La figlia del Guantaio

I tre viaggiatori, splendenti di un’allegria, un’eccitazione, un orgoglio giustificati dall’età, l’occasione e i mezzi a disposizione di tutti (anche se l’artista ne era quasi privo, ma ciò non lo toccava, protetto com’era dalla propria storditaggine, come dalla suprema quanto segreta munificenza del principe, che era anche suo tutore, e per lui travedeva), diedero ordine di fermare le carrozze, quelle padronali e del seguito, davanti al Cappello d’Oro, forse la prima locanda della città, di cui Nodier, per lettere scambiate con i suoi rappresentanti, poteva garantire ordine, pulizia e assenza di mariuoli. Ciò fu fatto. Saltando giù da una profonda vettura azzurra, essi non poterono quasi reprimere un grido di ammirazione per l’insieme armonioso della scena che avevano davanti. Un’ariosa e tranquilla piazza, delimitata a sinistra dalla linea cilestrina del mare e dai quattro torrioni di un possente castello color tortora. Su quel mare il sole, illanguidito da qualche amorosa memoria, posava i suoi ultimi raggi. A destra, un colle molto basso, per così dire domestico, tanto vicino da poterlo toccare con mano, era coperto di un pallido verde e guarnito anch’esso, in cima, da un castello. Un altro castello, più vecchio e rugoso, sorgeva di faccia. E, sul colle, pini alti e snelli, di un verde smagliante (che oggi il Progresso ha incanutiti!) lasciavano spazio a un cielo di un raro azzurro... ma le nuvole erano tutte rosa. E qui ci fermiamo. Rievocare i paesaggi del passato non si può, diremmo che Dio non vuole; vi è in essi alcunché dell’Eden consentito all’uomo una volta sola... egli non può rientrarvi. In breve, erano le sette di una sera di maggio, c’erano rose nell’aria, e odore di rose, gonfie rose di giardino, in terra. Le fioriste, e molto placide e belle, non mancavano.

Gli amici ebbero subito la certezza di essere giunti in un luogo d’incanti, e non avrebbero quasi voluto fermarsi alla Locanda, non fosse stato che dovevano cambiarsi d’abito, per recarsi subito al rione del Pallonetto, da Monsieur Civile, che li attendeva una di quelle sere, se non proprio quella, dalle otto alle dieci nella sua celebre casa presso la marina, chiamata perciò, dal nome del rione, Casa del Pallonetto. In breve furono pronti, e una vettura infiorata della Locanda li portò al luogo designato.

Il padrone di casa, senza compagnia di domestici (a quell’ora certamente ancora svegli, ma il Guantaio era un uomo semplice), li attendeva, solo, in cima a una bella scala di marmo, da cui si accedeva a un atrio vasto e deserto. Tutto intorno, specchi in cornici dorate, mensole dorate, orologi francesi, lampadari, porcellane di Sèvres e cristalli di Boemia; e ancora specchi, tendaggi con nappine di seta, e alti candelieri di fiamma. Non un quadro, tuttavia, né un tappeto né un libro; e ciò procurava una sensazione di freddo. Grave, ma benevolmente sorridente, don Mariano abbracciò Nodier, di cui ricordava con affetto i tratti rosati (Nodier era grasso e festoso) e s’inchinò agli altri due. Li precedé poi in un salotto (finalmente un domestico in livrea era apparso, e apriva con garbo le porte bianche, decorate con scene pastorali) e, dopo le domande di rito sulla salute e le scomodità del viaggio, comunicò a Nodier che sua moglie, da tempo molto ammalata, si trovava in campagna, e con lui vivevano unicamente le sue figlie minori, Teresa, di undici anni, e la «cara Elmina» di sedici, tutti gli altri dieci, giovanotti e demoiselles, da tempo fuori del nido, a trattare e commerciare col mondo. Purtroppo, le temps passe, sussurrò poi, quasi a se stesso, abbassando il mento sul petto, con una tristezza che a Nodier comunicò un piccolo brivido (gli altri erano troppo eccitati per notarla), e lo indusse a guardarsi intorno con rinnovata ammirazione per quella casa che era, così priva di gioventù, il contrario di come sempre l’aveva immaginata, e faceva quasi l’effetto di essere disabitata. In quel medesimo istante, il suono di una spinetta al piano superiore, e un fresco e malinconico motivetto francese, allora in voga, si fece sentire, accompagnato da una voce dolce e lieta di ragazzo. «Elmina» disse compiaciuto don Mariano. Aggiunse che non sapeva se le figlie sarebbero scese a incontrare gli ospiti, per loro era già molto tardi. Tuttavia, di lì a poco, in un silenzio che era seguito a quella musica lontana, e che pareva sprofondare la casa in una calma di sogno, esse entrarono. E l’attenzione dei visitatori fu tutta per loro.

Nel dire «attenzione» tentiamo di designare qualcosa di meno e di più di una improvvisa ripresa d’interesse, perché in quella repentina, fulminea «attenzione», soprattutto di Dupré e Neville, e soprattutto per Elmina, vi era invece qualcosa di cui i signori non si rendevano conto, simile a uno stordimento dell’anima; ma ecco, essi trattenevano il respiro.

La bellezza di Elmina era grande, e quella di Teresa, benché ancora bimba, non meno; avevano, malgrado la differenza di età, quasi la medesima statura, e non potremmo dire se fosse stata Elmina a limitare, per cortesia, la propria crescita, o Teresa, per ansia di vita, ad affrettarla. Forme piene, per quanto delicate, braccia stupende, nivee dal gomito a cuore alle sottili dita rosee; gli abiti ugualmente rosa, con pettorine di seta rosa adorne di trine color avorio; colli di merletto, avorio o verdino, ricevevano quei due bei volti di fiore, dalle fini sopracciglia d’oro e le pupille anche d’oro (ma in Elmina, a momenti, verdi), come coppe ancora umide di rugiada accolgono a volte una rosa. I capelli biondi erano in ciascuna delle sorelle corti e fittamente ricciuti, ma fermati sulla nuca, per Elmina, da un nodo di raso marrone e un pettine d’ambra; in Teresa, da nastrini. Le fronti appena sudate (la sera era calda), e ingenuo il sorriso in Teresa; in Elmina, grave e riservato. Forse perché maggiore di anni, in Elmina, che portava sul petto una croce d’oro, sormontata da una barretta nera, vi era qualche cosa di più. Una freddezza, non altro parve a Neville, che si poteva vincere; una distanza, un abisso, parve a Dupré, che non si sarebbe mai potuto superare.

Mentre egli la contemplava, come a volte gli uomini usano contemplare una donna, con un che di umile e disperato che sfugge alla loro stessa percezione, essa andò a sedersi accanto al padre e, benché sorridesse teneramente, era superficiale, e Dupré si trovò a pensare che i pensieri di lei, sotto quella breve e armoniosa fronte, erano lontani da lei, da quella stanza, dal padre. Ne era sicuro. Ella non amava alcuno, o non come s’intende amare. Ella non amava neppure se stessa, benché tanto adorna e abbigliata festosamente. Sembrava esservi un segreto, in lei. Quale fosse, era il pensiero che rendeva grave, nel guardarla, l’artista.

Ma non dimentichiamo le convenienze, e che siamo in un ricco salotto di Napoli, davanti a forestieri. Furono serviti, dal medesimo domestico, questa volta più sorridente, squisiti rinfreschi, furono scambiati complimenti, notizie, informazioni artistiche, commerciali, mondane, sebbene queste ultime appena accennate, per semplice educazione; si parlò di paesi, di viaggi, di teatri, di alti personaggi o di curiosi e modesti; don Mariano nominò due volte, tra i suoi numerosi conoscenti di Napoli, un certo «Pennarulo», che doveva essere appunto tra questi ultimi, e che però giudicò «uomo buono»; si parlò quindi di prìncipi e di politica ed Elmina, frattanto, si serbava sempre sorridente e muta (parola che tornò in modo ossessivo alla memoria di Dupré, come la fondamentale informazione del suo amico mercante), muta di dentro, come non fosse una giovane donna tanto avvenente e dolce, ma una pietra. E da questa immagine perfino banale, che ricorre tanto spesso nei romanzi a proposito di donne dal comportamento riservato, fu tutt’uno per quell’uomo, esperto di statue e rovine, richiamarsi con la mente ai sacri luoghi dell’Antichità, a quei prodigi di tristezza intravisti nei racconti di viaggiatori che tornavano dall’Egitto o la Grecia o l’Asia Minore: le buie rampe di pietra tese verso un cielo senza nubi, o quelle tavole di pietra spaventosamente alte, simili a larghi coltelli di giganti immersi nel cielo di cobalto, quasi a fenderlo, e insieme radicate nelle profondità della terra, anzi nell’oro del deserto, come a cercarvi scampo o rovina. Nel fondo di quei monumenti, in mortali, per silenzio e segreto, spirali di tenebre, avanzano cunicoli e cripte poco illuminati, sfilano e si alzano mummie dorate di Regine, di Sacerdoti, di Re, e sono custoditi alti e struggenti misteri. E pensò ancora – perché egli, per tutti, era adesso lo stesso Pegaso, adesso Bellerofonte l’ardito – pensò che lei, Elmina, era il Mostro triforme da vincere (capra, leone, aquila): era la Chimera meravigliosa.

Mentre queste cose, ardenti e tristi, tra una cioccolata servita in fiorite tazze olandesi e un confetto dorato proveniente dalle vetrine di una famosa pasticceria, pensava il bel Dupré – la cui giubba di raso azzurro con passamanerie d’argento, stendendosi come un pennello della notte sulla persona poco più che ventenne, attraeva perfino gli occhi non lieti di don Mariano, e non poteva certo restare indifferente alle due giovanette –, la minore delle sorelle, ancora una bimba come si è detto, scoppiò a ridere senza apparente motivo e, interrogata affettuosamente dal padre sulla ragione della sua allegria, non rispose che portandosi sulla bocca, a farla tacere, una piccola mano. Non era muta davvero, lei. La causa, poco dopo, del riso, si rivelò in uno di quei pensieri spregiudicati, irriverenti e infantili che attraversano a volte la testa delle ragazze, e le fanno scoppiare a ridere così maleducatamente da procurare spesso qualche imbarazzo tra gli astanti. Non fu questo il caso, trattandosi di astanti molto cortesi e benevoli.

Il signor Dupré, anzi «Monsieur Albert» ella disse alla fine con ingenuità incantevole per la sua audacia, rivolta al padre, era «come lu cardillo», la faceva pensare in tutto «al loro vecchio cardillo».

«Che vuol dire, cardillo?» chiese con emozione quel sognatore.

Allora intervenne Elmina, con grazia severa, e posando la mano sul capo disarmato (intendiamo dire sventato, leggero) della fanciulla disse il nome francese dell’uccello. E aggiunse (e chi avrebbe potuto non crederle?) che il cardillo di casa, quel giorno, era morto. Si erano dimenticate, lei e Teresa, di cambiargli l’acqua e rifornirlo di miglio, se ne erano dimenticate per due giorni, ed ecco: era morto. Lo avevano trovato al mattino, pancia all’aria, presso l’usciolo. Subito lo avevano offerto al gatto del giardiniere, che però (per solidarietà, dissero) non lo aveva voluto.

Questo particolare fece orrore ad Albert; egli, per qualche minuto, non parlò più, mentre gli amici, Nodier specialmente, sembravano non aver ascoltato nulla, e ridevano di non sappiamo quale maldicenza su un generale prussiano riportata dal signor Neville.

A Elmina non era sfuggito, sebbene sembrasse non importarle, il soprassalto del viaggiatore più giovane davanti alla tristezza e alla crudeltà dell’episodio. Ella, passandogli un dipinto piatto di porcellana colmo di nuove goloserie, da cui Teresa non si peritò di acciuffare a volo qualcosa, trovò modo di sussurrargli, riferendosi a ciò che Teresa aveva detto del cardillo, che Monsieur Albert gli somigliava e, come sicura che egli si fosse turbato solo per l’accostamento tra lui e l’uccello:

«Pazzea sempre. Un rien l’amuse. Abbiate la bontà, Monsieur Dupré, di scusarla. Vi assicuro che non intendeva mancarvi di riguardo, paragonandovi al cardillo. È una buona bambina».

Albert, per nulla pensando a sé, ma solo, con vero strazio, all’uccello, avrebbe voluto piangere. Nello stesso tempo si sentì stranamente consolato dalla voce di lei, di cui gli sfuggiva ciò che Neville, che aveva tutto ascoltato, riteneva divertimento e consenso a un atto di pura malvagità.

La guardò dunque con gratitudine, Albert; ma Elmina, a quello sguardo, sebbene cortesissima, non divenne meno fredda, e neppure sorrise.

Per l’indomani, così finì la serata, furono invitati tutti a pranzo da don Mariano. Il pranzo era alle diciassette, secondo l’uso napoletano di allora. Per carità, non mancassero. Si raccomandò inoltre che fossero puntuali, anche perché (sorridendo) «a questo mondo nulla lo è».