La Casarella. Nuove disposizioni a favore degli sposi. Piove su Napoli e sull’animo del principe che l’ammira. «Oh, non dimenticarmi tanto presto, amico mio!»

I nomi che egli, Ingmar, aveva letto o creduto di leggere sul marmo della Cappella, gli sarebbero rimasti impressi nella mente per la vita, ma non nel senso che il Lettore può essere indotto a supporre, di fanciullesca superstizione, quanto di chiaro segno di quella malattia dell’animo cui da anni egli si proponeva continuamente di sfuggire, sia con i viaggi, le amicizie, una ostentata dissipazione, e perfino una ars poetica purtroppo non tanto notevole da varcare la stretta cerchia degli intimi estimatori; imprese tutte inutili, in quanto tale Malinconia è ineliminabile dal cuore in cui è nata, insieme al desiderio della più ardente e generosa vita. Ineliminabile! Il principe aveva compreso da tempo codesta natura del suo male, ma mai come a Napoli, in quella fatata circostanza della sua giovinezza – un matrimonio in cui venivano messi a confronto, per dolersi reciprocamente, i due primi e dolorosi sentimenti del suo cuore: l’amore per Albert Dupré, e quello (che non osava dichiarare a se stesso) per la di lui sposa, la bella Elmina.

Ma non vogliamo, né forse osiamo, perderci in sottili descrizioni del cuore umano, in una vicenda oltretutto risalente alla fine del terz’ultimo secolo della nuova Europa; epoca ormai remota, e dove soprattutto sono in questione cose estremamente volatili come denari e pasticci di mercanti, risoluzioni e destini di spose intemerate, e inoltre litigi fanciulleschi, storie di piccine dispettose, ma anche troppo tenere per sopportare questa vita.

Torniamo dunque, Lettore, ai complicati e ridicoli fatti che tessono la trama stellare delle belle passioni umane.

Rientrato al Cappello d’Oro, col proposito di trovarsi l’indomani mattina alla cerimonia delle nozze di Elmina e Albert (proposito, come aveva già fatto intendere al Guantaio prima di congedarsi, del tutto effettuabile), e dopo aver dato ordine al suo cameriere personale di volergli far rinfrescare l’abito azzurro scelto per la funzione in chiesa, Neville (erano ormai le dieci di una bella sera di primavera) sentì crescere a dismisura quell’atroce malinconia del pomeriggio; e l’accompagnava un desiderio crudele ed egoista: quello di fuggire subito da Napoli, partire per Roma, e da Civitavecchia imbarcarsi senza indugio per un porto del Nord. Non voleva più rivedere nemmeno le Alpi, che avevano salutato così gioiosamente la discesa del Carro di Pegaso verso la misteriosa luce rosa-azzurra del Mediterraneo.

«Addio, e per sempre, mio caro Bellerofonte!» diceva con le lacrime agli occhi, passeggiando su e giù per l’ampia stanza del Cappello d’Oro, la stessa della prima sera dell’arrivo a Napoli, davanti al balcone che aveva chiuso per non vedere l’azzurro della notte illuminato dalla torcia rossa del Vulcano e l’ampia piazza sul Molo. «Addio anche a te, crudele Elmina!».

Ma ben presto, nella sua mente, dove mai alcun pensiero veramente si fermava per un giusto riposo, né, per fortuna, lo abbatteva in modo durevole, si delinearono i tratti di tre azioni, e comportamenti, che dovevano concludere con onore, per il generoso principe, quella dolente esperienza della sua vita giovanile. Prima di tutto doveva scrivere a Nodier una lunga e particolareggiata lettera, parlandogli della rivelazione avuta di qualche difficoltà, così avrebbe detto, in cui era venuto a trovarsi Monsieur Civile, e pregandolo sia di voler tenere gelosamente per sé ogni accenno a tale rivelazione, sia di volersi regolare, per conseguenza, come se tali accenni (suoi e di altri, in Napoli) non potessero giungergli all’orecchio per le più ovvie difficoltà della lingua; sia di volersi puntualmente attenere alle istruzioni e disposizioni già fissate insieme prima dell’incidente (era sottinteso a quale incidente il principe si riferiva). Ora più che mai esse dovevano essere rigorosamente rispettate, e di conseguenza ogni più largo e discreto aiuto doveva essere fornito alla sfortunata coppia e al Guantaio, se appena se ne fosse profilata la necessità: aiuto e assistenza di cui lo pregava di rendergli poi minuziosamente conto con lettere inoltrate, tramite corriere diplomatico, a Liegi. Ribadiva, quindi, che di qualsiasi anche minima difficoltà, ed emergenza, era sottinteso che egli, Ingmar, dovesse essere fulmineamente avvisato; e così fulmineamente avrebbe provveduto.

Fatto ciò, il nostro principe comunicò a Nodier la sua decisione di ripartire l’indomani stesso per Roma e Civitavecchia, senza presenziare alle nozze, essendosi ricordato di impegni urgenti presso un Ministro. Gli raccomandò infine di dare disposizioni, affinché fosse subito riattata e dipinta di nuovo (meglio se nel suo vecchio colore rosa) la casa di Sant'Antonio a Posillipo, che l’indomani, prima della partenza, egli si sarebbe recato a visitare, per un controllo e un eventuale preventivo delle opere da attuare (così disse).

E se queste si presentavano sicurissimamente come azioni del tutto cervellotiche e impensabili rispetto al comune senso della misura, sconsiderate già allora per il nessun senso del ridicolo cui un grande della terra così si esponeva comportandosi come un fanciullo fantasticante; se, ecc.. non sapremmo davvero come presentarle oggi; vogliam dire in tempi come i nostri, così al riparo, e totalmente, da amicizia, delicatezza, generosità; ma darne cenno, anche arrossendo, ci appare consigliabile, tenendo per scusante, a tali peccati di bontà del povero principe, che la Rivoluzione non aveva compiuto, allora, che i primi passi, in fatto di culto dell’economia e della decenza (o limiti) del soccorso, non validi, in ogni caso, per il nostro eroe, essendo il «povero Ingmar» nato alcuni decenni prima del ’93, e non ancora, ahimè, educato al senso vuoi della Ragione, vuoi della mano stretta. Ricordiamo inoltre, volentieri, che allora – Illuministi a parte – sogni e presagi per la debolezza del cuore umano, e timore e pianto per l’invadenza di un qualche ignoto e sciocco Cardillo, dominavano ancora i comportamenti comuni. Non solo l'argent, Lettore, passava come un raggio nei boschi fioriti del cuore, nella sua primavera che era, allora, prodigiosa: ma amori, amicizie, damigelle... e sogni e scherzi ed eleganze di vita, erano ancora un traguardo nello stile dei Signori. Quindi, niente scandalo, né sorrisi, né compassionevoli ammiccamenti: solo un grazie sincero al Cielo che i tempi, e la perfetta educazione democratica, ci abbiano esentato per sempre da simili febbri di grandezza e gioia, e insane confusioni tra corporea giovinezza e reale fantastica purezza.

Subito dopo, il nostro Ingmar scrisse due righe (con inchiostro azzurro) al suo beneamato Albert, righe in cui pose tutto il suo cuore; e mentre pregava il Cielo che con mille benedizioni illuminasse e proteggesse sempre la di lui vita e felicità, gli pareva di avere accanto l’amico adorato, e di vedere a pochi passi, sotto il dipinto arco di una porta, la bella Elmina, tra corrucciata e dolce, che lo guardava, e chiedeva ai suoi (di lui, Ingmar) occhi attenti e generosi:

«Perché, perché, signor Neville, ci fate tanto male?».

«Ma io non voglio il vostro male, mia cara Elmina,» si trovò a rispondere l’esaltato amico di Albert e Nodier «solo il vostro bene! Ed è per questo che parto! E vi lascio l’essere più caro che abbia, il mio Albert! Oh, sono dunque io che devo pregarvi di non fargli del male... come ne avete fatto (oh, solo un po’!) a me... Perché voi, cara Elmina, avete un segreto!».

E gli parve, a queste parole, vedere la giovanetta che si girava verso una piccola servente, o forse la sorellina Teresa, che aspettava a due passi, con una gabbietta di canna fiorita tra le mani, ed esclamava tra le lacrime:

«Si porti dunque il Cardillo! Venga avanti il Cardillo! E sia noto, e perdonato dagli Angeli, il mio segreto!».

E come disse queste parole (al principe pareva proprio di vederla, nel suo abituccio rosa della prima sera al Pallonetto), sparì, e gli occhi pieni di lacrime di Neville si volsero sconsolati intorno, cercando gli amici, e tutti coloro (meno Nodier) che temeva non avrebbe riveduto mai più.

Vergate le sue lettere, le chiuse, sigillò e affidò a un servo che sempre era con lui, affinché le consegnasse l’indomani di buonora alla casa di Monsieur Civile. Al medesimo servo ordinò che si riponesse l’abito azzurro da cerimonia. Al matrimonio di Dupré non sarebbe andato più.

Così erano già suonate le undici alla pendola nel corridoio, quando egli, più tranquillo, sebbene neppure lieto, si dispose a riposare, in previsione delle fatiche del domani, cosa che non gli riuscì facile. Si addormentò tardi, e si svegliò anche tardi. Il cielo era grigio, pioveva finemente, e la città, anche dal bianco balcone della sua stanza, sembrava un’altra.

Una carrozza, verso le nove, lo portò senza fretta, come forse avrebbe desiderato, a Posillipo, di cui il principe ammirò quella mattina un versante sublime e umile insieme, molto deserto. La roccia sembrava viola. Poco, da quella parte, era il verde. E in cima a uno sperone, cui si accedeva da una stretta scalinatella tra i sassi, e che la vettura raggiunse da una più comoda stradina laterale, c’erano alcune casucce d’aspetto misero e abbandonato; e una di queste, il principe la vide subito, perché isolata dalle altre, sembrava, ma non era, a un piano solo (il secondo quasi invisibile da basso), di forse cinque o sei stanze, più una specie di baracca aggiunta sul tetto. Almeno, così si presentava, perché poi, vista più da vicino, era una diroccata torretta, con uno o due pertugi muniti di inferriate rotte, e da una di queste sporgeva un bastone, puntato come un’alabarda verso il cielo triste. Sul bastone erano stesi ad asciugare alcuni straccetti (forse bandierine di bambini?).

Correva intorno alla casa uno stretto e disordinato giardino, quasi un lungo balcone di pietra, con dei susini e dei ciliegi che il vento, battendo di continuo, aveva per sempre deformato.

Era quella la casa degli sposi.

Le persiane celesti erano chiuse, come occhietti stanchi, ma il cancelletto – quasi che la casa in sé non avesse nessun valore, fosse un semplice pezzetto di carta, o una pietra, ed entrasse dunque chi voleva – era aperto.

«E come farà il mio Albert» si disse sconfortato e quasi spaventato Ingmar «a scendere ogni volta da questa cima per recarsi a Napoli, se non in carrozza? Come farà donna Elmina» (la chiamava già col titolo di donna che, a Napoli, competeva alle donne sposate, fossero esse gran dame o semplici portinaie, in segno di un doveroso riguardo). «E poi il suo studio, qui non sarebbe possibile. Dove metterebbe le statue?».

E mentre si chiedeva questo, in un preoccupato interrogativo rivolto a se stesso, era entrato nel giardinello, e scorse, al pianoterra della casa, dal vetro appannato di una finestra, una grande stanza che parve contraddire le sue preoccupazioni, e sembrava proprio adatta a diventare lo studio di uno scultore, tanto era vasta, col pavimento di terra battuta, e piena di blocchi di marmo allineati in bell’ordine e contornati da tutti gli attrezzi indispensabili per scolpire. Già, dunque, il Guantaio, o lo stesso Albert, avevano provveduto a tutto, e adesso la grande stanza era pronta per le lunghe giornate di solitario lavoro. Più in là, sulla parete di fondo, una gran tenda pareva caduta, anzi piuttosto un tendone, di quelli che riparano dalla luce estiva gli occhi delicati, e davanti a una nuda vetrata, una donna alta, girata di spalle, era intenta a raddrizzarla e sistemarla di nuovo. Suppose che fosse Ferrantina (non la di Carlo), la più anziana delle tre domestiche del Pallonetto, distinte da tale nome, ma (poi pensò) certo la vecchia donna doveva trovarsi, a quest’ora, in chiesa, tra luci, addobbi e profumi stordenti di rose; questa doveva essere un’altra domestica, forse una custode.

Il principe non stava bene. Anzi, dobbiamo supporre che avesse raggiunto, dalla sera avanti, proprio il massimo del suo stato di esaltazione malinconica; non si meravigliò quindi, sicuro com’era della sua «malattia», oppure – sperava – semplice indisposizione di uno spirito troppo vagante, quando vide la vecchia girarsi, rivolta a una figura nascosta nell’ombra di un lungo blocco di marmo; mostrava adesso una statura minore, e un viso ancor bello e gentile, mentre diceva con calma:

«Non fate così, Albert. La vostra è una ossessione. Ditemi, piuttosto, se la tenda va bene così. O volete un altro pocurillo di luce?».

Colui che era nell’ombra, e si doveva supporre malato, o impigrito, o angosciato, disteso su una dormeuse malandata, non rispose affatto, e, dopo un certo vuoto silenzio, la donna, la finestra, il tendone, tutto sparì.

«Dovrò curarmi, a Liegi!». E subito dopo: «Dovrò dire a Nodier di preoccuparsi soprattutto di questo giardino. Che sia lieto! Che ci siano rose e specialmente garofani gialli dovunque!» si disse il principe, che quasi voleva piangere, consolandosi al pensiero che, col sole, e non come ora, con la pioggia, quella povera casa sarebbe stata divina. E poi, quando ci fossero stati dei piccini, ancora meglio. Dopotutto, Nodier sarebbe rimasto per un po’ di tempo a Napoli e, dietro sua raccomandazione, avrebbe messo Albert in relazione con artisti famosi, stranieri e del Regno, di cui Napoli abbondava. E chissà che serate, in quello studio! E potevano, inoltre, gli sposi, ove la casa fosse parsa loro troppo triste e inadeguata alla felicità, trasferirsi in un grande appartamento a Chiaia, cui Ingmar aveva più volte pensato. Nodier doveva occuparsene, pensò inconsultamente, invece di perdere tempo con quella spelonca. Ma a ciò si sarebbe presto provveduto.

Gli venne in mente, a questo punto, che la cerimonia da lui tanto temuta si andava certo svolgendo, in quel frattempo, o forse era per finire; gli apparve il fasto dorato e menzognero della chiesa di Santa Lucia, vide le belle vesti delle dame e gli pervenne l’onda dei canti e l’emozione dei partecipanti, insieme al lamento sereno delle campane. Dimenticò la donna e lo studio in ombra, per ricordarsi solo del povero Guantaio, e di tutto ciò che lui, Ingmar, aveva promesso di fare per il vecchio commerciante. Meglio ripartire subito, dunque; e rientrato in patria avrebbe riesaminato ancora tutta la situazione, e organizzato i giusti rimedi con più ordine e libertà.

Risalito in carrozza, il mantice abbassato, gustò meglio, dal finestrino, la vista soave e digradante della collina, di quel suo versante che scendeva ora con colori smorti e lievi pennellate di grigio e giallo fino ai giardini violetti e alle belle case gialle della Riviera di Chiaia. E qui il vetturale tirò finalmente un sospiro e disse, carezzando col fiocco della frusta il dorso scavato del povero cavallo:

«Signorino mio,» a Neville, ingannato dall’aspetto etereo e stranamente giovanile di quell’uomo ormai sui trent’anni, e così ricco che per lui le stelle del cielo erano semplici pezzettini di stagno «signorino mio, quanto mi è dispiaciuta quella casa! Ma se vi devo dire perché, non ve lo saprei dire. Vi chiedo un poco di fuoco... posso?».

Pensando ad altro – oh, proprio pensando molto ad altro, che non era il fuoco, il fumo e la luce del sigaro – Neville lo accontentò.

Ed ecco, nel fuoco, nella luce azzurrina che accendeva il sigaro del vetturale, e mentre il vetturale e la carrozza sparivano, si vide nella pioggia sottile avanzare il volto ridente del beneamato Albert; e questi correva, e non era più certo se tra sorrisi o tra lacrime, gridando:

«Aspetta, Ingmar, mio caro! Oh, non fuggire!».

E poi, fermandosi con affanno, e levando una mano verso il principe:

«Oh, ricordami! Oh, non dimenticarmi tanto presto, mio caro!».

La pioggia, ora, cresceva, e così li divideva, crescendo, quel muro d’acqua sottile, quella grigia strada.

«Non ti dimenticherò, Albert!» così rispose – o gridò? – appassionatamente, e tuttavia senza più voce, il pallido Neville.