermare questa e non quell’altra persona per chiedere l’ubicazione di una casa o di una strada; l’istinto che una sera non ti fa nascondere sotto il cappotto il cibo che stai portando alla ragazza ebrea che ami, nascosta per salvarsi la vita, perché c’è abbastanza oscurità; la curiosità che spinge il vicino a chiedersi per la prima volta qual è la ragione per cui quel ragazzo ogni sera si reca in quella casa; il carattere, i risvolti psicologici con le incalcolabili minuzie,concrete e conoscibili, i piccoli dettagli che ti portano a intrattenere una conversazione con una vecchia ucraina per trentadue minuti invece di quarantasette, arrivando per questo a casa di un anziano ucraino proprio mentre sta uscendo per recarsi al lavoro in chiesa, e non un quarto d’ora più tardi quando, per una serie di fattori contingenti, la fame, il caldo, la stanchezza, avevi deciso che ne avevi abbastanza, genug ist genug, e bisognava tornare a L’viv.

Al mondo esiste una sconfinata massa di cose e l’atto della creazione opera una scissione attraverso di esse,separando i fatti dalle supposizioni. Non ho mai pensato che i defunti Shmiel e Frydka, morti da lungo tempo e ridotti ormai in polvere, quel giorno a Bolekhiv abbiano trovato il modo di indicarci Stepan, Prokopiv, la casa, la donna e il nascondiglio, la tana sotterranea, la soffocante, gelida scatola dove un tempo si erano invano rifugiati per salvarsi. Ma credo in altre cose. Una sera di settembre del 2001 avevo assistito in silenzio alla reazione commossa di un mio amico dopo che, appena tornato dal primo viaggio in Ucraina, gli avevo raccontato le mie scoperte; mi aveva ascoltato in lacrime, e infine aveva detto: «Sto piangendo perché mio nonno è morto due anni fa e adesso è troppo tardi per fargli delle domande». Questa esperienza mi ha insegnato che, gettandosi nella multiforme realtà delle cose, si troverà quel che con ostinazione si insegue; la ricerca metterà in moto meccanismi altrimenti inattivi, che porteranno a delle scoperte, non importa quanto insignificanti. Se non avessi mai chiesto niente a mio nonno, se non mi fossi lasciato guidare dalla mia sete di conoscenza, non avrei mai appreso tutto quel che poi ho scoperto. Alla fine, anni dopo la loro morte, avevo imparato la lezione di Minnie Spielere Herman il barbiere. Non è questione di miracoli, di coincidenze magiche. Basta solo guardare, scorgere quel che è sempre stato sotto i nostri occhi.

Perché tutto, infine, va perduto: le esistenze di uomini da lungo tempo scomparsi, le vite illusorie, in gran parte sconosciute, di greci, romani, ottomani, malesi, goti, bengalesi e sudanesi, degli abitanti di Ur e Kush, degli ittiti, dei filistei, vicende che nessuno conoscerà mai,come quelle di popoli più recenti, degli schiavi africani e dei loro mercanti, dei boeri e dei belgi, di coloro che furono massacrati o che morirono nei propri letti, dei conti polacchi e dei bottegai ebrei; i capelli biondi, le lunghe ciglia e i denti bianchi che qualcuno un tempo amò o desiderò, di quel giovanotto o di quella ragazza, di quell’uomo o di quella donna, uno tra i cinque (sei o sette)milioni di ucraini lasciati morire di fame da Stalin. Tutto svanito per sempre, anche i particolari più minuti, i capelli, i denti e le sopracciglia, i sorrisi, le frustrazioni,l’ilarità, il terrore, l’amore, la fame, i sentimenti di ognuno di quei milioni di ucraini, così come dei sei milioni di ebrei periti nell’Olocausto, proprio come non rimane traccia della chioma di una ragazza ebrea, di un giovane,di un uomo, di una donna un tempo amata: tutto ormai scomparso, o destinato a scomparire, perché nemmeno milioni di libri potranno documentare tutto ciò, neanche quelli ancora da scrivere; ogni cosa andrà irrimediabilmente perduta, le gambe ben tornite, la sordità, l’incedere deciso con cui quella persona scendeva dal treno con una pila di libri di scuola, i segreti di famiglia e le ricette dei dolci, degli stufati e del gołąki, la bontà e la malvagità, le azioni di coloro che salvarono vite e di coloro che tradirono: alla fine tutto, assolutamente tutto naufragherà nell’oblio, come la civiltà degli egiziani, degli incas,degli ittiti. Eppure, nel breve periodo qualcosa può essere salvato, se solo, di fronte all’immensità dell’esistenza, qualcuno deciderà di guardarsi indietro, di dare un’ultima occhiata, di cercare tra le rovine del passato per recuperare il possibile, incurante di ciò che è andato perduto. E così quella sera al telefono mia madre finì per affrontare proprio questo tema, la necessità di guardarsi alle spalle.

«Sì» avevo convenuto, riecheggiando le sue parole,«è stato un bene che Froma fosse con me. Grazie a Dio si comporta sempre così, continua a ripetere “Aspetta!Dobbiamo ancora vedere una cosa! Torniamo indietro!”». Risi e scossi il capo, rifacendo il verso a Froma.

Anche mia madre rise, ma d’un tratto, ridivenuta seria, aggiunse: «Accadde così anche il giorno in cui morì mia madre».

(Ed è vero).

«Cosa vuoi dire?» la sollecitai.

«Oh, Daniel, non ricordi? Le volevi così bene, siamo stati insieme tutto il giorno, solo noi due».

Il cuore cominciò ad accelerare i suoi battiti; replicai:«No, conservo solo delle immagini confuse».

Frugai nei miei ricordi: le piastrelle della sala d’attesa con le onde disegnate, lei che mi diceva qualcosa che ho rimosso, il perturbante struggimento, la paura,l’oscura sensazione di vergogna. Il rumore dell’acqua che scorre.

«Daniel, davvero non ricordi?».

Poi cominciò a rievocare quel giorno, dall’inizio,proprio come avevo fatto io poco prima. Mia nonna aveva avuto un blocco intestinale e durante l’intervento esplorativo le avevano trovato un grosso fibroma al colon. L’avevano richiusa, rinviando la colostomia per permetterle di riprendersi, poiché era troppo debole.

A quel punto il racconto divenne concitato. Mio nonno aveva chiamato mia madre da Miami, sconvolto, mettendola al corrente della situazione, e avevano concordato che entro qualche giorno lei si sarebbe trasferita da loro per assisterla. Ma poi, quella stessa giornata, mia nonna si aggravò, come sono soliti dire i medici. Entrò in coma, e la mattina seguente il dottore chiamò mia madre e le disse: «Se vuole vederla viva deve venire oggi stesso». E così dovette affidare Andrewe il neonato Eric a una vicina e, con i capelli ancora umidi per la doccia, preparò me e Matt per il viaggio.

«Non ricordi che zio Nino ci accompagnò all’aeroporto?» mi domandò.

«No». Infatti non lo rammento.

Mia madre continuò. Aveva chiamato l’ospedale prima di partire; sua madre era miracolosamente uscita dal coma e lei le aveva parlato, rassicurandola: «Non ti preoccupare, sto arrivando». Ma quando giungemmo a Miami Beach mia nonna era scivolata in un sonno da cui non si risvegliò più, restando in coma più di una settimana.

«Una settimana, dieci giorni, non ricordo. Non rammenti che andavamo ogni giorno in ospedale?» mi chiese, lei a Long Island, io a L’viv, in una stanza d’albergo dal soffitto alto, intento a osservare biondi ucraini sorridenti a passeggio per strade in cui nessun ebreo cammina più.

«No» risposi.

«Be’, era così. Il giorno che morì passammo tutto il tempo al suo capezzale. Oh, come ti voleva bene! E la sera, mentre stavamo andando via, nello scendere le scale d’un tratto avvertii come una voce, una sensazione improvvisa, che mi indusse a tornare indietro. Questo particolare mi ha fatto pensare a Froma. Mi chinai verso di te e ti dissi: “Daniel, torniamo su a dare un ultimo saluto a Nana”, e abbiamo rifatto le scale. Quando siamo arrivati era morta. Un’infermiera nel corridoio mi diede la notizia: “Mi dispiace, sua madre è appena deceduta”. Entrai nella stanza, mi inginocchiai accanto al letto e piansi: “Mamma, mamma, non mi lasciare,non mi lasciare, ho ancora bisogno di te”». Ecco dunque spiegata quella strana sensazione di vergogna. Sino ad allora avevo sempre desiderato rivedere mia nonna; era dolce accarezzarle il braccio, come facevamo quando giaceva in quella stanza d’ospedale,con gli occhi azzurri aperti. Ma quel giorno ero esausto;inoltre mi spaventò la nota di urgenza nella voce di mia madre quando si chinò per dirmi «torniamo su»; per qualche ragione mi indusse a pensare che mia nonna fosse già morta. Desideravo rivederla, ma ero terrorizzato, confuso, e provavo vergogna, non volevo darlo a vedere a mia madre.

«Scoppiammo a piangere» continuò, «poi andammo nel bagno, mi sciacquai il viso e le mani e le lavai anche a te, perché dopo aver toccato i morti bisogna lavarsi le mani».

Ricordavo l’acqua che scorreva. E mio nonno, dopo una visita al cimitero, una vita fa, che ci esortava: «Avanti bambini, correte su a lavarvi le mani, siete stati al cimitero». Lafatevi le manni.

«Non ricordi niente di tutto questo?» mi ripeté mia madre.

«Adesso sì» risposi.

Qualche settimana dopo descrissi questa conversazione all’amica che parla con i sensitivi; mi ascoltò a lungo e quando terminai commentò, scandendo le parole:«È strano questo blocco mentale da cui sei colto quando senti le parole “tornare indietro a dare un’ultima occhiata”». Quella frase sembrava un assioma, il finale di una storia.

«Perché?» mi stupii. «Tutt’altro che strano, quell’episodio spiega tutto!» aggiunsi compiaciuto.

Donna, una poetessa, rise e continuò: «Oh, Daniel,non intendevo questo. È strano perché sei un letterato, sei lo storico di famiglia. Hai trascorso tutta una vita a guardarti indietro». Questo è quanto.

Il secondo fatto rilevante legato a quel pomeriggio a Bolekhiv fu una email inviatami da Alex una decina di giorni dopo il nostro ritorno a New York, destinata anch’essa a influenzare il mio modo di vedere certe cose.

Prima di partire avevo pregato Alex di tornare a Bolekhiv dopo una settimana o giù di lì – il tempo necessario affinché i ricordi di Prokopiv, da noi ridestati, non si sopissero del tutto – per porgli di nuovo la domanda sul nome del traditore. Ero convinto – essendo mio amico, condivisi con Alex quella sensazione – che se Prokopiv fosse stato reticente per proteggere qualcuno,forse si sarebbe sentito più a suo agio parlando solo con lui, da ucraino a ucraino, senza la presenza di un gruppo di ansiosi ebrei parenti delle vittime, che pendevano dalle sue labbra. Alex si disse convinto che il vecchio ci avesse rivelato tutto quel che ricordava, ma conveniva sulla probabilità che dopo qualche giorno gli potesse tornare in mente il nome.

E così, una settimana dopo il nostro ritorno negli Stati Uniti, tornò a Bolekhiv, scovò Prokopiv ed ebbe con lui un lungo colloquio. Nella corposa email mi scrisse che l’anziano ucraino ancora non ricordava il nome del traditore. Aveva nominato tutti i vecchi abitanti del quartiere – lui stesso vi aveva sempre vissuto,rammentava i nomi delle famiglie che vi risiedevano prima dell’arrivo dei tedeschi, per esempio quella di Kessler, un falegname ebreo – ma non il delatore della Szedlakowa, conosciuto da tutti in città.

In un certo senso, avvertii un certo sollievo: mi resi conto che la caccia al traditore apparteneva, in definitiva, a un’altra storia. Avevamo cercato di ricostruire le esistenze di Shmiel e dei suoi familiari, chi erano e com’erano morti, scoprendo una gran quantità di particolari che nemmeno nei nostri sogni più rosei avremmo creduto possibile. Eravamo soddisfatti. E comunque, a quel punto ero più interessato a ricostruire la personalità della signora Szedlak che non l’identità del traditore. Ritengo che coloro che salvarono delle vite siano altrettanto imperscrutabili e misteriosi di coloro che tradirono. Per qualche ragione, forse perché era un’insegnante – la forza degli stereotipi è ben più grande di quanto siamo disposti ad ammettere, ragion per cui, accogliendo dei pregiudizi riguardo alle persone, se non si fa attenzione si può incorrere facilmente in gravi errori di interpretazione storica – sin da quel pomeriggio nel soggiorno di Anna Heller Stern, quando lei mi aveva rivelato «zey zent behalten bay a lererin», mi ero sempre figurato una zitella di mezza età che viveva sola, alta e magra, con i capelli grigi legati sulla nuca. Ero stato in quella che un tempo era la sua casa ed ero molto curioso di scoprire qualcosa di lei, una persona che aveva agito indomita secondo il proprio codice morale, pur sapendo che avrebbe potuto costarle la vita, come in effetti accadde. «Li uccisero tutti proprio lì nel giardino» ci aveva rivelato Prokopiv. Era polacca. Mi chiedo se fosse cattolica, come molti di coloro che salvarono gli ebrei. Una zitella devota, che passava le giornate tra scuola e chiesa.

Per questa ragione le informazioni di Alex su colei che aveva cercato di salvare zio Shmiel e Frydka acquistarono tanta importanza.

Innanzitutto mi scrisse che Prokopiv aveva recuperato dalla sua memoria un altro particolare sul giorno in cui fu scoperto il nascondiglio: stava tornando a casa, e passando davanti all’abitazione dell’insegnante aveva visto i cadaveri sulla strada, in attesa di venire rimossi e portati nelle fosse comuni al cimitero ebraico,come avveniva per tutti i corpi degli ebrei scoperti e uccisi. Nell’apprendere i particolari pensai: «Almeno riposano nel cimitero ebraico, da qualche parte». Continuai a leggere l’email. Avevo pregato Alex di chiedere a Prokopiv se ricordava le voci che circolavano su una delle ragazze ebree scoperte, che era incinta. Ecco cosa mi scrisse il mio amico in proposito:

 

Prokopiv non sa se qualche ragazza che si nascondeva fosse incinta. In ogni modo, ha detto che l’insegnante che aveva nascosto gli ebrei aveva una figlia illegittima, avuta dal direttore della scuola, Paryliak (o Parylak).

 

Comunque, Prokopiv non sa cosa ne fu della bambina dopo la morte della madre.

 

E così, tanto per cambiare, mi sbagliavo. Chiunque fosse, non si trattava di una morigerata donna di mezza età dallo chignon grigio. Leggendo il messaggio di Alex, mi venne in mente il racconto di Stepan sui Medviv, impiccati nella Rynek, e tutti i loro parenti residenti nella contea, uccisi anch’essi. Quelle esecuzioni pubbliche avevano uno scopo ben preciso, dissuadere i cittadini, persone come Szymanski, la signora Szedlake molti altri, dall’aiutare gli ebrei, cosa che invece fecero, per chissà quali misteriosi motivi: amore, bontà,convinzioni religiose. Chiunque ella fosse, in qualunque modo avesse agito – difficile scoprire altro di lei,anche se non mi arrendo – decidendo di salvare due ebrei questa signora Szedlakowa non aveva da perdere soltanto la propria vita.

 

Forse più di ogni altra parte della Genesi, la parashah Vayeira si sofferma sulle conseguenze della scelta morale: nella storia di Sodoma e Gomorra, si intendono evidenziare le conseguenze dell’adesione al male, mentre nel movimentato racconto con il quale questa parashah si conclude – Dio chiede ad Abramo di sacrificare il suo unico figlio legittimo – credo si voglia sottolineare l’effetto dell’altra scelta, quella del bene.

Secondo quanto ci viene suggerito all’inizio di questo fondamentale brano, l’imposizione del sacrificio umano rappresenta, almeno per il Creatore, niente altro che una prova della devozione di Abramo; eppure alla mente evoluta appare così aberrante che nei millenni i commentatori abbiano versato fiumi di inchiostro per spiegarla, analizzarla, interpretarla e giustificarla. Friedman, per esempio, dedica al sacrificio tre pagine intere del suo commentario – circostanza già di per sé rimarchevole, se si considera che la vicenda di Sodoma e Gomorra non era ancora stata corredata di alcuna glossa –fornendo un compendio invero lucido delle questioni inevitabilmente sollevate da tale sacrificio. Trovo opportuno (da un punto di vista puramente letterario e strutturale) che il rabbino moderno si soffermi sul contrasto chiaramente sottolineato tra la difesa accalorata di Abramo nei confronti degli abitanti di Sodoma, il suo tentativo di contrattare sulle loro vite e, d’altra parte, il suo assoluto silenzio di fronte alla richiesta di Dio, a suo modo persino più raccapricciante, che il patriarca uccida il proprio figlio. Una possibile spiegazione di questa sorprendente antinomia, ipotizza Friedman, è l’obbedienza, il segno distintivo di Abramo in tutta la Genesi –spiegazione psicologica che soddisfa fino a un certo punto,perché non approfondisce la questione inquietante della predilezione apparentemente innata di Abramo per la cieca fedeltà, che meriterebbe, in caso di ordini manifestamente immorali, un’analisi più accurata («Gli ordini» scrive Friedman «non lasciano spazio alla discussione», affermazione alquanto strana, mi viene da pensare, per un rabbino che scrive alla fine del ventesimo secolo, non corredata da altro commento, soprattutto nel contesto della spiegazione di un passo biblico). Friedman prosegue ricorrendo a quel che potremmo definire un assunto retorico: egli nota che il patriarca è capace di esercitare un’opera persuasiva maggiore quando si tratta dei malvagi abitanti di Sodoma perché con essi non ha alcuna relazione; al contrario, nulla può eccepire sulla giustizia o l’iniquità del sacrificio del proprio figlio in quanto troppo coinvolto. Anche questa spiegazione mi pare insoddisfacente, lasciando intendere che egli non è in grado di valutare obiettivamente le situazioni, quindi non dà prova di grande intelligenza. In terzo luogo, suggerisce Friedman con un’osservazione affascinante, l’epilogo del primo di questi due racconti morali della parashah, quello di Sodoma e Gomorra, fornisce la spiegazione del silenzio di Abramo. La futilità delle ragioni addotte dal patriarca nel suo dialogo con Dio, egli suppone, e il fatto che quell’ardua contrattazione non ha prodotto alcun risultato, poiché Dio sapeva da sempre quanto fossero malvagi gli abitanti di Sodoma e quanto buono Abramo, sono la ragioni di tale silenzio: Abramo è ben consapevole di quanto sia inutile discutere quando Dio gli ordina un sacrificio infinitamente più doloroso dell’annientamento di intere popolazioni.

Anche Rashi deve superare non pochi problemi per arrivare alla conclusione che la richiesta di Dio di una prova di devozione assoluta da parte di Abramo ha vaste implicazioni a livello mondiale e cosmico: è necessario che sia dimostrata la virtuosa obbedienza del patriarca così che Dio possa fornire una risposta a Satana e alle legioni dei miscredenti quando questi domanderanno la ragione della predilezione di Dio per la tribù di Abramo. «Perché hanno timore di Dio» è la spiegazione, resa possibile dalla disponibilità di Abramo a sgozzare suo figlio.

Una delle più affascinanti questioni morali sollevate dal sacrificio di Isacco – e, in senso lato, da tutta la parashah – è che la rappresentazione della bontà (per esempio quella di Abramo, che obbedisce a Dio persino nelle circostanze più estreme e ambigue) è, a suo modo, così monotona e poco interessante, così ambigua quanto quella della malvagità (si veda la vicenda degli abitanti di Sodoma). Infatti, come indica il testo di questa parashah, la bontà è obbedienza a Dio e la malvagità è disobbedienza, quasi che la moralità si riducesse a un comportamento in apparenza coerente ma privo di reale significato – anche se, per rifarci a degli esempi tratti da questa lettura settimanale della Torah, il fatto che le azioni degli abitanti di Sodoma possano sembrare depravate non giustifica la morte di tutti loro, e sono comunque meno raccapriccianti dell’ordine impartito da Dio ad Abramo.

D’altra parte, quel che a mio avviso è l’aspetto più interessante di questa parashah conclusiva è che, a prescindere dalla validità della sua più ampia riflessione morale, essa intende descrivere quello che in ultima analisi si configura come uno scenario estremamente accurato, in cui le persone agiscono in condizioni estreme e quasi inimmaginabili. Vale a dire, un’immagine dai contorni sfocati, una verità che rimane, in definitiva, completamente avvolta nel mistero: che alcuni semplicemente scelgono di fare del male e altri di fare del bene anche quando, in entrambi i casi, sono consapevoli dei terribili sacrifici che ne conseguono.

Prima di porre la parola fine a questa storia, devo raccontarvi un ultimo episodio riguardante un ritorno,il voler tornare indietro a dare un’ultima occhiata.

Il giorno seguente la scoperta del nascondiglio era un sabato. Quel pomeriggio io e Alex andammo a prendere la mia amica Lane all’aeroporto di L’viv e l’accompagnammo in albergo, dove Froma ci aspettava intenta a studiare le cartine in vista delle escursioni programmate con Lane ai siti dei genocidi. Le raccontammo tutti eccitati la grande scoperta.

Lane reagì gettando repentinamente il capo all’indietro, suo gesto tipico, che mi ricorda il movimento di un volatile.

«Fantastico!» esclamò. Mentre la macchina sfilava davanti al teatro dove settant’anni prima una ragazza che un giorno avrebbe assunto il nome Frances si era recata per assistere alla rappresentazione della Carmen, Lane indicò una delle sue enormi, bizzarre custodie perla macchina fotografica in tela nera, chiedendomi: «Hai scattato qualche foto da inserire nel tuo libro?». Quando le risposi che avevamo solo la piccola macchina fotografica digitale di Froma, reagì con una smorfia di disapprovazione e incredulità. «Se vuoi ci torniamo, farò delle belle foto per te» propose.

E così la domenica tornammo a Bolekhiv – in effetti fu l’ultimo viaggio intrapreso per zio Shmiel – dove feci l’ultima scoperta, che pose fine alla nostra ricerca.

Ancora una volta scendemmo il declivio che conduce alla sonnolenta cittadina, stavolta assopita sotto la morsa di minacciosi nuvoloni. Le strade ci erano ormai familiari. Alex parcheggiò davanti all’anonima piccola abitazione dove, come due giorni prima, fummo accolti dalle occhiate sospettose del cane nero e di quello marrone. Di nuovo bussammo alla finestra e la donna dai capelli neri venne ad aprire. Le spiegammo che volevamo scattare delle fotografie con una macchina migliore e la pregammo di farci entrare. Dava l’impressione di essere un po’ più vivace della volta precedente. Annuì stancamente, accennando un sorriso, e ci invitò a entrare. Ancora una volta attraversammo quelle stanze anguste e aprimmo la botola; di nuovo il rumore della maniglia. Però questa volta non mi calai nel nascondiglio, nel kestl. Mi era bastato.

Uscendo dalla casa notammo un giovane dall’aspetto vigoroso – non il cadaverico zombie che giaceva immobile sul letto, quel venerdì – che si aggirava intorno al caseggiato: probabilmente era il figlio di una delle donne. Alex parlò animatamente con lui e l’uomo indicò lo steccato. «Dice che in questa casa ci sono due abitazioni» spiegò Alex.

Io, Froma e Lane sbirciammo al di là della recinzione e notammo che in effetti i giardini erano due.

«In quell’altra vive una donna anziana, una russa che si è trasferita qui subito dopo la guerra, forse può rivelarci qualcos’altro».

Guardai dubbioso le mie amiche. Chiesi loro se avevano niente in contrario. «E perché mai? Siamo venute per questo!» risposero.

Tornammo sulla strada e girammo intorno al caseggiato. In effetti c’era un altro ingresso. Alex bussò e chiamò ad alta voce, in russo, e subito apparve una donna dalle guance rosee e il volto da bambina, con capelli sorprendentemente neri, ricci e scompigliati. Indossava un vestito di un azzurro sgargiante con vistosi pois bianchi. Alex le spiegò perché eravamo lì e lei, con voce calda ed entusiasta, ci invitò a entrare. Proprio come in una fiaba, la sua abitazione era tanto accogliente e pulita quanto l’altra era sudicia e decrepita. Dalla piccola cucina arrivava il delizioso aroma di un dolce alle pesche. Ci accomodammo, mentre lei abbassava il volume altissimo di un piccolo mangianastri che suonava una melodia religiosa russa. Alex le spiegò cosa cercavamo. I suoni ricchi e sommessi della lingua russa riempirono la stanza. La vivacità, il modo deciso di annuire e la voce squillante facevano venire voglia di abbracciarla. Sembrava il personaggio della nonna o della fata di una fiaba.

«Conosce la storia dei due ebrei che si nascosero dall’insegnante. Venne a vivere qui negli anni Cinquanta,ma ne ha sentito parlare. Però sostiene che le due insegnanti erano entrambe vive dopo la guerra e che la loro casa non è questa, ma un’altra, sempre su questa strada».

Ci scambiammo occhiate inespressive, sull’orlo della disperazione. Replicai: «Non può essere. Non ci credo».

Ero stato laggiù, in quel buco gelido. Ero convinto fosse quello giusto.

Parlammo ancora un po’, ma osservando il faccione rubicondo di Alex mi fu presto chiaro che non avremmo scoperto altro. Del resto era sufficiente. Era stato tutto inutile. Eravamo tornati al punto di partenza.

Ci alzammo, pronti a congedarci. Alex disse: «Mi ha indicato quella che secondo lei è la casa. Ci vive un uomo molto anziano. Pare sia sordo. Vuoi andarci?».

Compresi quel che intendeva: siamo ancora in tempo per fermarci.

Annuii truce e decisi: «Andiamo a parlare con questo vecchio».

Ci trascinammo stancamente in strada. A un certo punto Alex si voltò e mi confessò: «Non voglio sentire una nuova storia, vorrei che fosse finito tutto venerdì!». Con un mesto sorriso replicai: «Provo sempre questa sensazione».

«Sì, adesso ti capisco!». La casa indicataci dall’anziana donna sembrava davvero uscita da una favola dei fratelli Grimm: una sconquassata bicocca in legno, discosta dalla strada,con tetti incredibilmente spioventi, le grondaie e le travi scurite dal tempo. Anche da lì proveniva un’assordante litania liturgica russa, malgrado le finestre chiuse. Attraversammo il giardino, mentre cominciava a cadere una sottile pioggerella. La porta era aperta. Alex lanciò un urlo ma nessuno rispose. Gridò ancora, e infine decidemmo di entrare. Le stanze avevano soffitti cavernosi, le pareti erano interamente ricoperte di icone. Seguendo il suono giungemmo in quello che un tempo doveva essere il salone, un ampio spazio scarsamente arredato, che recava qualche traccia dell’antico splendore; su un tavolo c’era un vecchio grammofono,e lì accanto un uomo anziano, la cui figura si adattava al luogo: sembrava un quadro intarsiato in legno del diciannovesimo secolo, macilento e allampanato, con i capelli ingialliti che ricadevano sfibrati intorno al volto, gli occhi neri infossati e cerchiati. Mi ricordava Franz Liszt.

Alex gli si avvicinò e prese a parlargli a voce alta,spiegandogli in russo il motivo della nostra visita. Tra le grida, le icone, il profumo d’incenso e la musica – e,non da ultimo, la delusione per l’informazione appena ricevuta – avevo l’impressione di essere il personaggio di una farsa; anche Froma e Lane si sforzavano di reprimere un riso incredulo. Dopo qualche minuto di quegli schiamazzi, Alex si voltò verso di me con espressione abbattuta. Quando uscimmo in giardino, un’oasi di pace in confronto, Alex mi spiegò: «Quell’uomo si è trasferito qui negli anni Settanta, non sa niente».

Insomma, andò così. Ci dirigemmo verso la macchina. Avevo il morale sotto i piedi, appena due giorni prima ero convinto di aver finalmente scritto la parola fine e ora tutto era andato in fumo: la casa dell’insegnante, il nascondiglio, il cortile dove erano stati ammazzati. «Un tempo c’era una veranda». A quanto pareva il vecchio Prokopiv non era lucido come avevamo creduto.

Mentre salivamo in macchina, Froma richiamò la nostra attenzione: «Aspettate, ci sta chiamando». Ci voltammo verso la casa e scorgemmo il giovane che faceva cenno di avvicinarci. Lo raggiungemmo, e cominciò a parlare con Alex. Il volto del mio amico s’illuminò. «Ha detto che dall’altro lato della strada abita un’anziana polacca, è sempre vissuta qui, di certo conosce la storia e potrà indicarci la casa giusta». «Di certo conosce la storia». Scambiò qualche altra battuta con il giovane, che indicò in fondo alla strada e ci diede l’indirizzo. La donna si chiamava Latyk – un cognome piuttosto comune da quelle parti; non aveva legami di parentela con l’altra signora Latyk.

Ancora una volta Alex bussò a una finestra; di nuovo le grida di saluto per farsi annunciare. La casa era grande, intonacata di un bianco immacolato. Attraverso lo steccato si intravedeva un giardino piuttosto esteso. Dopo qualche attimo apparve una donna bassina ma dall’aspetto florido, con una folta capigliatura argentata, il viso tondo e l’espressione guardinga. Indossava una sottile veste grigia, che strinse con una mano attorno alla vita; forse non si sentiva a suo agio in quell’abbigliamento discinto, e ci guardava con circospezione mentre Alex le spiegava il motivo della nostra visita. Non appena lui finì di parlare, la donna parve tranquillizzarsi; fece un largo sorriso e annuì.

Disse: «Tak, tak! Tak. Tak, tak, tak!».

Parlò concitatamente in polacco con Alex, che tradusse: «Sa la storia! La conosce, ricorda le due insegnanti che nascosero gli ebrei. Ha detto che si chiamavano...». Lei disse: «Pani Emilia i Pani... mmm...».

Una era Emilia, ma non riusciva a ricordare il nome dell’altra donna. Corrugò la fronte per lo sforzo. Alex continuò: «Una riuscì a fuggire, l’altra fu uccisa».

All’improvviso la donna esclamò: «Hela! Emilia i Hela!». Aggiunse in fretta qualcosa, rivolgendosi ad Alex.

«Hela fu uccisa. Emilia riuscì a scappare».

Per la seconda volta in tre giorni domandai: «Ne ricorda il cognome?».

Alex riportò la domanda e la signora Latyk rispose tutta orgogliosa: «Szedlakowa».

«Sa qual è la casa?» incalzai. Almeno avremmo appreso un’altra versione, pensai.

Alex mi rassicurò: «Certo, ce la indicherà».

Io e le mie due amiche esclamammo all’unisono: «Grazie!».

A quel punto Alex fece le presentazioni. «Pani Janina Latyk. Pan Daniel Mendelsohn. Pani Froma Zeitlin.Pani Lane Montgomery».

La donna, ormai rilassata e sorridente, aggiunse qualcosa.

Le sentii pronunciare il nome Szymanski.

«Un momento!» esclamai. Stavano parlando tutti insieme e c’era una gran confusione. Inizialmente volevo solo scoprire quale fosse la casa giusta, ma adesso era chiaro che potevamo apprendere molto di più da quella donna.

«Un momento, un momento!» cercai di farmi sentire.

Tacquero tutti e chiesi ad Alex: «Che cosa sta dicendo?».

Scambiò qualche battuta con la donna, quindi rispose: «Ricorda un ragazzo che aiutava gli ebrei a nascondersi».

«Come si chiamava?».

La signora Latyk rispose: «Czesław».

Il cuore mi balzò in petto. Il vecchio Prokopiv ricordava che un’insegnante di nome Szedlak aveva nascosto degli ebrei a casa sua, e ci aveva indicato l’abitazione. Era una storia che avevo appreso molto tempo prima, nel salotto di una casa a Kfar Saba, e da quel momento mi ero sempre chiesto come potessero conciliarsi le varie versioni. Ciszko la nascose a casa sua. Un’insegnante polacca aveva nascosto entrambi nella propria abitazione. Era giunto il momento della verità.

«Czesław chi?» domandai.

La signora Latyk specificò: «Czesław – Ciszko, Ciszko!».

Il diminutivo. Ci scambiammo delle occhiate. I miei tre compagni ripresero a fare domande tutti insieme. Ormai conoscevano la storia quanto me. Fu un momento davvero eccitante.

«Aspettate!» mi sgolai. Ero tutto sudato e avvertii di nuovo quella debole eco nella testa. Mi sforzai di rimanere calmo e richiamai la loro attenzione: «Ascoltate, bisogna fare delle domande il più possibile specifiche. Non dobbiamo fornirle dei particolari, imbeccarla perché ci dica quel che vogliamo sentire, non bisogna rivelarle quel che già sappiamo. Non capiteremo mai più qui, e dopo quello che abbiamo passato voglio partire con qualcosa di definitivo. Quindi limitiamoci a chiederle quel che sa, sentiamo cos’ha da dirci. Voglio che lesue risposte non siano influenzate dalle informazioni che le forniamo noi».

Quindi, rivolto ad Alex: «Allora, ha parlato di Czesław, di Ciszko, ne ha fatto anche il cognome, Szymanski. Cosa sa di lui, a che proposito ne ha menzionato il nome?».

Parlottarono per circa un minuto, poi Alex tradusse:«Fu lui a trovare il rifugio dove nasconderli. Portava loro anche il cibo».

Scambiai un’occhiata con Froma. Dalla casa uscì un’altra donna, una signora di mezza età, dal viso gradevole. Era la sorella della signora Latyk. Le due parlarono con Alex, che mi guardò con espressione dubbiosa. «Ci invitano a entrare, ma gli ho detto che non vogliamo disturbarle...».

Gli lanciai uno sguardo severo e feci: «Entriamo. Sarà molto meglio starsene comodamente seduti. Spiega-le che per me e la mia famiglia è estremamente importante».

Alex glielo riferì, la donna annuì e ci fece entrare.

Durante i quarantacinque minuti che seguirono ascoltammo quel che sapeva. Ricapitolerò quanto ci disse, per quanto forse sia superfluo visto che si tratta di notizie di cui il lettore è già a conoscenza. Ma una differenza c’è: questo racconto lo apprendemmo dalla viva voce della signora Janina Latyk, una persona nata e vissuta a Bolechow, nella stessa strada, via Kopernika, quindi a quel tempo vicina delle sorelle Szedlakowa. Era la prima volta che parlavamo con qualcuno presente all’epoca dei fatti, in grado di raccontare una storia che spiegasse tutti i particolari che fino a quel luglio del 2005 non erano ancora riusciti a prendere forma in un racconto coerente, una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine.

Ecco quel che ci rivelò: era nata a Bolechow nel 1928,quindi nel 1943 aveva circa quindici anni; quel giorno,tornata a casa dopo aver fatto delle commissioni in centro, notò una certa animazione nella strada dove abitava. Si diceva che i tedeschi avevano scoperto una vicina, Hela, che nascondeva degli ebrei in casa. «Ne parlavano tutti!» rievocò la signora Latyk. «Le sorelle erano due, ma l’altra, Emilia, aveva lasciato la città per paura – si diceva che fosse andata a Boryslaw». Quindi uccisero solo Hela. Aveva nascosto gli ebrei in uno scantinato, da qualche parte sotto la casa. E quel ragazzo, Ciszko Szymanski, aveva procurato il nascondiglio e ogni notte portava loro del cibo dal negozio del padre, che aveva una conceria ma anche una specie di macelleria in casa, dove la gente comprava carne e salsicce. Si sapeva che amava quella ragazza ebrea e cercò di nascondere lei e il padre. Ma qualcuno – probabilmente un vicino, non lo ricordava – notò che ogni sera portava del cibo a casa delle Szedlakowa, si insospettì e denunciò lui e le sorelle Szedlakowa alla Gestapo. I tedeschi arrivarono, portarono gli ebrei in un angolo del giardino e li fucilarono sul posto.

«Cos’è accaduto esattamente a Szymanski e alla Szedlakowa?» chiedemmo. Una vita fa, così mi sembrava ormai, Jack Greene mi riferì di aver sentito che Ciszko fu portato in una radura nei paraggi e ucciso. La signora Latyk, presente all’epoca dei fatti, disse:«Fu ucciso a Stryj. Anche Hela fu portata a Stryj, furono impiccati insieme. Ma gli ebrei furono ammazzati sul posto».

Stryj: la cittadina di provincia dove era nata la signora Begley. Quel piccolo dettaglio, a me sconosciuto,dava un’impronta di autenticità a tutta la storia. Gli ebrei non erano protetti dalla legge, si poteva ammazzarli, ovunque. Ma i polacchi che contravvenivano alle direttive dovevano servire da esempio. Era probabile che li portassero a Stryj per dare un feroce monito alla popolazione, prima di giustiziarli.

Questo è tutto. Adesso le tessere del puzzle sono al posto giusto: Ciszko e la Szedlak, la casa di Szymanski e l’abitazione dell’insegnante polacca. Finalmente la storia aveva un senso, era infine possibile rendersi conto di come gli avvenimenti, alterati dalle distanze spaziali e temporali – chi me li aveva riferiti non era presente, si trattava di vicende udite due, tre, dieci anni dopo gli accadimenti – si erano trasformati in tutti quegli episodi in cui ci eravamo imbattuti sino ad allora.

Parlammo anche d’altro: della guerra, del terrore di quegli anni, dell’angoscia per le continue sparizioni dei vicini, ma anche della brutalità del dominio sovietico dal 1945, della fame che attanagliava la popolazione,dell’oppressione che dovette sopportare. La signora Latyk rievocò con commozione gli anni precedenti il conflitto, la sua adolescenza, le amicizie con ragazze ebree, ucraine e polacche, anni, per quanto poteva ricordare, privi di tensioni, odi e animosità. «Era una cittadina laboriosa» disse, accennando un sorriso. La ascoltavo in silenzio, commosso dal fatto che una donna polacca nata nel 1928 raccontasse le stesse storie udite una vita prima da mio nonno, un ebreo nato nella stessa sua città nel 1902, ma anche perché era il minimo che potessi fare per quella donna gentile, che non avremmo conosciuto se non fossimo tornati indietro un’ultima volta, convinti che tutto fosse perduto, e finalmente mi aveva raccontato dall’inizio alla fine la storia da sempre inseguita.

 

Rimaneva un solo particolare da svelare. Così, al termine della lunga conversazione, chiesi in tono piuttosto concitato a Janina Latyk: «Ci può indicare la casa?».

Annuì. Prima di uscire pregai Alex: «Per favore, dille che la mia famiglia è vissuta in questa città per trecento anni e che sono onorato e riconoscente di averla come concittadina».

Dopo aver ascoltato le mie parole, lei sorrise, si portò una mano al cuore e rispose qualcosa. «Anche per lei è così» tradusse Alex.

Lasciammo la sua abitazione e ci incamminammo lentamente lungo la strada. La signora Latyk si fermò davanti alla prima casa e la indicò. Era la stessa che avevamo visitato il primo giorno, quella con la botola e il nascondiglio.

Lo sapevo, pensai tra me. C’ero stato, ero già entrato in quel gelido tugurio.

«La casa è questa» annunciò Alex. «Se vuoi ti mostrerà il luogo in cui vennero uccisi. Un vicino assistette alla scena, lo sapevano tutti».

«Sì».

 

Il giardino, cui si accedeva da un cancelletto, era situato sul retro dell’abitazione della donna russa. Appena ci vide, accorse tutta trafelata, e ascoltò le spiegazioni di Alex. Con un sorriso aprì la recinzione. Mi avvicinai allo steccato e mi girai a osservare il giardino. Molto esteso, vi erano coltivati diversi tipi di ortaggi e di viti, sino al limitare della proprietà. La signora Latyk, accanto a me, mi indicò il punto. Alla fine del giardino si innalzava un vecchio melo dal tronco biforcuto. Disse qualcosa ad Alex, che tradusse: «Quello è il posto».

Mi avvicinai adagio all’albero. Gli ortaggi, le viti e i cespugli di lamponi erano così fitti che non era facile districarsi. Mi ci volle qualche minuto per raggiungerlo. Aveva la corteccia spessa, il punto in cui il tronco si divideva era all’incirca all’altezza della mia spalla. Di tanto in tanto sulle foglie cadevano minuscole goccioli-ne di pioggia, poco più di umidità condensata. Ma non ero bagnato.

Finalmente l’avevo trovato.

Rimasi per un po’ immerso nelle mie riflessioni. Una cosa è trovarsi in un luogo da lungo tempo anelato, per esempio un palazzo, un tempio, un monumento visti solo in fotografia, e che inevitabilmente susciterà in noi una serie di emozioni: soggezione, rapimento estatico, terrore, dolore; altro è essere in un posto la cui esistenza è avvolta nel dubbio, laddove ebbero luogo gli eventi, una radura, una casa, una camera a gas, il muro di una strada. Si ha la chiara consapevolezza che ciò che conta non è il luogo in sé, bensì le raccapriccianti vicende che vi accaddero. Ora, all’improvviso, ero approdato alla meta a lungo agognata. Ero giunto alla sua reale presenza, non di fronte alla mera idea.

Nell’ansia di scoprire particolari specifici, ulteriori dettagli, spingevo le persone cui davo la caccia per tutto il mondo a scavare nella memoria, a raccontarmi episodi concreti in grado di far rivivere il passato. Ma adesso mi rendevo conto che era proprio quello il problema. Avevo cercato di ricostruire la storia nei suoi aspetti più minuti e ancora non avevo compreso davvero – e come avrei potuto, non avendoli mai conosciuti,se non attraverso i racconti? – cosa significasse un dettaglio, un particolare specifico. L’aggettivo specifico deriva dal latino species, che significa appunto «specie»,«aspetto», «apparenza» o «forma»; poiché ogni cosa ha un suo aspetto, una sua forma, usiamo la parola specie per descrivere esseri viventi, animali e piante che costituiscono la Creazione; proprio perché ognuno di essi ha un suo aspetto, una sua forma, nei secoli il termine species ha dato luogo al vocabolo specifico, che tra le sue accezioni annovera quella di «peculiare di un dato individuo». Quando giunsi nel luogo più specifico di tutti,quello in cui, ancor più del nascondiglio, Shmiel e Frydka provarono sensazioni e sperimentarono emozioni che io non potrò mai veramente condividere, proprio perché furono loro, e non io, a vivere quella specifica esperienza, il posto dove erano morti, dove le esistenze il cui corso non avrei mai conosciuto avevano abbandonato corpi che non avrei mai visto, a causa di questa irrimediabile perdita compresi pienamente chela loro individualità si era estinta con una morte di cui sarebbero rimasti gli unici, muti testimoni, per quanto avvincente fosse la ricostruzione che ne avrei dato. Nonostante l’inanità di ogni tentativo di risalire alla verità, sappiamo che un tempo furono individui dotati di una loro peculiarità, protagonisti della loro vita e della loro morte, e non semplici burattini da manipolare per poterne ricavare una bella storia, degno argomento di libri di memorie, romanzi intrisi di realismo magico o soggetti cinematografici. Ci sarà tempo per questo, allorché io e quanti hanno incontrato chi li conosceva saremo morti; poiché è certo: tutto alla fine scompare.

Così, in un certo modo, appena mi trovai nel luogo preciso in cui si era compiuto il loro destino capii che dovevo lasciarli andare, e comunque rinunciare a interpretarne l’esistenza come io pensavo che fosse. Fu una sensazione dolce e al tempo stesso amara; e in realtà quando descrissi in seguito questa mia esperienza a Jack Greene, al quale in un certo senso dovevo tutto,egli mi disse, rievocando le emozioni di tanti anni prima, quando era riemerso dal proprio nascondiglio: «Sì,so cosa si prova, è come aver realizzato un’impresa, ma non è una sensazione piacevole». Avevo intrapreso tutti quei viaggi in giro per il mondo, studiato la Torah e, finalmente, al termine della mia ricerca ero giunto al luogo dove tutto aveva avuto inizio: quel giardino con l’albero della conoscenza che, come avevo appreso tanti anni prima, ha una natura ambivalente, e poiché la crescita richiede tempo, reca sia piacere che dolore.

Forse spinto dalla mia ricerca di fatti concreti, di particolari specifici, per un istinto di cui ancora oggi non so darmi spiegazione mi chinai alla base del tronco, affondai la mano nella terra e me ne riempii le tasche. A quel punto – poiché tale è la tradizione della strana tribù alla quale, sebbene molte di quelle usanze non abbiano senso per me, so di appartenere, in quanto discendente di mio nonno – cercai una pietra, e una volta trovata la deposi dove i tronchi dell’albero si biforcavano. Era quella la loro tomba, e per questo vi lasciai un sasso. Poi mi voltai, lasciandomi il giardino alle spalle; salutammo la signora, salimmo in macchina e partimmo.

Mentre ci allontanavamo, commisi l’ultimo dei miei tanti errori. Mi ero ripromesso, quando avremmo lasciato Bolekhiv, di compiere un gesto che avrei voluto fare in precedenza, durante il viaggio in quella città,perché ero consapevole che non sarei più tornato in quell’operoso shtetl, un luogo felice scomparso per sempre: mi ero ripromesso, una volta imboccata la collinetta sulla strada che porta a L’viv, di voltarmi a guardare,come mio nonno in un giorno di ottobre di ottant’anni prima, e come sempre ci capita quando ci lasciamo qualcosa alle spalle, nel desiderio irrealizzabile di non perderlo, di custodire in noi il segno di quel che è finito, nel presente e nel futuro. Mi ero ripromesso di voltarmi e guardare dal finestrino posteriore la piccola cittadina che si allontanava, perché volevo ricordare non solo come mi era apparsa quando vi giunsi, ma anche com’era mentre l’abbandonavo per sempre.

Alex, al volante della Passat blu, era intento a fare manovra per uscire dal dedalo di viuzze che in un’altra epoca aveva ispirato agli abitanti di quel posto, pochissimi ormai ancora in vita, saranno tutti scomparsi quando avrò l’età di Jack Greene, un nomignolo che nessuno conosce o ripete più, le lumache di Bolechow! – mentre si districava in quelle viuzze tortuose, cominciammo a parlare tutti insieme, a commentare le nostre straordinarie scoperte, a ricordare i percorsi compiuti, e quando mi sovvenni del mio proposito di voltarmi a darle un ultimo sguardo, eravamo ormai troppo lontani e Bolechow era scomparsa per sempre.