La sua scelta cadde fortunatamente (così si rallegrò più tardi) su un Duca al quale non aveva pensato, che non risiedeva a Napoli, bensì a Caserta, luogo nativo della defunta donna Helm, e precisamente su Benjamin von Ruskaja, un polacco, che era stato, fra l’altro, amico assai caro della principessa Leopoldine, madre del nostro eroe. Non godeva, è vero, fama di persona estremamente corretta nel fantasticare e indi giudicare le situazioni del bel mondo (e trarre lecite deduzioni sui comportamenti altrui); ma al sempre cupo e annoiato Ingmar, come del resto alla sua degna maman, quando era in vita, queste aggiunte alla realtà non dispiacevano molto. A lui avrebbe chiesto notizie, poi filtrate da riflessioni e ragguagli vari, sulla entità, che era cosa grandemente importante, dei beni patrimoniali di don Mariano. Ciò gli sarebbe servito come una ragione fra le altre, che erano più insondabili, del suo intervento in una questione di cuore, anzi, nella questione di un matrimonio che avrebbe dovuto riguardare esclusivamente l’amico diletto e invece, come suo tutore – e soprattutto a causa di un cuore appassionato –, investiva anche lui. Non era certo la sostanza patrimoniale del Guantaio, se diveniva suocero dell’artista, la prima di tali ragioni, questo Ingmar ben sapeva sperimentando tanta avversione per Elmina: ma era, tale questione, in quei tempi di vita intesa come infinito piacere mondano, e quindi denaro, una ben valida ragione di ostilità o, al contrario, benevolenza, per tutte le situazioni che si prospettavano come definitive (e tale era un matrimonio) nella cerchia degli amici più cari.
Dileguato così ogni scrupolo per il proprio operato, e ancor prima ogni pensiero di solidarietà nel dolore, che non provava, per gli amici lontani, partì l’indomani mattina all’aurora, il simpatico principe, molto allegro per le liete ore che lo aspettavano e, al termine di una spavalda cavalcata, eccolo entrare nella famosa città di Carlo III, ornata da una delle più belle Regge del mondo.
Per prima cosa decise di recarsi ad ammirare da vicino quella meraviglia.
Il maggio splendeva quel giorno a Caserta in tutto il suo fulgore. Il principe non ricordava di aver visto in Europa, negli ultimi dieci anni della sua gaia vita, un cielo come quello: immensa cupola di un azzurro purissimo e lucente in ogni punto della sua volta, così da richiamare – immagine abusata, ma al momento non troviamo altro – la superficie di un bicchiere appena lavato, appoggiato su una fresca foglia. Sembrava che l’intero mondo tutto colmo di primavera si riflettesse, capovolto, in quel cielo, come usa nei miraggi desertici. Dovunque, insomma, gli pareva che fossero palazzi, fontane e giardini: se guardava in basso, se guardava in alto. Faceva molto caldo.
La vista del Palazzo Reale della città, al quale si era subito avvicinato, portò al culmine la sua emozione di trovarsi in un mondo come quello in cui siamo immersi anche noi, così meraviglioso. L’ammirazione lo sollevava, per così dire, dal suolo.
Si trovò presto a passeggiare, aveva tempo per la sua visita, davanti ai Giardini di quella famosa Reggia: mirabile complesso, da poco compiuto, sorto dalla immaginazione e la colta libertà del sublime Vanvitelli; opera, gli parve, quasi prodigiosa, serena, la cui vista lo commosse con l’immagine di ciò che potevano essere la vita e la ragione umana, se veramente coltivate, educate. Così non era. Più ancora lo entusiasmò lo scenario dei Giardini e lo esaltò quello delle fontane, e ammirò incondizionatamente l’artista inglese che aveva ideato quel mirabile complesso. Addirittura, quella meraviglia di acque che sembravano – a incantarsi un poco – tante fanciulle convenute a una festa, gli fece sentire non so che mistero della vita, mistero che era (gli parve) proprio nella freschezza, fluidità, scorrere e precipitare, sparire e risorgere continuo delle sue infinite forme. In quegli istanti, veramente rapito, aveva dimenticato le sue pratiche, o almeno propensioni e passioni magiche, la curiosità o volontà di malsano dominio delle vite e gli eventi, che lo possedeva. S’inchinò a Dio! Purtroppo, fu un attimo solo! Nel secondo, era tornato di nuovo il sottile, allegro e poco benevolo indagatore e giocatore dei segreti e destini altrui.
Come un gabbiano sorge da uno scoglio, dove dormiva, per lanciarsi su un pesce guizzante alla superficie di una estesa superficie marina, così l’animo suo, uscito dalla breve contemplazione, si gettò con un grido silenzioso sui recenti pensieri di difese patrimoniali, portando nel becco il più importante di tutti: l’indagine su Elmina. Un attimo dopo, la sua elegante e raggiante, per quanto un po’ cupa, figura, seguiva in volo quella immagine; nel senso che Ingmar si trovò a cavalcare, rapido e intenso, appunto come un pensiero, verso la casa di Benjamin, che era situata nella parte vecchia della città.
Attraversò un giardino, fiancheggiò un colonnato bianco, tutto fasciato di rose, vide delle fontane, sentì molti uccelli cantare e volare in mezzo a un roseto, gli giunse l’acuto e snervante odore dei magnifici fiori color della porpora e, in mezzo a questa sorta di lussuria della natura (un dolcissimo vento caldo errava su tutto), intravide la lieta figura del nobiluomo polacco, che intendeva visitare.
Benjamin, che forse avvisato da un servo lo attendeva in piedi presso una pergola di canna, tutta intrecciata di campanule celesti, vera gabbietta, gli si presentò come una fantastica nuvola bianca che fosse scesa ad accoglierlo spiritosamente in quel giardino di fate.
Ultranovantenne, ma roseo e diritto come un giovane, bianco nella chioma di nevi polari, e azzurro di occhi acutissimi e maliziosi, lo guardava come se lo avesse seguito non dal cancello, ma per tutta la strada, fin dal suo passaggio davanti al Palazzo Reale (se non pure, azzardiamo, alcune ore prima della sua uscita da Napoli).
La conversazione si svolse in tedesco e in francese, ma non furono trascurate dall’ospite, ed era piacevole, alcune caratteristiche espressioni napoletane, comprese perfettamente, come per divinazione, dal divertito visitatore forestiero.
«Mio caro pazzariello,» esordì così, in napoletano, il duca Ruskaja, passando poi subito al tedesco nativo, che ci premureremo di tradurre alla bell’e meglio «non ti meravigliare, ma ti avevo già visto ieri – povero me, non ricordo bene l’ora, forse alle dieci, quando non sapevo ancora che eri a Napoli – mentre ti avviavi impensierito alla casa della signorina Elmina... Dimmi, non è vero? Mi sono forse ingannato?».
«No, non vi siete ingannato» dopo un momento di confusione (la bravura, la capacità tecnica, per così dire, di quel vegliardo, lo sbalordivano, suo malgrado, svegliando in lui sottile gelosia di emulo, ma anche turbamento, come di trovarsi lui, che intendeva esercitare domini, in dominio del buon vecchio). «Non vi siete ingannato davvero... È stato proprio ieri ma non ero impensierito... questa sarebbe stata una sciocchezza».
Il vecchio qui si mise a ridere, non sappiamo se per velare una menzogna del suo giovane amico, o per ristabilire la modestia dei propri meriti.
«Infatti... Una semplice lettura della mente, o delle passioni di un giovanotto, tutto ciò, e nient’altro, mi fu consentito di comprendere, e solo perché era scritto, chiaramente, sulla tua fronte, mentre ti recavi al Pallonetto. Ma poi, come potevo sapere, figlio mio, che ti fossi premurato di correre al Palazzo per rimediare a una imprudenza del tuo pupillo e amico? Questo, l’ho saputo dalla tua emozione, in questo momento».
Se in ciò vi fosse coerenza o meno (e anche sincerità o menzogna) non vogliamo indagare, per ora, per non interferire. Fatto sta che, dopo cinque minuti, seduti nel roseto, davanti al berceau, e serviti di caffè e gelati da un inappuntabile cameriere in polpe gialle, i due si gettarono in una conversazione allegrissima. È che avevano, malgrado tutto, la stessa età: il vegliardo, di cuore e frivolezze era giovane; il giovane, per curiosità e ambizione di potere sulle cose umane, era vecchio. Alla pari, dunque! E gli uccelli, sulle loro teste di apprendisti stregoni, lietamente svolavano!
Premesso che l’interesse del figlio di Leopoldine era unicamente la salvaguardia degli interessi dello scultore Dupré, suo pupillo, come Ruskaja ben sapeva, e non il malanimo per la signorina Elmina, che non gli aveva fatto alcun male (il che era vero, ma mentre ciò asseriva il principe, gli occhi del suo ospite divennero di un blu veramente cupo, come egli non credesse a tali dichiarazioni); stabilito ciò, Ingmar ammise di essere interessato alla conoscenza del carattere della signorina, come anche della sostanza patrimoniale della famiglia Civile, ora che la signora Helm, come il Duca certo sapeva (il Duca smentì invece di esserne già informato), aveva lasciato questo mondo, e don Mariano si trovava quindi a disporre dell’intero patrimonio in favore dei suoi figli e figlie. Vi era un testamento? A che cosa ammontava il tutto? La sostanza veniva divisa, e quale la parte riservata a Elmina? «A tutto questo momento,» precisò Ingmar abbassando gli occhi «e prima ancora di mettere il lutto, la signorina ha già ricevuto, o almeno può disporre, di ben due domande di matrimonio. Da parte di Dupré (e questa richiesta si trova in mano mia), e di un’altra, che ella ancora non conosce, da parte mia, se ella, lasciando libero Dupré, esigerà una riparazione. Intendo infatti rischiare di sacrificarmi io, pur di salvare Dupré. Troppo mi è caro».
Quel mago, su ciò, non ebbe alcun dubbio, e neppure sul resto. Neville gli aveva detto la schietta verità in ogni particolare e per ragioni psichiche, legate proprio alle sue capacità medianiche, egli era in grado di controllarlo immediatamente. Solo gli aveva mentito, o almeno taciuto, sulle ragioni della sua istintiva avversione per Elmina. E in ciò Benjamin, che era molto religioso, trattandosi di cose dell’anima non voleva entrare; perciò, pur sospettando qualche motivo interessante – o assai poco patrimoniale –, non varcò la soglia della discrezione amicale. Ma poteva immaginare, senza troppo rimproverarsi, che la grande religiosità di maman influisse adesso, dopo ventiquattro anni che ella era scomparsa, sul giudizio silenzioso (un’antipatia è un giudizio a priori, dicono) del giovane Ingmar per la rustica Elmina. Ma voleva andarci piano, per non cadere in peccato di maldicenza.
«Mi consta,» egli così disse, dopo essersi servito di un altro cucchiaio di gelato, di cui era golosissimo «mi consta che le sostanze di don Mariano – parleremo prima di ciò – in case e terre per parte propria, e in fabbriche e negozi anche a Roma, soprattutto per parte della defunta Brigitta, siano consistenti. Ma forse grandiose, o anche incommensurabili, sono parole più appropriate. Egli si è fatto ricco, già tanti anni fa, di famiglia non lo era, con questo strano matrimonio con una ex lavorante di suo padre, quanto un principe “vero” (non, voglio dire, figlio mio, come uno dei tanti pazzarielli titolati, che vedrai a Napoli girare in carrozza, per visite, tutto il giorno). Sì, una ragazza che sognasse gli splendori e i godimenti del mondo, non potrebbe avere di più, se anche fosse più bella di Elmina, cosa che non so immaginare, di quanto toccherà adesso in dote alla fanciulla, dedottone anche, e non è poco, quanto sarà dovuto per testamento ai suoi dieci fratelli, Teresa esclusa, essendo figlia naturale di don Mariano: tutti, attualmente, sistemati in lontane regioni del mondo, occupatissimi in traffici e compravendita di pellame. La ragazza, perciò, è assai ricca, e il tuo protetto non potrebbe andar meglio con lei accasandosi. (Questa, non ammogliandosi, l’espressione dialettale che anche il Duca usava). Resta un punto, tuttavia, dubitativo, sulla bontà e perfezione di queste nozze, punto sul quale io non posso e non devo diffondermi. Non tocca a me, e non toccherebbe, forse, neppure al di lei confessore... o forse sì. Bisognerebbe prima sapere se ne ha uno... e quale...».
«Che intendi, Duca?» con viva curiosità Ingmar.
«Suppongo, bada, anzi ne sono certo, una cosa: ella è veramente religiosa, bene educata, e donna d’onore. Non vi sono macchie nella sua vita. Crebbe con don Mariano, che ne è gelosissimo. Il tuo Albert non si dannerebbe, sposandola. Ma vi è in lei – non lo vedo, bada, è solo cosa che si intuisce (e a Napoli tutti affermano di sapere, se sia malevolenza lo ignoro) –, vi è in lei un segreto che riguarda il suo rapporto con la madre... con la di lei, oggi, defunta madre. Come tu stesso mi hai detto, ella non si è recata subito a vederla...».
«Non ha potuto» rispose in fretta, pronto, Ingmar, che già sperava in qualche «rivelazione» contro di lei (a donna Brigitta, ovviamente, non aveva nulla da contestare), ma non riteneva onesto sollecitarla.
«Non ha voluto, figlio mio. So che suo padre le aveva affidato alcune incombenze, ma non era una ragione valida, date le circostanze. La verità è che ella odia sua madre, per lo meno l’ha odiata. Qui, tutti lo sanno. Perciò non corse a vederla ieri mattina».
«A... Caserta si sa di lei?» chiese Ingmar.
«Di sua madre?... Di donna Brigitta? Tutto!».
Per «lei» il principe intendeva Elmina, ma non ci tenne a precisare: aveva qualche ragione per sospettare il Duca di eccessiva inventiva, e già sperimentava una minore fiducia, se non proprio fastidio. Gli occhi gli lucevano d’ironia.
«E che cosa aveva questa Brigitta, di grazia, caro Duca,» chiese ardendo di curiosità, suo malgrado, il principe «perché la città, insieme a sua figlia, arrivasse a detestarla?».
Questo il Duca non lo aveva detto, ma Ingmar ne era certo.
«Figlia illegittima. Non di un militare prussiano, come si è anche detto, Helm è solo un nome inventato, per coprirne un altro, ma di un personaggio di Corte, alto... altissimo... forse il primo del Palazzo, che a suo tempo menò vita dissoluta, e di una cuoca, pensa, forse una sguattera, ugualmente di discutibili princìpi. Queste le ascendenze, tutto sommato abbastanza volgari, di donna Brigitta, allevata da giovanetta nel disordine e il lusso di una condizione ambigua. Alla fine, avendo conosciuto don Mariano, si riscattò. Non aveva che quindici anni... Ottenne un posto di operaia. Non sorridere, perché le ricchezze della sua regale parentela a quel momento non c’erano più, sua madre era morta oscuramente... vennero dopo. Il sentimento di don Mariano fu dunque purissimo, e ben presto premiato dalla notizia di una enorme eredità... Così cominciò tutto... I due sposi ebbero molti figli, la loro vita prosperava, splendeva. L’ultima figlia fu Elmina, e molto curiosamente, a causa di Elmina, le cose cambiarono...».
«In che senso?».
«Ti ho detto, no? che donna Brigitta era figlia illegittima. Tutt’altra cosa da quanto era stato raccontato ad Elmina, che suo nonno era un generale prussiano, molto dabbene, e devoto alla virtuosissima moglie. Una serva sciagurata, che poi fu cacciata di casa, certa Ferrante, o Ferranta, aveva fornito le minime informazioni alla piccina. Illegittima! Ella, che era tutta boria, non volle sentir altro, e riuscì ad ottenere da quel tenerissimo padre che per lei resta tuttora don Mariano, che donna Brigitta fosse allontanata da casa... per sempre! L’infelice si ritirò a Casoria, dove aveva una villa, e dove nulla più l’allietava, avendo i suoi figli, già adulti, lasciato la patria napoletana. Anche la Casa del Pallonetto si fece silenziosa... come tu l’hai trovata. Ebbe inizio così l’esilio della poveretta, che è durato nove anni, e finito tristemente l’altro ieri».
Ingmar era trasecolato. Tra indignazione e meraviglia, per quella tragedia familiare, dovuta all’autorità dispotica concessa a una bambina, cui però non poteva – considerata la causa di un trauma nell’onore familiare – dar torto, non aveva quasi parole, e aveva a momenti l’impressione che il Duca si prendesse gioco della sua ingenuità; ma questo sospetto fu presto allontanato.
«Illegittima!» esclamò. «Come? E don Mariano l’avrebbe sposata ugualmente? Come mai?». Era fuori di sé dalla meraviglia, le ultime proposizioni del suo interlocutore essendogli quasi sfuggite (l’esilio di Brigitta, il silenzio della casa di Napoli, troppo tristi invero), non badando quasi altro che alla gravità di quella prima informazione.
«E non ti domandi come il tuo Albert...? No? Vedi, è possibile, figlio mio. Una grande bellezza, un fascino strano. Ma per don Mariano, vi è stato qualcosa di più. Uomo cristiano, compassionevole, giusto. Volle rimediare al male commesso da un altro (quel tale Personaggio sublime), e diede a donna Brigitta una nuova e dolce felicità, un nome onorato, aggiungendo alla sostanza di lei – ereditata poi dalla cuoca\ sostanza vistosissima – una nuova incontestabile fortuna. Ed ella, per almeno ventisette anni, fu una moglie felice. Finché, ripeto, Elmina non fu grandicella. Perché, a sei sette anni – la madre era già verso la cinquantina – saputo il vero dalla Ferranta, e costretto suo padre, che tuttora l’adora, a confessare le vere origini materne, ottenne che donna Brigitta si stabilisse lontana da lei, appunto a Casoria. Ma già, non l’aveva mai potuta soffrire. Una ragazza fredda».
«Allontanare sua madre! Riuscire a questo! Una piccina di pochi anni!» gridò quasi lo stupito, per non dire inorridito, Ingmar, che finalmente aveva tutto compreso. «Non posso crederlo!».
Gridando questo, sapeva benissimo di crederci, e che ciò era vero, forse con qualche attenuante, che lì per lì non lo interessava.
«Ella,» aggiunse infatti il Duca «la donna da te temuta, ha inoltre una seconda motivazione, ma estremamente debole, per il suo inumano comportamento, almeno in una ragazza così giovane. Non so come tu la pensi su questo argomento, ma ella aborre, ha sempre aborrito i Borboni, e quindi la sua disgraziata ascendenza, e la persona a cui la deve. Non dirlo a don Mariano, in quanto lui la sostiene: divide segretamente, credo, i sentimenti antirealisti di lei. Poco bello, ma vero: quei due tirano ugualmente, oggi, per il nuovo astro francese, e non nascondono di sospirare ancora per il ’93».
Queste parole, come l’allusione all’ancora oscuro Bonaparte, lasciarono indifferente, come chiacchiere di un villaggio, l’esperto mondano di Liegi. Egli era certo che la bella Elmina odiasse solo, e spietatamente, le sue origini tra losche e servili, e avesse odiato la madre solo a causa della propria grande superbia... Fosse nata regolarmente a Corte le avrebbe perdonato. Era sprezzante di tutto ciò che non fosse sfarzo e grandezza. Aveva il cuore duro e volgare che egli aveva intuito. Bien! Né Madame Dupré, né principessa di Neville, a questo punto. Mai!
Poche ore dopo, col cuore pieno di sollievo, e anche un po’ amaro, perché il principe era dopotutto di razza umana, Neville lasciava il sorridente stregone, e su un bel cavallo bianco, e accompagnato da un servo del Duca, cavalcava pensieroso alla volta di Napoli. Non si attardò a visitare Pompei, né a fare il giro del Vesuvio, ma a Napoli giunse tuttavia solo a sera tarda, sotto un cielo brulicante di stelle.
Esse gli parvero additare in ogni punto dello spazio azzurro la via del ritorno ai Paesi Bassi, e per dirla più chiaramente in Europa (che anche Napoli fosse Europa, con grande ingiustizia, egli non pensava), e di questo era senza dubbio molto felice.