I tre amici

Verso la fine del Settecento, o Secolo dei Lumi, tre giovani Signori, il principe Neville, lo scultore Dupré e il facoltoso commerciante Nodier, tutti di Liegi, dov’erano conosciutissimi e apprezzati, chi per ingegno, chi per eleganza, e tutti per lo stile di vita mondano e altamente dispendioso che conducevano, decisero di fare un viaggio a Napoli, per una ragione che dopotutto non era riprovevole. Alphonse Nodier intendeva rifornire di guanti acquistati all’estero i suoi splendidi negozi di abbigliamento, e nessuna città ne produceva allora, e ne andava famosa, come Napoli; e a Napoli nessun produttore di questo genere di accessori si trovava all’altezza di don Mariano Civile, Monsieur Civile, come affettuosamente lo designava Nodier; egli era considerato da mezzo mondo il re dei guantai. Il suo defunto padre, legato – si diceva – alla Corte, aveva rifornito un tempo Londra e Parigi; questo raccontava, con una punta di compiacimento forse superfluo, Alphonse Nodier. In realtà don Mariano, che Nodier aveva conosciuto fuggevolmente alcuni anni addietro, durante un viaggio a Roma, lo interessava soprattutto come uomo, un po’ per il suo straordinario carattere, taciturno e serio, per la sua dedizione al lavoro e, con questo, gli splendidi risultati; ma soprattutto perché aveva sposato, a suo tempo, una lavorante del padre, Brigitta Helm, di oscura nascita ma di famosa bellezza, che gli aveva dato dodici figli, molti dei quali erano già per il mondo a produrre guanti o commerciare in pellami; tutti – si diceva – di grandiosa statura, di capelli biondi e occhi cerulei, di freddo e taciturno carattere. A casa, nel divino quartiere di Santa Lucia, riteneva Nodier non fossero rimaste che due o tre figlie, ugualmente alte, impettite, belle e insopportabilmente mute.

Sì, era questo mutismo delle ragazze, come già della loro madre, a quanto aveva appreso da qualche accenno di don Mariano, uomo anch’egli che non scherzava in fatto di silenzi, era questo mutismo, o incapacità di esprimere, sia pure alla buona, i propri sentimenti di fanciulle, ammesso che ne avessero, la cosa che incantava – è la parola giusta – più che interessare il distratto Nodier quando pensava a quelle altezzose e attraenti sorelle. Per un parlatore, egli era un parlatore nato, era cosa che non si poteva accettare.

In quanto a Neville e Dupré, essi ascoltavano semplicemente divertiti – e il Neville molto sprezzante – queste storie di ordinarie virtù familiari, allora molto di moda; ma per ben altre ragioni consentirono a questo progetto di un viaggio a Napoli. Il Neville, perché poeta a suo modo, ma poco noto, sperava, girovagando per quelle mitiche regioni già visitate ed esaltate da insigni viaggiatori, di rinfrescare quella vena che gli anni (il principe andava per i trenta, traguardo, allora, di triste maturità) e gli abusi consentiti, se non giustificati, dal censo e dalla gioventù, avevano infiacchito e reso querula. Egli, inoltre, era incuriosito dalla fama di sfrenatezza e di lusso di cui godeva Napoli, rielevata a capitale di un regno, e anche dal suo cupo e sanguinoso passato; come da quelle storie non chiare, remote e dolci, di Sibille, di Sirene, di creature femminili in rapporto con gli Inferi... Almeno così fantasticava il decadente Neville, uomo non buono, dopotutto, già vecchio benché ancora dotato di una straordinaria avvenenza; i fulvi capelli, gli occhi verde scuro, vagamente infossati, la bianchezza della pelle, una fronte magnifica e l’alta ed elegante statura ereditata, si diceva, da sua madre, una Leopoldine di Brabante, insieme all’altero e derisorio linguaggio, non erano ancora caduti in dimenticanza. Forse abbiamo sbagliato a definirlo uomo non buono; Neville poteva essere, semplicemente, vendicativo. Per il resto, aveva sentimenti simili a quelli di molti uomini: il sogno sempre deluso di una donna che facesse riposare il suo genio – non osiamo dire gusto – e il bisogno di viaggiare, per dimenticare, o stordire, una nullità di cui, a onor del vero, non era ancora molto consapevole.

Per Albert Dupré (Albert era il nome dell’artista, nulla in comune con lo scultore francese, l’ingegno del nostro giovane essendo limitato, tanto che il suo nome mai superò né il secolo né i confini della sua terra), questo viaggio era invece unicamente questione di allegria, di vita... Egli era bello, e la cosa, al nostro orecchio, come siamo avvezzi a pensare la bellezza, può non voler dire nulla. Ma una qualità rara e indefinibile della sua mente, l’ardore, l’ampliava rendendo quel giovane volto simile a un sole talvolta, a una notte lunare talaltra; mentre quasi eternamente emanava da lui la luce e la dolcezza stordente di una marina ionica nel mese di maggio. Era anche come un bosco in aprile, quando si sciolgono le nevi e i rami delle betulle dondolano simili a sottili braccia d’oro, braccia di bambine. A bella posta abbiamo usato queste espressioni retoriche; senza la retorica, nulla di serio e di vero può essere detto, mancando quel falso ch’è misura o supporto del vero. Almeno è questa la nostra convinzione. In breve, Albert, con i suoi grandi occhi azzurri e gli ondulati e lunghi capelli color del sole, la giusta statura, la fronte pura e levigata come il marmo, tutto il bellissimo viso chiaro e quel piccolo sorriso amaro che gli si formava a volte sulle labbra color rosa, e pareva chiedesse: «a che... a che scopo, questo?», era la stella del carro apollineo formato da quei tre giovani viaggiatori, era il vero Bellerofonte del gruppo; e quando il carro partì, sollevato dall’entusiastico Pegaso – o Romanticismo europeo – per attraversare come in volo, dopo la Francia non più pullulante di Giacobini, le Alpi azzurre, e planare lietamente lungo la celeste Italia; e quando, superando infine, quasi in un balzo, l’incendio rosa della prima aurora mediterranea, toccò il bel suolo di Napoli, supponiamo che molte Ondine (stando almeno alle memorie classiche di Neville), e creature varie della primavera dell’aria, uscissero da dietro gli scogli, scostassero le porte verdi delle casupole affacciate sul mare trasparente nei cui pressi sorgeva la casa di don Mariano Civile, e spiassero ridenti quell’arrivo... Abitava notoriamente lì, don Mariano; e nel colorato e innocente Borgo dei Pescatori, tutto reti e barchette da pesca, era situato, come una stranezza o un sogno, il fastoso palazzo a colonne doriche, dov’erano cresciute la sua gioventù, la sua fama, i suoi figli, la prosperità e ricchezza inaudite di cui a Napoli, e oltre, si favoleggiava... Tutto rigorosamente accertato? Vedremo presto quanto di delicato, o aggiuntivo, vi fosse nella leggenda. Da parte nostra, una volta reso omaggio alla ricca e sognante gioventù d’Europa, e alle dovute piacevolezze su Napoli, lasceremo da parte e retorica e letteratura insieme. A Napoli, come in tutto il mondo dove regnano incontrastate autorità di prìncipi e belle donne, e il denaro scende a rivoli dai palazzi e si perde in mezzo al letame delle strade (vero letame, almeno allora, in quanto era tempo non di carrozze elettriche, ma di impetuose vetture a cavalli, o rozzi carri trainati anche da poveri animali, tempo di greggi che attraversavano in fretta, belando, le vie eleganti); a Napoli, retorica e letteratura da strapazzo sono già tutte depositate nel costume, rifulgono nei modi civettuoli e vani delle dame, e scintillano nelle sale da ricevimento, nelle chiese sfarzose, tra le navate del Duomo addobbate di porpora e d’oro per una Novena cupa e grandiosa. Sono, retorica e letteratura da strapazzo, porte dorate e cesellate, opera dei gioiellieri del sogno. Ma, una volta aperte, solo la scura e fredda vita geme, come un’acqua, al piede degli scalini. E vedrai anche tu, curioso Lettore, seguendo questa storia, come là dietro non c’è nulla. Udrai solo, là in fondo, un povero glu-glu.