Non un attimo passò nel cuore di Albert tra la vista del foglio recante il messaggio (con alcune rose ricamate, come allora usava, sul margine dentellato del foglio stesso, essendo tutto ciò di cui il Duca disponeva nel suo secrétaire per una lettera, cimelio della sua infanzia lontana e delle cure di maman nella prossimità dei suoi Natali), non un attimo, dunque, passò, e già la più terribile delle indignazioni devastava quel cuore candido. La povera Ferrantina, di Carlo, come sappiamo, domestica tra le più anziane della casa, che ne aveva viste e sentite di ogni genere in cinquantanni di servizio fedele e di orecchie particolarmente attente, raccontava ancora, vent’anni dopo – a una nipote che l’assisteva durante una malattia, da cui fortunatamente guarì, e ne raccoglieva ciecamente i deliziosi mémoires per un gazzettiere francese incaricato di testimoniare dell’odio del popolo, ai tempi della Repubblica, per l’oppressione borbonica –, raccontava che dalla Montagna, tanto temuta e favoleggiata, nessuno in quella occasione, dopo i tempi di Plinio, poteva aspettarsi di meglio; vogliamo dire di peggio della valanga, e furia, e colata lavica di improperi che uscì dalla bocca di Bellerofonte davanti alla mala azione del suo amico. Collera, indignazione, disperazione, per lo stato in cui vedeva ridotta la sua adorata e, in più, vergogna per il Belgio intero, davanti al di lei padre. E pare si esprimesse, riferiva poi nelle sue pagine il disinvolto gazzettiere, così, piuttosto insensatamente:
«Oh! Oh! Oh! Si sentì mai di un demonio simile? Mia dolce Elmina, riprendetevi, o ne morrò! Tu, Nodier, per l’anima mia, mi vedi e comprendi: giudica dunque se un solo attimo io debba essere così aggredito dal migliore e più fedele degli amici, senza chiedermi se l’Universo stesso non sia ribaltato e spezzato, e, per disgrazia, Satana stesso regni ormai al posto del Nostro Signore Gesù! Oh, Elmina mia, cuore innocente, riprenditi, rinvieni, o io non mi salverò. Certo che lo ucciderò, e subito! Madame Ferrantina, dei sali, per piacere! Mademoiselle Thérèse! Mademoiselle Louisette!, dell’acqua! Tu, Nodier, prendi subito la mia spada – dev’essere sul cassetto delle cravatte, in fondo all’armadio – e falla lucidare. Non penso neppure minimamente che ti rifiuterai di fare da padrino. Un altro lo troveremo. E il Mascalzone dov’è, attualmente? Che sia ricercato e informato. Un prete ci assista. (Non siamo ancora sotto i Giacobini, grazie al Cielo!). Pensate voi a tutto ciò, Monsieur Civile: questo lato penoso della vicenda vi compete».
Intanto, Adelmine, riaprendo, muta e bianca, quegli occhi d’oro, che avevano reso schiavo per sempre, e dolorosamente, l’artista, allungò a lui, stancamente, la fredda manina, e quasi appoggiandosi al di lui omero, debolmente:
«Vuie pazziate, Albert. Mon ami,» (una delle poche espressioni francesi da lei usate durante il fidanzamento) «tu... non sei in te... Quello... neppure l’amico vostro raggiona...».
A questo punto Nodier, il grasso e beneamato provveditore alla pace e al benessere dei suoi amici di scapestrataggini, dalla prima gioventù in poi, ebbe la visione benedetta della salvezza; l’àncora offerta dal cielo, o da amici spiriti, fu vista e tosto afferrata dalle sue salde mani, e la navicella del matrimonio belga-napoletano con lui uscì dalle sabbie del nulla. Egli, atteggiando tutto il viso a una placidità infinita (e chi voleva poteva comprendere, non fosse stato di duro cuore), e anche a una divertita compassione, uscì in un:
«E così doveva finire, per una rabbia gelosa, una vera amicizia!».
La parola «gelosa», e anche quel compiaciuto rammarico che attribuiva la calunnia a una «rabbia», furono subito intesi e afferrati nel senso giusto da tutti i presenti, che vi si aggrapparono, compresa la smarrita figlia del Guantaio.
«E... che volete dire, con questo, Monsieur Nodier?» il povero Guantaio, che era entrato da poco, ma aveva compreso tutto.
«Non volevo... esitavo... mi pareva terribile assai,» così il mercante, torcendosi vistosamente le mani «ma ecco... vedo i frutti della mia prudenza...».
«Che vuoi dire, Nodier? Che cosa significa?» gridò lo stesso Dupré scattando in piedi. «Tu sapevi dunque qualcosa? La ragione di questo odio ti era manifesta?».
«Non odio! Amore! Don Mariano,» egli rivolgendosi al Guantaio che se ne stava abbattuto e come spaventato accanto alla figlia «don Mariano, dovete perdonare alla signorina: non è colpa sua. Il nostro amico Neville... quello ha perso la capa per vostra figlia... e ciò, nonostante sia il migliore amico di tutti noi...».
«Volete dire... Nodier, che avrebbe sposato lui, volentieri, la mia Elmina, e che accuse tanto infamanti dipendono dal suo dolore... volete dire questo?».
«Esattamente» con aria grave Alphonse Nodier.
«A parte ciò,» intervenne una delle lavoranti presenti alla scena, e che aveva sbirciato la lettera caduta a terra «la signorina nostra non è una Capra».
L’osservazione passò sotto silenzio.
«Amor mio» qui Albert che aveva ritrovato una disperata calma, ponendosi di nuovo in ginocchio davanti alla dormeuse di raso giallo, dove Elmina si era, semincosciente, adagiata. «Amor mio, ti credo senz’altro, credo che il tuo cuore sia tutto mio... ma dimmi, ma reine, non gli hai dato per caso qualche motivo di sperare? Quel suo orrendo regalo...» (e alludeva al discusso eppur mirabile Cestello). «Che voleva, da te... Sperava, forse?».
A ciò, la bella Elmina (la cui avversione per il principe abbiamo già illustrata, e che tali domande, quindi, non potevano che esasperare e abbattere ulteriormente, ma di ciò l’incauto innamorato non poteva avvedersi), non rispondeva. Un rombo, come di uccelli in un bosco, come di Cardilli arrabbiati, era nella sua testa.
«Le accuse... Le accuse... Su quali fatti, eventualmente, poggiano le accuse di Sua Signoria...» andava dicendo qui, come tra sé, il misero padre. E scoppiò improvvisamente in singhiozzi, come non solo in quelle accuse egli non credesse, che erano veritiere, ma anche come se di tutta la faccenda, non gli ipotetici sentimenti colpevoli del principe lo colpissero, ma un di più, dell’altro, un male reale della sua adorata figlia, che era stato solo sfiorato, in quella tempesta, e che egli non poteva, non doveva ad alcuno rivelare.
Fu a questo punto che allo sventurato giovane amico di Sua Grazia tornò in mente quella esclamazione tanto afflitta e strana, uscita dalle labbra di Elmina alla vista del dispaccio: «Oh, Vergine Santa, e Madre Pietosa della Gabbietta, come pago, in questo momento, la mia durezza per il Cardillo!».
Coprendole le mani di baci, egli invocò una spiegazione.
Questa venne, senza quasi farsi aspettare, e sincera che fosse, o dettata da qualche fanciullesco terrore del castigo, fu la seguente.
Il vero Cardillo della storia (anche se di un secondo Cardillo forse Albert ricordava di aver sentito parlare, in quella dolce sera di stelle e silenzio in cui si erano conosciuti), non era quello morto poche ore prima del loro arrivo per essere stato lasciato senza acqua nella vaschetta; era un altro, ed era appartenuto a suo tempo a una sorella di Elmina e Teresa morta bambina: Dina, o Dinuccia, detta anche Soricinella, una piccina disgraziatamente non bella, come egli poteva intuire dal soprannome, e ciononostante molto amata. Ma l’indole non era buona... dispiaceva, a Elmina, ricordarlo. «Essa aveva due cose che le erano piuttosto care, come a tanti piccini non perfettamente a posto con la capa» (don Mariano, dolorosamente assentì): un quadretto della Madonna della Gabbietta, che si venera nella Cappella delle Grazie, alla Vicaria, e sotto la cui protezione donna Brigitta l’aveva posta dalla nascita, vedendola così poco fortunata, e un uccelletto, un cardillo, del tutto uguale a quello che il giorno del loro arrivo era morto.
«Eh bien?» l’appassionato Albert, con gli occhi ardenti di speranza nella innocenza e virtù assolute della sua amata.
«Ebbene,» ella riprese a stento, ma con grande onesta fermezza «con Nadina io ero severa, questa la mia debolezza, anzi vera colpa, oggi credo; papà se ne dispiaceva sempre, ma io la volevo guidare, volevo che crescesse buona e sincera. (Non lo era, devo dire). E morì, non più di sei o sette anni fa, gettandosi dalla finestra della sua stanza, perché aveva trovato morto il Cardillo, e di ciò lamentandosi poco prima con una servente, che me lo riferì (Ferrantina può testimoniare), aveva accusato me, che ero stata io a uccidere il Cardillo. In tal modo assecondava maman, che la idolatrava e, al tempo stesso, non aveva molta simpatia per me. Si gettò dalla finestra credendo – questa la sua innocenza – di resuscitare subito dopo... Doveva essere uno scherzo... finì male... Maman non me la perdonò davvero più. Questo» di nuovo profondendosi in lacrime «l’antefatto, caro Albert. Fui accusata di avere odiato il Cardillo, per pura malvagità, e così mia sorella, e che alla disperazione l’avevo spinta io (e maman per questo se ne andò di casa!). Per fortuna, papà non lo crede. Papà,» rivolgendosi appassionatamente a don Mariano «è vero che credete ad Elmina vostra?... che mia sorella Nadina disse la bugia...?».
«Sì... sì» faceva don Mariano, spingendo il povero mento su e giù.
«E ti credo anch’io, amor mio» qui, ridendo e piangendo, Albert. «Tutto sommato, anzi, mi sembra una storia puerile, e non mi spiego l’invadenza di Neville... che cosa abbia capito, e da chi sia stato influenzato per calunniarti tanto con una allusione, mi pare chiara,» (gettando un’altra occhiata al foglio che era adesso su una sedia) «a una storia di magie, di potenze contrarie all’anima... È veramente straordinario...».
«Perché non conoscete la gente...!» interloquì con grande amarezza la sarta, signora Olinda Benincasa, togliendosi due spilli di bocca. «Ma Napoli, purtroppo, è fatta così. Ci tagliamo i panni addosso l’uno con l’altro... perché non pensiamo alle conseguenze... anzi, perché non pensiamo mai a niente».
«E soprattutto l’innocenza ne fa le spese» con quasi eccessiva indignazione una delle piccole lavoranti.
Albert sospirò, tutto incantato.
«Non mi avete detto poi,» disse amorosamente ad Elmina, porgendole le rose col ciuffetto di neve in cima, che qualcuno aveva con premura raccolto e deposto su un tavolino di marmo «non mi avete detto se voi, Elmina adorata, siete davvero religiosa... se credete in Dio e nella Vergine Santa».
«In Dio, nella Vergine e in tutti gli Angeli del Cielo» fu la spontanea, innocente risposta.
«Mi è di gran sollievo questo... credetemi... E... da che cosa altro vi lasciate guidare? Avete una qualche – perdonatemi – philosophie?».
La poverina non capì la parola (latina o francese che fosse) «philosophie», ma prontamente e tristemente rispose:
«Credo nello Spirito del Male».
E ancora una volta, serio e grave suo padre assentì, e le donne, intorno, fecero cenno di sì, di sì, che il Male – tale Spirito, o Maestà che sia – veramente esiste, e i segni del suo passaggio sono sotto gli occhi di tutti.
«E... che sarebbe... in che consisterebbe, ma reine, questo Esprit du Mal» chiese graziosamente, piegandosi un po’ su quel volto amato, il giovane Albert, che già dimenticava il suo dolore, e aspettava di sentirsi dire: «l’orgoglio... la menzogna... il tradimento... la calunnia... l’invidia», tutti i difetti del principe, gli stessi di cui la poverina era accusata, e invece ella rispose, rassegnata e calma:
«La felicità è male, Albert. Amare le creature è male. Solo Dio si deve amare, e il Re. Il resto è peccato».
«Il Re? Il Re? Est-ce donc le Roi qui a fait les creatures, ma petite Elmina?» qui intenerito e con intensa e spiritosa grazia quell’appassionato amante (che già aveva dimenticato il lato molesto dell’amicizia e degli sponsali fra nazioni diverse). «Il Re è Dio stesso? Vous aimez Ferdinand, est-ce bien cela que vous voulez me dire?».
«Oui, Monsieur Albert. Dio ha fatto le creature e il loro dolore. Le creature vivono nel dolore, e solo il dolore si deve amare, solo quelli perduti si devono servire... anche Sua Maestà obbedisce...» con una sorta di santa grandezza la figlia del Guantaio; ripetendo, come in un ritornello triste, non percepibile invero dalle orecchie di tutti (tranne di uno, e non diremo per ora chi): «Solo la vita è male, solo la gioia è male!».
E pure lacrime di assenza, vorremmo dire di dissennatezza, pari almeno a quelle del suo innamorato belga, sì dicendo – o farneticando – scorrevano sul viso della bella Elmina, tracciavano non so quale parola incomprensibile, oscura su quell’anima radiosa di soli sedici anni: ma non oscurandola, bensì illuminandola, come l’aurora illumina talvolta, prima ancora di levarsi con un palpito rosa, gli oscuri giardini del mondo.
Il Dupré non sentì, e capì, tutto il napoletano-francese di lei, in alcuni momenti più che fanciullesco, ma il suo entusiasmo per la propria sposa, la sensazione fulminea che ella fosse, semplicemente, una delle poche anime sublimi che si posano a volte su questa terra (ancora tremanti per il precipitoso volo), lo scossero come un brivido. E una immensa gratitudine lo invase, quasi pietrificandolo di stupore, per trovarsi ad essere colui accanto al quale, e per il quale, ella avrebbe speso una così santa vita, conferendo anche al marito quella bellezza sovrumana di cui sembrava godere lei sola, misteriosamente, il privilegio, e che Albert, a differenza del cinico Neville, vanitosamente, ma anche profondamente, onorava.
Di nuovo, silenzioso e in preda alla più alta commozione, egli si piegò a baciare quella manina adorata.