Si rivela, dietro il messaggio, il dolore di un principe, e partecipiamo alla illecita indagine su una remota questione infantile

Se il benevolo e forse incuriosito Lettore di queste pagine si aspettasse da noi una accurata e circostanziata raffigurazione della scena che seguì la consegna del messaggio nella Casa del Pallonetto, dovremmo deluderlo. D’altra parte, come forse potrà vedersi in seguito, tale scena si ridimensionerà da sola. Urge piuttosto l’obbligo, per lo scrupoloso narratore, di riprendere il filo della vicenda stessa là dove si è imbrogliato, nel suo vero luogo, non vogliamo dire malvagio, ma irresponsabile sì. E questo luogo era il cuore stesso del principe-mago di Liegi.

Come avevano subito supposto coloro che trovavano strana, a soli pochissimi giorni dalla partenza del nobile, la consegna a Napoli di un suo messaggio proveniente dalla remota Liegi, egli non si era diretto, partendo, verso la sua colta, severa, verde patria, benché là, in definitiva, nel suo animo ferito e incollerito, anelasse tornare, bensì a Caserta, dall’amico della sua defunta madre, Benjamin Ruskaja, esule polacco di antica data, e mago di recente. Qui, non ebbe bisogno di riassumere minutamente l’insieme della vicenda, che tanti felici giorni prima, sotto il più azzurro dei cieli, egli aveva annunciato con chiaro timore al suo amico; già Benjamin era al corrente di tutto, sia per le amicizie di cui godeva in Napoli (e che avevano molte orecchie in ascolto perfino nelle cucine del Pallonetto), sia per le sue ben note doti di veggente e mago; e, vedendo entrare Neville tutto pallido, anche per il vento che gli aveva battuto in faccia per alcune ore (avendo egli voluto arrivare a cavallo prima del suo seguito), disse:

«Figlio mio, ora è fatta! Bisogna che tu metta in pace il tuo cuore!».

Questa espressione, che faceva supporre che egli, Neville, fosse in realtà malato d’amore per Elmina, e soffrisse l’inferno nel vedersi sostituito da un altro, sia pure Albert, nel di lei cuore, fece tremare di sdegno il nobile, che oltretutto non giurava sul fondo segreto del suo animo, e che subito rispose:

«Ammetto di non essere stato del tutto insensibile al di lei fascino, caro Duca; ma ora la questione è altra. Si tratta unicamente di Albert. La ragazza... la ragazza che egli sposa, quella dolce Elmina, è una... è una di noi, mio caro. Ecco il segreto».

«Una di noi! Che vuoi dire?».

«Ella pratica le arti magiche, tutte, comprendi, le arti magiche, fin le più pericolose, servendosi perciò, come di schermo, della stessa santa religione».

Benjamin si mise a ridere.

«Ne hai le prove? Puoi fornirne una?».

«Questa è una... la più piccola e superficiale» disse Neville, mostrando col suo parlare che ve ne fossero ben altre, mentre non ve n’erano, e in ciò barava disinvoltamente, e cavò dal portafoglio di marocchino azzurro che aveva in petto la miniatura del Cavaliere, che anche lui aveva trovato, ma di cui non aveva fatto parola a Nodier. E come la vide, sbiancò ancor più in viso di quanto non fosse già per il vento. Nella miniatura non era raffigurato più il Cavaliere, ma di nuovo la bella bambina scalza.

«L’immagine che c’era prima!» osservò semplicemente il Duca.

«Sì... e questo è terribile. Che questa immagine, che mi ha incantato, convengo, al primo vederla, muti da sola in un’altra! Perché se a mutarla, nella mia stanza di Napoli, potrebbe essere stato qualsiasi domestico geloso dei beni di famiglia, a cambiarla, durante il mio viaggio, stamane – dopo Ponticelli, ancora la estrassi e osservai, e la bimba non c’era – non può essere stato che un potere inspiegabile, che tutto vede e domina, anche la mia vita e i miei atti. E devo attribuirlo a lei!».

«E a te non viene in mente» proseguì, molto calmo, il buon vecchio «che proprio il tuo ammirato pensiero l’abbia qui riportata?... e che tu sia il mago, Ingmar, non la povera Elmina?».

«Dei miei... dei miei poteri non nego di essere a conoscenza;» piuttosto imbarazzato e nervoso il principe ammise «ma ora, Duca, è questione di altro; questa immagine rappresenta... un’ombra, un mistero di quella casa, una casa dove io avverto qualcosa di non buono, non chiaro. Chi è mago,» quasi gridò «non perciò è necessariamente uomo di minor cuore e intelletto di chi non abbia lo stesso dono... Io lo nego. Benché dotato di alcuni poteri, mi sento uomo, e peccatore, come chiunque altro, e prego il Cielo che la mia anima, alla fine della esperienza mondana, sia salva... Ecco tutto. Ciò non credo di Elmina».

Si gettò, quindi, in un’ampia poltrona di velluto a ramages verdi e bianchi fiori, situata comodamente davanti al camino (fuori si sentiva fischiare crudelmente, a intervalli, il vento triste dell’Est); e proseguì:

«Non vi è chiaro, no, nell’animo di Elmina. Di ciò temo, affidandole il nostro Albert. E sono timori che non domino più. Non rifiuto l’idea che vi sia in me, contemporaneamente a questo orrore, una invincibile tristezza, perché sento la fondamentale virtù di Elmina, rispetto il suo carattere di donna forte, ma ella non è sana, davanti a Dio, dico: un mistero non buono è alle radici del di lei cuore, un cuore che si penserebbe volentieri del tutto innocente».

Con sua grande sorpresa, in luogo del rimprovero che il principe si aspettava, tremando, e per tutta risposta alla sua aperta e spaventosa calunnia (che tale poteva dirsi un’asserzione non fondata altro che sulla intolleranza del principe per quella giovanetta, o Capra) il Ruskaja, che seduto di fronte a lui, in una più grande e soave bergère di velluto rosa, andava rigirando tra le dita la squisita miniatura, disse, come tra sé:

«Alludi, evidentemente, a una colpa, se non a un vero e proprio peccato. E quale potrebbe essere, mio caro, secondo te? Ella non è certo malvagia».

«No,» balbettò Neville «questo non credo».

«Nel tuo cuore stesso guarda, dunque, mio giovane amico» riprese, fissandolo, il Ruskaja. «Di solito» disse «si è portati a credere che il cuore dei fanciulli, o dei giovanissimi, sia immune da almeno un peccato. Ma guarda dentro di te... fin da quando eri ragazzo, e ancora adesso: non vi è forse mortale dolore per la bella felicità di un altro... piuttosto che preoccupazione, come credi, per il suo avvenire?».

«Sì... forse... non so... Oh! Chi può dire il suo cuore!» quasi gridò Ingmar. «Io... io non lo posso!» come in un gemito concluse.

Benjamin gli gettò uno sguardo pieno di compassione.

«Questa creatura,» disse subito dopo, crediamo per mutare argomento «questa piccina... ora lo vedo nitidamente... Dammi, per favore, quella lente» fece il maestoso vecchio, indicando a Neville una grossa lente lattiginosa, adagiata come un occhio in un astuccio di velluto verde posato sul basso tavolo (tale lente pareva, ma certo era inganno, girarsi cautamente). Fu obbedito all’istante, con cuore in tumulto, da Ingmar, che subito dopo udì le seguenti parole:

«Ingmar, questa creatura non ha l’aura della vita intorno al suo biondo capino. E questa lente, tra le cose più care lasciatemi da mia madre, non mi ha mai ingannato.

«Essa – la piccina – non è più di questo mondo, non tuttavia da molti anni... da pochi. E ti so dire che... aspetta che guardi meglio... essa si è spenta semplicemente di dolore... otto o nove anni fa, e il Pallonetto assisté a tale dolore (e vide e ricorda tuttora tale dolore). Era la più giovane delle figlie di donna Brigitta (avuta da un primo marito, il defunto colonnello Helm, e qui le mie precedenti informazioni difettavano), la più mite creatura del mondo, la gemma della casa... amata dai fratelli e dai servi per la sua grazia e bontà... e dal secondo padre adorata. Meno che da Elmina, allora di otto o nove anni. E perché? Dio solo può dirlo, perché Elmina, anche se diversa da Florì, non era meno bella, e gioiosa, e amata. Ma questo mistero, dell’orribile patimento di un cuore per un qualcosa di più che esso crede di intravedere in un altro – quanto mistero doloroso del cuore umano (all’origine, forse, di ogni dramma dell’Universo) –, questo mistero nessuno, solo la religione, chi l’abbia, saprà mai illuminare. Povera Elmina, devi compiangerla. Florì aveva un cardillo...».

Ingmar, con gli occhi spalancati, pendeva, come si dice, e non tanto retoricamente, dalle labbra del vecchio.

«Avete detto, Duca: Florì? Avete detto: un cardillo?».

«Sì, figlio mio, il suo nome, il nome della piccina, era Floridia, e la sua religione erano i figli dell’aria, per quanto si recasse anche, ingenuamente, in chiesa. Ma solo gli uccelli adorava. Ammalò, intanto, di un male molto ricorrente, come sai, tra le nostre povere fanciulle, il languore, e il suo nuovo padre (quel don Mariano, di cui ti ha colpito la infelicità profonda: essa ha dunque una causa) non faceva che farle mutare paese... passava di villa in villa, di giardino in giardino... da Portici a Sorrento... in tutti i più rinomati luoghi di cura – ma Florì non guariva. Si ridusse quindi nella sua casa del Pallonetto, a una stanza dove nessuno poteva entrare, tranne donna Brigitta e il Guantaio – Teresa era ancora presso la balia – ed Elmina talvolta, ma non sarebbe stato necessario; stanza che dava su un giardinetto interno; e lì conduceva ormai la sua vita estrema, sempre più pallida, in compagnia di alcuni uccelli. E fra questi, padrone non solo della gabbietta di canna, ma della stanza dorata della piccina, era Dodo, il cardillo del cuore, regalatole dal padre... Ecco, vedo qui tutta la scena... cose di cui la gente ha già parlato, ma accresciute e peggiorate dalla propria immaginazione... Ma questa lente, che fa rifiorire il passato, non sbaglia... non ha mai sbagliato... è di Cracovia, opera di un artigiano di genio come non se ne trovano più... (Soffiamoci sopra... Sembra appannata). Ecco, vedi nulla, tu, adesso?».

Spaventato (la magia non lo turbava, ma le cose del cuore sì), Ingmar guardò nella lente, e vide, o credé di vedere, come nei nostri apparecchi televisivi, la sera, quando si spengono, un punto luminoso nel buio, ma un punto che s’ingrandiva invece di rimpicciolire, e al suo centro scopriva una semplice struggente scena: Floridia, nel suo letticciuolo di seta, dormiva. Il Cardillo, sul cuscino, presso il volto della padroncina, le baciava i capelli, come ella fosse solo un altro uccelletto, di lui un po’ più grande... con molta tenerezza e scherzoso spirito. «Ed ecco...» (qui, la voce di Benjamin intervenne nella magica scena del passato, a illustrarla e forse animarla e dirigerla dottamente) «ecco che la porta si apre... Ecco entrare Elmina, di forse nove anni, dunque più grandina di Florì, entrare impettita e superba nella cameretta, forse per chiudere la finestra (incombenza da lei assunta, per solito spirito di comando) che era aperta sulla notte di primavera. Vede subito l’uccello, e coglie la squisita tenerezza di questa creatura per sua sorella. Di colpo, i suoi tratti s’induriscono. Ella si accosta veloce al lettuccio. L’innocente uccello la guarda stupito. “Via di qua... via di qua... cattivo!” ella sembra gridare. L’uccello fugge. Ella lo rincorre silenziosa, lo afferra e stringe la creatura, con crudeltà inaudita, tra le piccole mani. Riapre le dita... La piccola meraviglia affettuosa non è più: un corpicino da niente le sfugge dalle dita, scivola come un oggetto sul pavimento. Elmina esce in fretta dalla stanza. Florì, in quel punto, si sveglia, riapre gli occhietti di perla, cerca il suo amato, vicino al proprio volto. Ma Dodo è a terra... morto, non risponde più».

«E poi?» gridò Ingmar.

«Calmati, figlio mio... Non piangere...» (Ingmar piangeva infatti dirottamente). «Queste cose, nei fanciulli, non sono rare... per niente è rara la gelosia anche in quegli angioletti. E poi,» lasciando andare la lente, che era sospesa ad un elegante cordoncino «ora ricordo bene quanto mi fu detto di lei dalla marchesa Durante (mia ottima amica, se mai dovessi rientrare a Napoli, recati a visitarla, se non è già in villa, e salutala da parte mia...)».

«...Vi fu detto?».

«...che l’angelica Florì non era neppure lei senza colpa... al mattino aveva provocato Elmina con una parola grave... pesante, in una piccina...».

«E... quale?».

«Aveva inizio con la lettera b... (posso supporre, quindi: brutto) e indicava (temo) un aspetto del volto di un povero domestico, che Elmina (sai, le bambine...) allora capricciosamente proteggeva. Non so altro, purtroppo».

«Resta un’infamia, ugualmente. Qualsiasi cosa la povera bimba avesse detto, lei» (intendeva Elmina) «non doveva punire il povero Cardillo... Ma ditemi,» (l’indignato principe) «ditemi, almeno: si pentì? Che scuse addusse al suo gesto malvagio, se pure ve n’erano?».

«Che posso dirti? Chi può più saperlo a tanta distanza di anni, figlio mio? Purtroppo, la notte stessa, anche Florì (che dopo un debole grido non aveva più dato segno di riaversi, restandosene calma e assorta nel suo lettino, gli occhi aperti sull’ultima visione del piccolo amico), la notte stessa Floridia si spense. Elmina, a quanto mi fu detto, gettò via dalla finestra il Cardillo, suppongo per eliminare le prove della sua colpevolezza... E si dice, bada bene, si dice soltanto, che durante la notte la creatura, improvvisamente ridestata dal suo sonno (forse per effetto dell’aria soave), aprisse le ali... e volasse volasse... verso le stelle che infioravano tutta la scura volta del golfo di Napoli».

Questa immagine fece scuotere addirittura dai singhiozzi il nostro tremendo Neville, il quale si rivelava così degno amico del suo Albert; ma le lacrime lo calmarono almeno un po’, nel suo odio per la figlia del Guantaio. E vi fu qui un’ultima rivelazione: la povera Brigitta se n’era andata lei, spontaneamente, dalla casa di Napoli, per rifugiarsi nella villa di Casoria. Non voleva più rivedere la figlia maggiore. Questo fu il vero movente del suo allontanamento da casa, non la scoperta (e la severità) di Elmina per le ascendenze servili, e anche borboniche, di quella degna donna che era sua madre.

Senza cogliere, nel racconto del vecchio mago, almeno questa contraddizione, tra una «voce» e l’altra, rispetto alla sua precedente esposizione dei fatti, che era stata Elmina ad esiliare, per punirla dei suoi rapporti con la Corte, la madre a Casoria (ma si sa che la verità è sempre fluttuante e cangevole, specie se affidata a racconti di congiunti malevoli e di rimbambiti camerieri), il principe, esausto, accettò l’ospitalità, per quella notte, del Duca. Ma era – se così possiamo dire di un ardito gentiluomo e di un diplomatico esperto di tutti i vizi e le menzogne delle più celebri Corti di Europa, per una storia, tutto sommato, di bambine dispettose e di Cardilli innamorati – era un cuore distrutto.

L’indomani mattina, di buonora, egli spedì a Napoli un domestico del Duca col messaggio che sappiamo per Alphonse, messaggio che era finito in mano di Elmina, mentre il dono per Elmina, il Cestello d’oro e rubini, ritirato a Chiaia dai Brothers & Co. e respinto dalla poveretta, come vedemmo, con indicibile emozione fu – dallo stesso sbalordito catoncello, rimasto un attimo nella stanza – consegnato con una reverenza allo sbigottito Nodier. E il resto di questi burrascosi eventi si svolge adesso, sensibile Lettore, nella casa del Guantaio.