Desolazione nel palazzo di Liegi. «Riportateli nelle scuderie, e per sempre!» gridò il principe. Viene annunciata a Sua Altezza la visita di un certo Cardillo, da Napoli

Il principe rimase per un po’, come anche lui privo di memoria, a contemplare il triste foglietto.

Poi, posandolo sul tavolo, ne scorse uno più piccolo, che gli era sfuggito. Conteneva pochi versi. Conoscendo la debolezza del povero Notaro per le composizioni in versi (tutte per nascite, matrimoni, funerali, eventi privati e storici), non sorrise e non provò nemmeno curiosità. Ma il titolo lo colpì, e comprese che anche il povero Notaro aveva amato Elmina, sebbene, ubriaco, fosse fuggito al momento giusto, macchiandosi di ciò che si dice omissione di soccorso – ragione per la quale, forse, era morto –, e lesse quella cosuccia insignificante, non senza rispetto, mentre le lacrime rigavano il suo volto molto pallido. La riportiamo senza commento, a conclusione di questa (finora) brutta vicenda.

Titolo: Addio di donna Elmina alla sua città dorata

O città del mio dolore.

O città del mio tesoro.

Caprettino mio,

Occhietti celesti,

sono triste.

Aiutami tu,

Gesù.

(firmato: don Liborio Apparente, da Napoli, Poeta Diplomato).

Così terminava, col racconto di un uomo di penna (attualmente defunto) la strana storia del viaggio di Bellerofonte e i suoi amici a Napoli, del segreto di donna Elmina, di tante fantasticherie (passioni e grazia), tanti interventi del Cardillo, nella Napoli assediata dalle sirene e dai Francesi.

E lui che aveva creduto a tanti bugiardi (del paradiso e l’inferno napoletano), a tanti cittadini del sottosuolo (dell’anima)! Solo il Cardillo era vero, e il dolore e la fedeltà dell’orfana tedesca per H. Käppchen.

Forse neppure lui, Ingmar, era tanto vero, né rispettabile come quei due diletti spettri.

Pensò... s’incantò. Una penna era davanti a lui, sul tavolo – massiccia penna d’oro cesellato –, l’afferrò e, su un foglietto di carta velina, appena azzurrata, scrisse di getto (ricordiamo che anche lui aveva nutrito ambizioni poetiche, e quindi perdoniamolo), scrisse:

Titolo: Ingmar guarda la città di donna Elmina

Muro verde, luna bianca,

dentro l’acqua stanca stanca.

Quel sassolino

è il mio villaggio,

viaggio viaggio

che passò.

La luna sull’acqua va

verso il bordo

del pozzo.

Me ne sto,

dove sto.

Che pace la luna

che passò.

Aveva appena deposto la penna, che il maggiordomo si affacciò alla porta dello studio.

«Signore, i cavalli aspettano!».

«Riportateli nelle scuderie, e per sempre!» gridò il principe.

Il maggiordomo (allibito) scomparve. Il principe, con la testa sul tavolo, piangeva.

Un attimo dopo, la porta si riaperse.

«Signore, un certo Cardillo, da Napoli, chiede di essere ricevuto da Sua Altezza».

«Fatelo passare!» gridò ancora il principe, e fu preso da un gelo meraviglioso.

Il noto ritornello salì in quell’attimo dal giardino illuminato da una nascente luna, e suonò dappertutto:

Oò! Oò! Oò!

e poi:

Oh! Oh! Oh!

Più lieto e mite di così non c’era nulla. E il principe benedisse la luna che riappariva sulle pareti, e quella voce sovrumana che gli aveva reso tanto cara – mentre passava sul suo capo – la oscura vita. Benedisse il Cardillo che arrivava, e finalmente gli avrebbe spiegato tutto. La follia e la separazione, il dolore e questa gioia che giungeva adesso con lui: tutta calma, fredda, infinita.

Fine del «Cardillo addolorato»