Progettò e dispose il principe, questa volta in pochissime malinconiche ore, la sua partenza per Liegi, prevedendo una sosta, per dir meglio una deviazione, che non sapeva, tuttavia, se di alcuni minuti oppure di uno o più giorni, nella capitale del Regno.
Qui giunse di venerdì, sul mezzogiorno, scendendo di nuovo al triste, ormai, Cappello d’Oro, dove fu calorosamente riconosciuto e noiosamente riverito da tutti come il più nobile e amato dei clienti, il più liberale, simpatico, ecc. – e non solo, crediamo, per le generose mance lasciate. È che non v’era nessuno, tranne Elmina, che non travedesse per quel viaggiatore fatato!
Non sopportando, tuttavia, lo stile di tali apprezzamenti – egli sentiva quasi di essere sul punto di scoppiare in lacrime per l’inevitabile confronto con la spensieratezza, la festa, l’assoluta felicità dell’arrivo di alcune settimane prima, e tutto quel sole, quella luce rosa e azzurra sulle navi a vela del porto e il Castello, confronto con l’attuale grigiore dell’animo e del paesaggio di questa volta –, subito si cambiò d’abito, e si recò all’indirizzo di quell’Avvocato Liborio (Apparente, il cognome), che il Duca gli aveva raccomandato d’incontrare. Non lo trovò; ricordò, invece, di aver qualcosa da fare, e andò un po’ in giro per l’elegante centro di Napoli, tra capre e coupés, in cerca di un nuovo dono per gli sposi, che si augurava riportasse la pace almeno nel suo proprio animo. Visitò ancora una volta, a tale scopo, alcuni gioiellieri. Presso uno di questi, i Fratelli Smith, scelse un dono che doveva, secondo lui, fare gran dispetto e insieme piacere (almeno per il suo alto costo) alla Capra; e consisteva in una gabbietta di purissimo oro, con le sbarre tutte incastonate di zaffiri, al centro della quale, su un’asticciola mobile che doveva servirgli anche da altalena, era posato un bellissimo cardillo di smalto colorato – grigie le penne come il fumo o la nebbia, e la testina levata in su, spiritosamente, a guardare qualcosa; e sia sulla testina che sul petto anche grigio, una medaglietta rossa che sembrava il sole. E la novità, rispetto ad altri cardilli che aveva ammirato, era in questo: che girando una chiavetta d’oro sul dorso dell’uccello (nessuna paura che scappasse, era assicurato con una catenina a tre anelli infissa nel tetto), l’uccello cantava; cioè, alzando e abbassando la testina ingenua, lasciava uscire dal becco, che si era aperto, alcune note melodiose, che evocavano quasi una barcarola in una notte di luna, un semplicissimo:
Oò! Oò! Oò!
e poi ancora:
Oh! Oh! Oh!
che sembrava a momenti, a chi fosse stato di udito fine, contenere un pianto; e questo pianto, nell’inconsulto cuore del principe, doveva ricordare ad Elmina quanto, nei cuori altrui, ella avesse non lietamente lavorato; e al Dupré quanto avesse tradito – ampiamente! – un altro cuore. Incosciente era Neville, in questo suo violento appellarsi agli amati affinché lo ricordassero, e ricordandolo lo rimpiangessero... e volgessero un tenero pensiero al «povero Ingmar!».
Non siamo tanto d’accordo sul «povero» e su tutto il resto. Ma così, Lettore, è il burrascoso e infelice cuore dell’uomo quando improvvisi lo scuotono i venti lunari della giovinezza.
Nel primo pomeriggio (aveva intanto incaricato il gioielliere di voler far pervenire al più presto il dono riparatore al Pallonetto) egli, rintracciato quel Notar Liborio (e non «Avvocato», come aveva detto il Duca), introvabile finché qualcuno non gli aveva spiegato che il vero nome del Notaro, a Napoli, contava assai meno del generico soprannome, il quale era, per lui come per tutti gli intellettuali di allora, «Pennarulo» : don Liborio Apparente, Pennarulo (uomo di penna!); e messolo al corrente sia della sua amicizia col Duca, sia del breve tempo di cui disponeva per vedere Napoli (e questo lo disse per convenienza, in quanto non la voleva affatto vedere, anche per averla già abbastanza veduta), sia della sua intenzione di recarsi a porgere un saluto, per conto del Duca, ai familiari di don Mariano, pregò il Notaro di volerlo accompagnare in carrozza in quel luogo dove si trovava da tempo, sempre destinata a crescere, tutta una popolazione che aveva ballato, pianto, era stata triste o felice, a Napoli, dai primi tempi aragonesi; gente di palazzi e tuguri, di Corti, di mercati, di teatri, di chiese; gente che adesso non era più.
Questo Notar Liborio, uomo sui cinquanta, dall’aria talpesca e afflitta (senza probabilmente esserlo davvero), con molta civiltà acconsentì. Neville, che si era procurato dei fiori, precisò che in particolare desiderava portare un saluto e una prece alla tomba della defunta Brigitta Civile, moglie del Guantaio; al che, come nulla fosse, benché, dopo avere udito il nome della dama, con un piccolo trasalimento, si fosse fatto silenzioso, il Pennarulo fu d’accordo, dicendogli:
«Très bien, Monsù, purché questa Cappella la troviamo».
«Come!» disse burbero il principe «la troviamo?» (intanto la carrozza svoltava, da una stradina colorata, nella più ampia e aerea via Costantinopoli) «che intendete dire, Monsieur? Non ci siete stato prima d’ora? Conoscete, però, il luogo?».
«Oh, pardon. È che... vedete, Monsieur, vi sono ben due, non una sola Cappella della... ehm... famiglia Civile. Una è la sua, di don Mariano, dove riposano tutti i guantai della famiglia, ottime e oscure persone che gli dettero mestiere e bontà (don Mariano è un uomo di grande bontà e ricchezza d’animo, nella sua modestia, solo per questo amato). L’altra...».
«L’altra?» chiese interessato Neville.
«L’altra è più distante, molto preziosa, molto bella. Quella della seconda moglie, che tale, però, non era – benché avrebbe potuto esserlo –, appunto donna Brigitta Helm, che tutti conoscevano, a Napoli, come Brigitta Civile. Questa Cappella, molto importante, non mi ha mai ispirato... ecco perché ho detto “se la troviamo”... Non ci sono mai stato... ma conosco il luogo».
«Monsieur Civile ha avuto due mogli? Non lo sapevo» fece vagamente sorpreso – e molti pensieri scendevano a stormi, silenziosi, nella sua mente – il principe. «Strano come non ne sia stato informato» soggiunse quasi tra sé. «E come, poi, non volle legalizzare il secondo legame?».
«Non che non volle, signore, diciamo che ne fu impedito. Per la verità, la stessa donna Brigitta ne fu impedita, in quanto, in un testamento del defunto colonnello Helm, il vero padre dei suoi dieci figli, era disposto che ella avrebbe potuto condurre, dopo la di lui morte, la vita più libera che intendesse: ma non risposarsi, se non voleva perdere l’usufrutto della intera sostanza patrimoniale (le sue proprietà personali, di donna Brigitta, erano passate automaticamente, quando si era sposata, al marito), tanto benefica a lei e di riflesso (il Colonnello conosceva i sentimenti della signora) a don Mariano. E questo, per il nostro Guantaio, fu un dolore... Anzi, è un dolore» proseguì meditabondo il Notaro. «Egli, di ciò era malato. Perché illegalità vi fu, sebbene apparente, e di questo solo le due ultime figlie erano destinate a pagare le conseguenze...».
«Capisco sempre meno» disse Neville. «Ma se in ciò vi è qualcosa che non deve essere comunicato ad estranei, non fate complimenti, mon ami: non desidero saperlo».
Il Notaro, per un po’, non disse parola. La carrozza era già entrata nella mirabile via Foria, fiancheggiata da bei palazzi.
«Guardate là» fece don Liborio, indicando una palazzina rossa che si distaccava, circondata com’era da un alto muro rosa e verde, coperto di rampicanti, dalle vicine case. «Quella che vedete, con le persiane chiuse, era la casa di città di donna Brigitta Helm. Ma ella, dopo la morte dell’ultima figlia, avuta dal primo marito, la piccola Floridia Helm, non volle tornarvi più, e si isolò a Casoria, lasciando a don Mariano la cura di Elmina e Teresella (quest’ultima, non sorella per sangue, ma presa da un convento, un’orfana, per tenere compagnia alla desolata Elmina). E il suo esilio da Napoli, in certo senso volontario, durò fino a quando la povera donna non abbandonò questo mondo. Fino a un mese fa, credo...».
Neville, essendo tuttora di cattivo umore, e sempre più segretamente maldisposto verso la famiglia del Guantaio, aveva seguito tutto questo racconto, per la verità ingarbugliato e lento, con una distratta attenzione, per non dire franco disinteresse. Ma, a un tratto, fu colpito da tutte le enormità che aveva udito (se voleva credere al Pennarulo), e parevano illuminare blandamente, come sparsi lumini a olio, quella accidentata storia, che si palesava come un quadro di rovine del tutto inimmaginabili.
«Scusatemi,» disse «non vi ho seguito. Madame Helm abitava lì?».
«Oui, Monsieur. Era la casa dove aveva vissuto vent’anni con suo marito, il defunto colonnello Helm, del quale mai – neppure quando conobbe, e poi, rimasta vedova a trentotto anni, quindi libera, contraccambiò i profondi sentimenti del signor Guantaio –, mai volle, o poté, dimenticarsi. Diciamo che rimase sempre la signora Helm».
«La ragione?».
«Dieci figli, signore, come già ho accennato; dieci baldi giovani, e tutti legati, per legge e propensione, al Colonnello, e interessati quindi – è comprensibile – alla proprietà paterna, che era e resta considerevole... arriva al Casertano... Boschi, case, vigneti... Don Mariano, anche allora, non possedeva niente, solo una grande operosità e stima universale... ma nient’altro. Del Palazzo del Pallonetto, tra le proprietà di donna Brigitta, anche lei stata ricca di suo quanto il Colonnello – si dice fosse imparentata con la Regina –, del Palazzo al Pallonetto, quando si conobbero, e proprio a causa di questo contratto d’affitto, egli occupava all’inizio solo un modesto appartamento. Ma non era, per la sua bontà, un problema... Uomo parco, sobrio quanto non ve ne furono mai. Del resto, non è un mistero, a causa dei suoi figli che sarebbero diventati un giorno proprietari di tutto (come aveva deciso il Colonnello), ella non poteva alienare nulla... e neppure sposarsi in seconde nozze – almeno per l’occhio della gente – senza scontrarsi con la durezza di quel testamento... Ma fingere (di essersi risposata), poteva. Quindi... – cocchiere, volta da quella parte – quindi, passato il giusto tempo, recitò, davanti a tutta Napoli, la parte di una seconda moglie, con un secondo matrimonio celebrato nientemeno che davanti al Papa... nell’anno... Non era vero, signor mio, ma valse a don Mariano un credito immenso... e questo gli portò fortuna. Gli affari, che erano piuttosto fermi, prosperarono, ingigantirono... almeno così si dice. (Perché resta incerto, a tutt’oggi, come egli abbia perduto, poi, ogni suo avere: forse speculazioni sbagliate, forse donazioni – può darsi all’amata Brigitta –, forse impegni precedenti, che lo legavano... Non ha più nulla). Donna Brigitta, intanto, non divise mai con lui la vita al Pallonetto... ci veniva in visita... C’era un disaccordo tra le due damigelle, Floridia ed Elmina, davvero insanabile, e questo tutta Napoli lo sapeva... L’assenza di lei fu vista così».
«E quale disaccordo, prego?...» (egli riteneva di non essere indiscreto, dato che il disaccordo riguardava due piccine).
«Adelmine, la bella Elmina, non figlia del Colonnello né del Guantaio, ma lontana parente del primo (dicono che la madre fuggì con un oscuro musicante di Colonia, umiliando per sempre il suo titolo nobiliare, ma questa è storia da non raccontare – ambedue i genitori finirono male), Adelmine e la figlia più piccola, e quanto mai legittima, di donna Brigitta, l’angelica Floridia Helm... non si vedevano bene...».
Di bene in meglio! Inoltre, non si parlava di nessuna Nadina, o Soricinella, e il principe, sempre più maldisposto e incupito, si riconfermò nel sospetto che l’esistenza della brutta piccina fosse una invenzione, dettata da qualche cattivo istinto di Elmina.
«Seppi di questa Floridia... Era sui nove anni...».
«Sì, signor mio, quando morì. La nostra bella Elmina, era sui dodici».
Le date, in questa lunga storia a più voci, o voci diverse, non coincidevano, ma nulla coincideva, a guardare bene, nell’insieme di questi racconti o versioni di una memoria familiare così al limite della chiacchiera, così anomala in quanto a virtù reali, segno che vi era una menzogna di base, e molte aggiunte della immaginazione popolare al suo nucleo forse insignificante. (Meglio così, concluse rattristato Ingmar).
«La piccola Floridia morì di languore, mi fu detto» quasi per cortesia, più che vera curiosità, il principe.
«Di languore, sì. Non poteva reggere a questo mondo, tanto era buona... Una malattia universale, sapete... Per quanto, secondo me, non si sarebbe ammalata, senza... senza il brutto incidente occorsole anni prima... di cui fu accusata la scarsa vigilanza – per non dire di più – di Elmina. Erano al Pallonetto, le due piccine... la madre – era di sabato... sabato della Settimana Santa –, era in visita alla famiglia del Guantaio. Floridia, allora sui quattro cinque anni, attendeva alla finestra... La vide rientrare... si sporse con le braccine aperte, per salutarla... Elmina, era accanto a lei, non la trattenne. Andò di sotto. Non morì, cadde su un cesto di biancheria, ma rimase molto scossa... E allora cominciò la malattia».
«Elmina era accanto a lei, avete detto?».
«Sì, signore, purtroppo... e anche lei ne fu scossa, per ragioni varie... fu accusata, in breve, per lo meno di scarsa attenzione... per non dire di assenza di bontà. Comprendete... non è vero...?».
Improvvisamente, tutte le stranezze di quelle versioni, dell’incidente e malattia, udite qua e là, si composero in un’unica intuizione, e il principe vide chiaramente, sebbene con grande tristezza, e assolvendo tutti (soprattutto la povera Elmina), com’erano andate le cose. Capì che, da allora, la madre disperata si era lasciata andare, il suo non caloroso amore per don Mariano era finito, pur serbando fede, con grande senso di solidarietà e amicizia, all’impegno sociale. Ella era rimasta sempre, per la gente, la di lui ottima moglie... In realtà, solo una buona, fedele amica, che aveva sopportato per lui, con cristiana fermezza, la probabile ostilità e diffidenza dei suoi numerosi figli, oltre la sicura avversione di Elmina, e soprattutto la perdita di questa Floridia. Ed era stata questa la piccina del Cardillo (escludendo dunque che vi fosse una terza piccina disgraziata, Nadina o Dinuccia, soprannominata Soricinella).
«Anche don Mariano risentì molto della disgrazia?».
«Signor mio, come di più non si potrebbe. Adorava ambedue le figlie (Teresa, benché amata, non era ancora stata accettata dalla famiglia), e per Elmina avrebbe dato gli occhi: era il suo sole; ma questa Florì aveva una grazia particolare – vous savez – era una voce di gioia. Mia moglie, che l’aveva vista, dice che rassomigliava tanto a un cardillo».
Di nuovo, tornava l’uccello della storia! Ora, a questo punto, non riuscendo più a capire se vi era stato, nella vita della piccina, un solo Cardillo, o due, e se due volte, per così dire, la dispettosa Elmina avesse maltrattato l’uccello; egli, Ingmar, il Benefattore, sentì solo una fitta al cuore, un senso di vergogna per la sua ultima mala azione: il secondo regalo di nozze ad Elmina. Quello era un tragico uccello, quello era un ricordo da non rievocare, nella vita degli sposi. Che villano impudente era stato! Oh, avesse potuto ritirarlo!
Di colpo, poi, mentre seduti nella carrozza erano già in vista delle quiete colline del Cimitero Maggiore, lo colse un pensiero di stupefacente chiarezza, un pensiero che sconvolse, come un terremoto devasta un giardino, tutta la sua precedente, tra scherzosa e appassionata, inchiesta sulla situazione, e distrusse la pace di una già discutibile unione tra i due giovani, l’una testarda e un po’ sciocca, per quanto affascinante, l’altro totalmente pazzo d’amore... Elmina, la bella Elmina Civile, non aveva quasi certamente più un soldo. Con la morte di Brigitta Helm, tutta la convenzione della sua grandiosa situazione patrimoniale era caduta. I dieci legittimi eredi del Colonnello sarebbero balzati fuori come cavalieri armati.
E Albert non sapeva nulla!
«La più giovane, la dodicesima – diciamo “figlia” – di don Mariano (come Elmina, non fu mai veramente adottata, e risulta estranea alle due famiglie), cioè Teresa, non risentirà di questo terremoto» – si schiarì la voce il Notaro. «La Baronessa, su preghiera di don Mariano, che l’aveva ottenuta da un convento a tale condizione, le costituì una piccola dote. Solo Elmina non eredita nulla. Questa fu una precisa disposizione del Colonnello, prima di morire: che la figlia di un oscuro suonatore di organo di Colonia (peggio che figlia del peccato: figlia di una caduta di classe) fosse totalmente esclusa dall’asse patrimoniale... Sì, Elmina non possiede nulla, tranne la devozione infinita del suo falso padre».
Una storia, questa del Pallonetto, del tutto esemplare del disordine delle famiglie borboniche, e del tutto terrifica, poi, se si teneva conto della sorte di Elmina.
Per Albert – se il principe non avesse provveduto, come invece aveva fatto, ma non si sognava di rivelare al Notaro – sarebbe stata la miseria.
Neville, come un automa, rivolse a don Liborio Apparente un’ultima domanda, molto meccanica e, a giudicare dall’accento, quasi indifferente:
«Dove andranno ad abitare?».
«È inteso, per l’occhio del mondo, che don Mariano, con le due “figlie”, resti per qualche tempo al Pallonetto, se vuole; gli eredi non sono ancora arrivati, né è da escludere che i poveretti si affidino, per qualche deroga del testamento, agli avvocati, sebbene, nella loro qualità di semplici beneficati, o anche amici, di donna Helm, non gli tocchi neppure una sedia.
«In quanto a Elmina, che domani va sposa, il padre pensò a lei col dono di una casarella, niente di speciale, anzi una casarella malconcia, sopra Sant’Antonio a Posillipo, che Brigitta gli cede, all’inizio della loro conoscenza, a condizioni eccezionali. È lì che andranno ad abitare e lei dovrà fare a meno del servidorame... cambia tutto, ora. Porterà con sé unicamente la vecchia Ferrantina, che allevò, quasi, don Mariano, e conosce tutte le loro disgrazie... Un po’ d’oro, naturalmente, ce l’ha... collane, qualche spilla; e di un negozietto di don Mariano, di chincaglierie – quello non è ipotecato – divide gli utili, se ce ne sono, cosa di cui dubito, con Teresina. Ma siamo quasi arrivati... Volta, cocchiere!».