La morte del «debosciato» Lucio Vero («debosciato» almeno secondo l’Historia Augusta e il suo «ispiratore» di fondo Mario Massimo), quello che gli era stato imposto di fatto come collega nell’impero e fratello adottivo dall’apparentemente mite Antonino Pio, dovette sembrare al «buon» Marco Aurelio quasi una liberazione1, anche se forse era difficile almeno in quelle circostanze rallegrarsene molto. In prospettiva però questa scomparsa deve ritenersi una perdita gravissima non tanto per Marco che, evidentemente, tutto dedito ai suoi studi filosofici, era convinto – come si è avuto modo di vedere – che la morte fosse per il genere umano un male inevitabile2, quanto soprattutto per l’impero romano nel suo complesso che, nonostante tutte le maldicenze dell’Historia Augusta, perdeva con Lucio non solo uno stratega di primo piano, come aveva dimostrato di esserlo nel corso della campagna partica grazie all’aiuto di comandanti che egli stesso aveva scelto, ma anche un diplomatico abilissimo perfino nei rapporti, dopo che egli stesso lo aveva sconfitto, con l’impero dei Parti.
Da questo punto vista, dopo il 169 e mentre i barbari incombevano ancora una volta coi loro continui tentativi di superare i confini costituiti dal Reno e dal Danubio, è molto probabile che, ormai privo dell’aiuto di Vero, lo stesso Marco al contrario dovesse, se non rimpiangerlo, almeno in qualche modo sentirne la mancanza per le sue indubbie qualità militari, quelle stesse qualità di cui Marco, tutto dedito alla sua filosofia, anche secondo uno storico come Cassio Dione, che certamente non gli era ostile, era, diversamente da Vero, assolutamente privo3.
Nel frattempo, subito dopo la morte di Lucio Vero, Marco Aurelio, sebbene sempre rappresentato dall’Historia Augusta (ancora una volta dal senatore e biografo Mario Massimo) come alieno dall’indulgere a ogni proprio interesse personale, questa volta però non perse tempo, tanto da non far rispettare a sua figlia Lucilla neppure il «tempo del lutto» (tempus lugendi), quel «tempo del lutto» che a Roma era non solo d’obbligo ma anche doveroso per ogni vedova. Infatti si affrettò a dare in sposa appunto la vedova di Vero (la figlia Lucilla) al suo anziano amico, ma ancora valente comandante, Claudio Pompeiano. Sembra che la giovane Lucilla non fosse molto contenta di quel matrimonio impostole dal padre (forse anche con un qualche rimpianto per Lucio Vero, che spesso l’aveva tradita, ma era comunque suo coetaneo). Non fu contenta di quel matrimonio neppure la madre Faustina che, in quanto «dote» dell’impero di suo marito, poteva all’evenienza, anzi molto spesso, non condividerne le scelte. L’Augusta Faustina, in effetti, essa stessa figlia e moglie di un Augusto, doveva considerare quel matrimonio una vera e propria mesalliance (per utilizzare il termine francese che indica le nozze tra due persone di rango assolutamente diverso): da un lato, appunto, sua figlia, l’Augusta Lucilla, e dall’altro Pompeiano, semplice figlio di un cavaliere romano e dunque sicuramente anche a suo avviso «non abbastanza nobile» (in questo era d’accordo anche l’Historia Augusta) perché il marito dovesse costringere la figlia, per interessi esclusivamente personali, a quelle nozze in qualche modo tanto affrettate quanto «forzose»4.
Tuttavia, poco dopo, la vita dello stesso Marco Aurelio e di tutta la casa imperiale (la domus Augusta) fu gravemente contristata da un lutto gravissimo: la morte assolutamente prematura di Annio Vero Cesare, il figlio minore dell’imperatore che aveva appena sette anni; a Marco ormai rimanevano solo Commodo, come unico figlio maschio, e quattro figlie. Tuttavia, come un tempo Tiberio alla morte del suo unico figlio Druso Cesare, anche lo stoico Marco pose un freno al proprio lutto, soprattutto per non privare i Romani degli spettacoli grandiosi che si svolgevano intorno alla metà di settembre, i ludi Magni (gli spettacoli in onore di Giove Ottimo Massimo). Allora Marco, almeno secondo l’Historia Augusta, si sarebbe comportato secondo le attitudini che gli erano consuete:
Qualche giorno prima di partire per la campagna [militare], Marco si riposava a Preneste, quando perse il figlio di sette anni, Annio Cesare, mentre gli toglievano un tumore sotto l’orecchio. Mantenendo il lutto per non più di cinque giorni, consolati i medici, tornò agli affari pubblici. E, poiché erano in corso i giochi in onore di Giove Ottimo Massimo, non volle che fossero interrotti dal lutto pubblico e decise che al figlio fossero dedicate alcune statue, che una sua immagine in oro fosse portata durante le processioni nel circo e che il suo nome fosse inserito nel canto dei Salii5.
Inserendo il nome del figlio morto prematuramente nell’inno intonato dai Salii, non è certamente improbabile che il colto Marco Aurelio volesse «imitare» in modo esplicito esempi di epoca augusteo-tiberiana, quando alle loro scomparse, anch’esse sempre premature, accanto al nome di Augusto evidentemente ancora in vita, furono inseriti nell’inno dei Salii prima quelli di Gaio e Lucio Cesari (filii adottivi del principe, di fatto figli naturali di Agrippa e di Giulia Maggiore), poi quello di Germanico, figlio di Druso Maggiore e anch’egli figlio adottivo di Tiberio, e infine molto probabilmente, anzi quasi con certezza, quello di Druso Cesare, l’unico figlio naturale di Tiberio, quello che gli era nato da Vipsania, la figlia di Agrippa6.
Nonostante i massicci nuovi arruolamenti approntati da Marco Aurelio a difesa delle province toccate dal Reno e dal Danubio, nel 170 i nemici più «invadenti» furono questa volta i Costoboci, una tribù che era stanziata evidentemente oltre il Danubio. Costoro, dopo aver fatto irruzione nella Mesia Inferiore e dopo aver attraversato la Macedonia, giunsero fino in Grecia. Qui, dopo aver saccheggiato il ricchissimo santuario di Eleusi, si attestarono a Elatea. In questa circostanza si assistette – per quanti ancora credono che i Greci di quei tempi fossero ormai impigriti e incapaci di difendersi con le sole proprie forze dopo lunghi secoli di dominio romano – a un episodio estremamente significativo. Gli abitanti di Tespie arruolarono a loro spese volontari, tra i quali evidentemente dovettero esserci anche Greci, e con essi formarono truppe per recare aiuto al procuratore Grato Giuliano e per respingere con successo al di là del Danubio quegli stessi barbari che avevano osato invadere addirittura il sacro territorio dell’Ellade7.
Le attitudini di Quadi e Marcomanni avevano costituito da sempre per i Romani allo stesso tempo, e quasi paradossalmente, una fortuna e una disgrazia. Di fatto, i barbari, asserragliati nei propri recessi montuosi e privi di una vera e propria organizzazione militare, si limitavano a compiere scorrerie continue ma in tutta fretta (per prevenire evidentemente gli inevitabili controattacchi romani) oltre il Reno e il Danubio, soprattutto allo scopo di procurarsi viveri e bottino. Per i Romani, che erano muniti di una organizzazione militare ferrea, non era assolutamente difficile respingerli al di là dei due fiumi. Quello che però appariva a tutti gli effetti impossibile era l’eventualità che queste scorrerie non continuassero a ripetersi di nuovo, come se si trattasse di una sorta di gioco all’infinito8.
Nonostante i nuovi e massicci arruolamenti che aveva predisposto in prospettiva di quella guerra o, piuttosto, della ripresa di quella interminabile campagna, Marco Aurelio dovette comprendere bene questa situazione di eterna e latente conflittualità se a partire dal 171 dette inizio a un’intensa attività diplomatica che viene puntualmente riportata da un escerto di Cassio Dione: «Marco Antonino rimase in Pannonia per dare udienza agli ambasciatori dei barbari. Alcuni di loro, guidati da un ragazzetto di dodici anni, promisero alleanza; essi ricevettero un dono in denaro e riuscirono a tenere a freno Tarbo, un comandante dei dintorni che era venuto in Dacia a chiedere denaro e a minacciare di riprendere la guerra se non lo avesse ricevuto. Altri, come i Quadi, chiedevano la pace che fu loro garantita sia nella speranza che essi potessero distaccarsi dai Marcomanni sia perché gli davano molti cavalli e promettevano di consegnare tutti i disertori e i prigionieri [...]. Tuttavia Marco gli negò il diritto di tenere mercati: lo spingeva a questo da un lato il timore che gli Iazigi e i Marcomanni venissero a conoscenza delle postazioni romane, dall’altro che potessero approvvigionarsi», in previsione – nel pensiero di Marco – di nuovi e non impossibili attacchi oltre il Danubio: una previsione non solo non infondata ma anzi assolutamente prevedibile9.
Tuttavia lo stesso Marco Aurelio aveva evidentemente i suoi buoni motivi quando non permise ai Quadi di tenere mercato temendo che «gli Iagizi e i Marcomanni [...] venissero a conoscenza delle postazioni romane». Di fatto, la pace con i Quadi sembrava appena conclusa, quando essi in quello stesso anno strinsero di nuovo alleanza con i Marcomanni, in altri termini con i loro alleati di sempre. I barbari, che si erano stanziati a Ravenna, quando giunse questa notizia si ribellarono subito e, sempre secondo l’escerto di Cassio Dione, «Marco per questo motivo non introdusse più barbari in Italia, ma espulse addirittura quelli che vi si erano stanziati in precedenza»10. La «riscossa» romana contro Quadi e Marcomanni, di nuovo alleati, in quelle condizioni non si fece attendere a lungo. Nel 171 i nemici, forse in questo caso solo un raggruppamento di Quadi, furono sconfitti sulla riva destra del Danubio: così Marco Aurelio poté ricevere la sesta acclamazione imperatoria e il titolo di Germanicus11.
Nel 172 si passò addirittura da parte romana al contrattacco in territorio nemico, nonostante i gravissimi pericoli che una simile azione comportava dal momento che lo stesso Marco, per metterla in atto, doveva far addentrare le sue truppe in territori fino ad allora sconosciuti. Per ricostruire questa nuova campagna è necessario seguire non solo i pochi cenni dell’Historia Augusta e gli escerti di Cassio Dione, ma anche i rilievi della colonna Antonina. Qui è rappresentata la scena dell’adlocutio a Roma, che Marco pronunciò evidentemente in presenza del popolo prima di lasciare la città; in seguito su un’altra scena viene rappresentato, sotto specie divina, il Danubio che i Romani attaversano grazie a un ponte di barche. Durante questa campagna, nel corso di una sfibrante battaglia contro i Quadi, avvenne il famosissimo «miracolo della pioggia», il miracolo che in quello scontro avrebbe dato la vittoria ai Romani. Tuttavia pagani e Cristiani erano evidentemente in contrasto sul dio che lo avrebbe provocato, dal momento che alla fonte pagana costituita da Cassio Dione si contrapponeva in questo caso quella cristiana presente nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. Entrambe sono meritevoli di essere riportate per esteso:
Toccò in sorte anche una grande guerra contro il popolo chiamato dei Quadi e fu la sua grande fortuna [di Marco Aurelio] a ottenere una vittoria inaspettata o, piuttosto, essa gli fu data in dono da una divinità. Poiché, quando i Romani correvano pericolo nel corso della battaglia, fu il potere divino a salvarli nella maniera più inaspettata. I Quadi li avevano circondati in località favorevoli al loro scopo e i Romani combattevano valorosamente con gli scudi racchiusi l’uno contro l’altro; allora i barbari smisero di combattere: aspettavano di farli prigionieri facilmente a causa del caldo e della sete. Così posero guardie tutto all’intorno e quindi li circondarono per impedire loro di procurarsi acqua da qualche parte. I barbari di fatto erano numericamente molto superiori. I Romani di conseguenza erano in una situazione terribile per la stanchezza, le ferite, per il calore del sole e la fame, e non potevano né combattere né ritirarsi, ma rimanevano in linea e ai propri posti scottati dal sole, quando improvvisamente si addensarono molte nubi e una potente pioggia cadde su di loro, non senza un intervento divino. Si racconta infatti che Arnouphis, un mago egizio, che era amico di Marco Aurelio, invocasse tra le altre divinità, anche Hermes, il dio dell’aria, e che con questi mezzi fece cadere la pioggia (Cassio Dione, LXXII 8).
Ecco invece la versione che ne dava lo storico cristiano Eusebio di Cesarea:
Si racconta che il fratello del suddetto, Marco Aurelio Cesare, mentre si preparava alla battaglia contro Germani e Sarmati, si trovò in difficoltà per la sete che attanagliava le sue truppe. Allora i soldati della cosiddetta legione Melitene, con la fede che li ha sostenuti da allora fino a oggi contro il nemico, piegarono le ginocchia a terra, come noi siamo soliti fare pregando, e rivolsero suppliche a Dio. E questo spettacolo apparve sorprendente a tutti i nemici, ma si racconta che immediatamente li colse un altro fatto, ancora più sorprendente: poiché un temporale, scatenatosi all’improvviso, mise in fuga e disperse i nemici, mentre sulle truppe che avevano invocato la divinità cadde un temporale che gli arrecò ristoro, quando ormai stavano per morire di sete. L’episodio è riportato anche da autori lontani dalla nostra dottrina, che narrano l’epoca degli imperatori di cui si è parlato, ed è conosciuto anche ai nostri. Negli storici pagani però, dal momento che sono estranei alla fede, il miracolo è riportato senza che si riconosca che esso avvenne grazie alle nostre preghiere; presso i nostri invece, poiché essi amano la verità, il fatto è stato riportato in modo puro e semplice. Tra questi ultimi c’è anche Apollinare, che racconta come la legione che compì il miracolo abbia ricevuto dall’imperatore un nome corrispondente all’avvenimento e fu chiamata in latino «Fulminatrice». Sicuro testimone di questi fatti è anche Tertulliano che, in una sua apologia indirizzata in latino al senato e da noi già riportata, conferma il racconto con una prova più valida e convincente. Scrive infatti che ai suoi tempi esistevano ancora lettere di Marco, imperatore pieno di senno, in cui egli testimonia personalmente che il suo esercito, mentre stava per morire di sete in Germania, fu salvato dalle preghiere dei Cristiani (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica V 1-3).
Di questo episodio, anche per noi evidentemente molto «miracoloso», si è discusso quasi tutto, a partire dall’anno in cui avvenne. Eusebio parla in modo esplicito, a proposito della sua datazione, di «Marco Aurelio Cesare» e di fatto, nonostante ogni possibile discussione, viene comunque datato o nel 172 oppure nel 173. Va anche messo in rilievo come il Chronicon di Eusebio datasse l’episodio al 173, con l’aggiunta inoltre che vi avrebbe presenziato non l’imperatore, ma il suo legato Pertinace12. Tuttavia anche l’escerto di Xifilino, da Cassio Dione, benché esplicitamente non parli della presenza dell’imperatore, la presuppone, mentre Marco Aurelio – e una simile circostanza non tarda ad apparire la prova definitiva – al momento del «miracolo» è rappresentato su una scena della colonna Antonina13.
Altrettanto discussa è la datazione dell’episodio. Se – come si è già visto – Eusebio nel suo Chronicon lo collocava al 173, tuttavia la data più accreditata è quella che lo fa risalire al 172, sebbene Xifilino nell’escerto da Cassio Dione lo collochi al 174, aggiungendo inoltre una sua critica personale allo storico che riassumeva14. Si è anche molto discusso sul personaggio che, invocando la sua divinità, avrebbe permesso che il miracolo si verificasse: secondo Cassio Dione, il mago egizio Arnouphis, amico di Marco Aurelio, che avrebbe invocato Hermes Haerios; secondo gli Oracula Chaldaea, lo storico cristiano Sozomeno e la Suda, Giuliano il Teurgo, che sarebbe vissuto nell’età di Marco Aurelio; secondo Eusebio, che cita a sua testimonianza Apollinare di Sardi e Tertulliano, naturalmente il Dio dei Cristiani15.
Comunque la dolorosissima perdita del figlioletto Annio Vero non aveva ritardato – e di fatto non poteva ritardare – la partenza di Marco da Roma per raggiungere il fronte danubiano, dove la situazione doveva essere a tutti gli effetti ancora una volta gravissima. Era accompagnato come al solito dal suo seguito (il comitatus): Pompeiano (della cui partenza immediata Lucilla molto probabilmente non dovette rammaricarsi troppo), Ponzio Leliano e Dasumio Tullio (che conoscevano bene quei territori poiché in passato erano stati entrambi governatori della Pannonia Superiore), infine Quinto Sosio Prisco e Giulio Vero, la cui famiglia era originaria della stessa Pannonia16.
Di fronte al gravissimo pericolo costituito da una guerra contro Quadi e Marcomanni, poiché le truppe dovevano anche essere state decimate dalla peste, lo stesso Marco si vide costretto a leve straordinarie, arruolando addirittura gladiatori e schiavi. Di fatto, sempre secondo l’Historia Augusta, «il persistere della peste lo induce a ripristinare con estremo scrupolo il culto degli dei, arruolando, come si era fatto nel corso della guerra punica, schiavi che chiamò ‘Volontari’, per imitare il nome di volones. Armò allo stesso modo anche gladiatori cui dette il nome di ‘Obbedienti’. Prese addirittura come soldati briganti della Dalmazia e della Dardania. Mise in armi anche i corpi di guardia alle frontiere (diogmitae). Comperò anche truppe ausiliarie germaniche per combattere contro i Germani»17.
È sconosciuta purtroppo la località esatta dove Marco Aurelio pose il suo quartier generale a partire almeno dal 170. Anthony Birley (e sono entrambe ipotesi estremamente probabili) ha suggerito Sirmium, sul fiume Drava, o Singidunum (l’attuale Belgrado), che sorgeva là dove confluivano appunto la Drava e il Danubio. La campagna romana del 170 consistette di fatto in una massiccia offensiva al di là del Danubio, che in effetti dovette essere ripetuta nel 171, quando Quadi e Marcomanni si allearono di nuovo contro i Romani. Essi tuttavia furono immediatamente respinti, tanto che Marco ricevette allora la sua sesta acclamazione imperatoria insieme al titolo di Germanicus18.
Tuttavia la guerra, benché Marco fosse stato acclamato dalle sue truppe con il titolo di Germanicus19, non poteva certo dirsi ancora finita e il pericolo proveniva, ancora una volta, dai Quadi. Questi ultimi avevano detronizzato il loro legittimo re Furzio, filoromano, e lo avevano sostituito con l’antiromano Ariogeso, che Marco Aurelio però non riconobbe, arrivando al punto – egli sempre rappresentato come tanto «mite» e «clemente» – di mettere una taglia sulla sua testa per chi lo avesse catturato vivo o morto. Quando però l’usurpatore fu fatto finalmente prigioniero, Marco dette prova ancora di una vera e propria clemenza, limitandosi a mandare in esilio Ariogeso ad Alessandria, in Egitto, dove ormai non poteva essere che assolutamente innocuo, in quanto di fatto lontanissimo dalla sua tribù20.
Nel 173 riprese la guerra contro Quadi e Marcomanni, di nuovo alleati. Marco passò allora il suo terzo anno a Carnuntum, sul fronte, per controllare meglio la situazione, poiché questa volta ad attaccare erano anche gli Iazigi. Quella di Marco contro i Quadi, i Marcomanni e gli Iazigi fu una campagna, benché vittoriosa, destinata a concludersi solo nella primavera del 175. Ancora una volta le nostre informazioni derivano da un escerto di Cassio Dione:
Gli Iazigi furono allora sconfitti dai Romani in una battaglia terrestre e poi essi oltrepassarono il fiume [Danubio]. Non dico che ci fu una battaglia navale, ma che i Romani li inseguirono ed essi fuggirono sull’Istro ghiacciato e diedero battaglia su terra. Gli Iazigi, accortisi che erano inseguiti, attesero l’attacco dei loro nemici, sperando di superarli facilmente [...]. Di conseguenza, alcuni dei barbari cozzarono direttamente contro di loro, mentre altri cavalcavano per attaccarli ai fianchi [...]. I Romani, osservando tutto questo, non erano allarmati, ma formarono un corpo compatto mentre fronteggiavano i nemici, e molti di loro innalzarono i loro scudi e rimasero fermi sopra di loro, in modo tale che non potevano muoversi troppo a lungo: e così ricevettero l’assalto del nemico. Alcuni persero le loro redini, altri i loro scudi e i giavellotti [...]. Per questo i barbari, che non erano abituati a uno scontro di quel genere e avevano un equipaggiamento più leggero, furono incapaci di resistere, in modo tale che solo pochi, da tanti che erano, riuscirono a fuggire21.
Tuttavia lo stesso Marco dovette finalmente capire che con gli Iazigi era necessario concludere una pace, i cui termini durissimi ci sono descritti, come al solito, in un escerto di Cassio Dione:
Lo stesso Zantico [il re degli Iazigi] venne in veste di supplice. Prima essi avevano imprigionato Banadaspo, il loro secondo re, per aprire trattative con Marco. Ora però tutti gli uomini più influenti vennero con Zantico e accettarono la pace negli stessi termini in cui essa era stata accordata a Quadi e Marcomanni, a parte il fatto [che veniva loro imposto] di stanziarsi due volte più lontano dal Danubio. Di fatto, l’imperatore si era vantato di poterli sterminare completamente tutti. Era chiaro però che essi allora erano ancora forti e avevano causato gravi danni ai Romani dalla circostanza che resero centomila prigionieri ancora nelle loro mani, dopo che molti di loro erano stati venduti, erano morti o erano fuggiti. E anche dal fatto che essi allora provvidero, come contributo per l’alleanza, ottomila cavalieri, dei quali Marco ne mandò in Britannia cinquemilacinquecento22.
Ormai sembrava, almeno a Marco Aurelio, che la pace con i barbari, che a più riprese e tanto spesso avevano cercato di oltrepassare il Reno e il Danubio, potesse dirsi definitivamente conclusa. Tuttavia, per l’imperatore-filosofo, era solo una pia illusione, come avrebbero dimostrato, e come si avrà modo di vedere in seguito, le guerre continue che dovevano tenerlo occupato fino alla fine della sua vita.
1 Vedi rispettivamente H.A., Marc. 16,3-4: Post Veri obitum Marcus Antoninus solus rem publicam tenuit, multo melior et feracior ad virtutes, quippe qui nullis Veri iam impediretur aut simulatis callidae severitatis, qua ille ingenio vitio laborabat, erroribus aut his, quae praecipue displicebant Marco Antonino iam inde a primo aetatis suae tempore, vel institutis mentis pravae vel moribus («Dopo la morte di Lucio Vero, Marco Antonino governò da solo lo Stato in modo molto migliore e più rigoglioso per le sue virtù, poiché ormai non glielo impedivano più i vizi di Vero, che gli facevano fingere ipocritamente – un difetto che gli era congenito – austerità, né quanto ripugnava a Marco fin dalla prima giovinezza: le abitudini e i costumi di un animo depravato») e 20,2-3: Dein cum gratias ageret senatui, quod fratrem consecrasset, occulte ostendit omnia bellica consilia sua fuisse, quibus superati sunt Parthi. Addidit praeterea quaedam, quibus ostendit nunc demum se quasi a principio acturum esse rem publicam amoto eo, qui remissior videbatur («Quindi Marco, ringraziando il senato per aver decretato l’apoteosi al fratello, lasciò capire di nascosto che tutti i piani, grazie ai quali i Parti erano stati sconfitti, si dovevano a lui. Aggiunse inoltre qualche parola con cui lasciava intendere che ormai avrebbe potuto governare lo Stato come avrebbe voluto fin dall’inizio, una volta che si era tolto di mezzo colui che si era dimostrato troppo indolente»). Si osservi almeno la tendenziosità che l’Historia Augusta attribuiva a Marco quando gli avrebbe fatto sostenere, addirittura in senato, «che tutti i piani, grazie ai quali i Parti erano stati sconfitti, si dovevano a lui». La circostanza è evidentemente impossibile dal momento che lo stesso Marco, rimasto a Roma, non poteva essere a conoscenza – com’è chiaro – né dei piani adottati da Vero in quella campagna né degli incarichi da quest’ultimo affidati ai suoi vari comandanti.
2 Per la morte che aleggia sovrana nei Pensieri di Marco vedi supra, p. 17.
3 Per il giudizio di Cassio Dione rispettivamente su Marco e Lucio vedi supra, pp. 44-45 con nota 15.
4 Per il matrimonio di Lucilla con Pompeiano vedi H.A., Marc. 20,6-7: Proficiscens ad bellum Germanicum filiam suam non decurso luctus tempore grandaevo equitis Romani filio Claudio Pompeiano dedit genere Antiochensi nec satis nobili (quem postea bis consulem fecit), cum filia eius Augusta esset et Augustae filia. Sed has nuptias et Faustina et ipsa, quae dabatur, invitae habuerunt («Quando stava partendo per la guerra contro i Germani e non era ancora trascorso il tempo del lutto, diede sua figlia in sposa a un uomo già vecchio, figlio di un cavaliere romano, Claudio Pompeiano, originario di Antiochia e non abbastanza nobile (che in seguito fece due volte console), mentre lei [Lucilla] era una Augusta e figlia di un’Augusta. Di fatto questo matrimonio fu accolto molto male tanto da Faustina che dalla diretta interessata»). Sui consolati di Pompeiano, uno suffetto nel 166 o 167 e il secondo ordinario nel 173, dunque dopo il matrimonio con Lucilla, H.-G. Pflaum, Les gendres de Marc-Aurèle, in «JS», 1961, pp. 31-34; H. Hoffmann, Die Senatoren aus dem östlichen Teil des Imperium Romanum, Göttingen 1979, pp. 181-82, nota 103. Per il tempo del lutto delle donne, che a Roma doveva essere rispettato con estremo rigore, soprattutto M. Humbert, Le remariage à Rome, Milano 1972, pp. 113 sgg.; cfr. quindi, per esempio, J. García Sanchez, Algunas consideraciones sobre el «tempus lugendi», in «RIDA», 23, 1976, pp. 141 sgg.
5 Per la morte di Annio Vero H.A., Marc. 21,3-5: Sub ipsis profectionis diebus in secessu Praenestino agens filium, nomine Verum Caesarem, execto sub aure tubere septennem amisit. Quem non plus quinque diebus luxit consolatusque etiam medicos <se> actibus publicis reddidit. Et quia ludi Iovis Optimi Maximi erant, interpellari eos publico luctu noluit iussitque, ut statuae tantum modo filio mortuo decernerentur, et imago aurea circensibus per pompam ferendam, et ut saliari carmini nomen eius insereretur. Quanto al lutto pubblico mi sia lecito il rimando ad A. Fraschetti, Roma e il principe, nuova ed., Roma-Bari 2005, pp. 108 sgg. Sui ludi Romani, celebrati a Roma ancora in epoca tardoantica come documenta il Cronografo del 354, vedi Id., La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari 2004, pp. 96 sgg. La statua di Annio Cesare fatta sfilare durante la processione nel circo si confronta bene con l’imago di Germanico posta sempre nel circo, naturalmente mentre si svolgevano spettacoli o combattimenti di gladiatori; vedi a questo riguardo soprattutto S. Weinstock, The Posthumous Honours of Germanicus, in Mélanges d’archéologie et d’histoire offerts à A. Piganiol, II, Paris 1966, pp. 891 sgg.
6 Per l’inserimento nel carme dei Salii dei nomi prima di Gaio e Lucio Cesari, quindi di Germanico, vedi Tabula Hebana l. 2, per la quale è ancora doveroso il rinvio a V. Ehrenberg-A.H.M. Jones (a cura di), Documents Illustrating the Reigns of Augustus and Tiberius, Oxford 19552, p. 76, nota 94a, dal momento che M.H. Crawford (a cura di), Roman Statutes, I, London 1996, singolarmente ne riporta solo la bibliografia relativa, ma non il testo, fondandosi per quello solo sulla successiva Tabula Siarensis. Su questo tipo di onori cfr. J. Scheid, Les décrets de Pise et le culte des morts, in A. Fraschetti (a cura di), La commemorazione di Germanico nella documentazione epigrafica: «Tabula Hebana» e «Tabula Siarensis», Roma 2000, pp. 129 sgg.; cfr. Id., Die Parentalien für die verstorbenen Caesaren als Modell des römischen Totenkults, in «Klio», 75, 1993, pp. 118 sgg. È evidentemente molto probabile, anzi quasi sicuro, che un onore analogo fosse riservato alla sua morte anche a Druso Cesare (l’unico figlio naturale di Tiberio, natogli dal suo matrimonio con Vipsania), benché esso non compaia nella Tabula di Ilici (rinvenuta in Spagna), peraltro molto mutila: su di essa vedi ancora una volta V. Ehrenberg-A.H.M. Jones (a cura di), Documents Illustrating the Reigns of Augustus and Tiberius cit., pp. 79-80, nota 94b; M.H. Crawford (a cura di), Roman Statutes, I cit., p. 545.
7 Vedi Pausania X 34,4: «L’incursione dei ladroni Costoboci ai miei tempi fino in Grecia giunse fino a Elatea; qui uno, di nome Mnesibulo, con quanti lo seguivano tese un agguato e, uccisi molti barbari, cadde in battaglia»; cfr. Ammiano Marcellino, XXXI 3,15, che per un periodo evidentemente molto più tardo definisce gli invasori «Sciti». Si discute se i Costoboci invadessero la Grecia per via di mare (eventualità cui la documentazione in nostro possesso però non fa cenno): vedi comunque H.A. Ormerod, Piracy in the Ancient World, Liverpool 1924, p. 259 e C.G. Starr, The Roman Imperial Navy, Ithaca-New York 1941, p. 189. Per l’arruolamento di volontari A. Plassart, Une levée de volontaires thespiens sous Marc Aurèle, in Mélanges G. Glotz, II, Paris 1932, pp. 731 sgg.; C.P. Jones, The Levy at Thespiae under Marcus Aurelius, in «GRBS», 12, 1971, pp. 45 sgg.; Carrata Thomes, 1953, pp. 106-7; Birley, 1966, p. 225. Vedi inoltre S. Follet, Athènes aux IIe et IIIe siècles, Paris 1976, p. 138, dove sono trascritte tre iscrizioni metriche in onore dello ierofante Giulio Eraclide, che aveva messo in salvo il tesoro di Eleusi nel corso di «una guerra atroce».
8 Sulle attitudini delle tribù barbariche al di là del Reno e del Danubio vedi già E. Karsten, Die Germanen, Berlin 1928, pp. 157 sgg.; F. Miltner, Um germanische Einheit, in «Die Antike», 17, 1942, pp. 57 sgg.; quindi A. Schenk von Stauffenberg, Das Imperium und die Völkerwanderung, München 1947, pp. 7 sgg.; F. Hampl, Kaiser Mark Aurel und die Völker jenseits der Donaugrenze. Eine quellenkritische Studie, in Festschrift für R. Heuberger, Innsbruck 1969, pp. 33 sgg. Per le relazioni commerciali (relazioni che, almeno in tempo di pace, evidentemente esistevano) tra i due fiumi vedi H. Heitz, Les relations commerciales entre Rhin et Danube aux IIe et IIIe siècles, in «Bull. Fac. Lettr. Strasbourg», 29, 1950-51, pp. 176 sgg.
9 Cassio Dione, LXXII 11,1-4. Per i trattati allora stabiliti J. Klose, Roms Klientel-Randstaaten am Rhein und an der Donau, Breslau 1934, pp. 17 sgg.
10 Cassio Dione, LXII 11,5.
11 Sul conferimento a Marco del titolo di Germanicus vedi Carrata Thomes, 1953, p. 112, e Birley, 1966, p. 234. Per il conferimento poco più tardi di quello stesso titolo anche a Commodo vedi H.A., Comm. 11,14: Appellatus Germanicus idibus Herculeis Maximo et Orfito consulibus («Fu chiamato Germanico il giorno delle idi di Ercole, sotto il consolato di Massimo e Orfito»), con maggiore esattezza dunque il 15 ottobre 172. Per il titolo di Germanico cfr., per esempio, CIL 6878 = ILS 373 (da Alessandria d’Egitto): Imp(eratori) Caesari / M(arco) Aur(elio) Antonino / Aug(usto), Armen(ico), Parth(ico), / German(ico) Sarmat(hico) maxim(o), / trib(unicia) potest(ate) XXX / imp(eratori) VIII, co(n)s(uli) III, p(atri) p(atriae), / trib(unus) leg(ionis) Traianae Fortis (grazie all’indicazione della potestà tribunicia l’epigrafe, dedicata al suo Augusto da un anonimo tribuno di legione, può datarsi con sicurezza al dicembre del 175-6, dunque dopo le vittorie di Marco contro Quadi e Marcomanni).
12 Eusebio, Chronicon, p. 206 Helm: Pertinaci et exercitui, qui cum eo in Quadorum regione pugnabat, siti oppressis, pluvia divinitus missa est, cum e contrario Germanos et Sarmatas fulmina persequerentur et plurimos eos interficerent. Extant litterae Marci Aurelii gravissimi imperatoris, quibus illam Germanicam sitim Christianorum forte militum precationibus impetrato imbri discussam contexterunt («A Pertinace e all’esercito che era con lui nel territorio dei Quadi, oppressi dalla sete, fu mandata una pioggia per grazia divina, mentre al contrario i fulmini colpirono Germani e Sarmati e ne uccisero molti. Sono pervenute lettere di Marco Aurelio, imperatore autorevolissimo, con le quali si testimonia che quella sete in Germania allora si abbatté grazie alla pioggia chiesta con preghiere dai soldati cristiani»). Sui «giochetti onomastici» messi in atto dallo stesso Eusebio per designare da un lato il «cattivo» Lucio Vero e dall’altro il «buon» Marco Aurelio vedi infra, par. 7 del cap. VII.
13 Sulla critica di Xifilino a Cassio Dione vedi infra, nota seguente. Sulla datazione della «pioggia miracolosa» al 172 vedi soprattutto J. Guey, La date de la «Pluie Miraculeuse» et la colonne Aurélienne, in «MEFR», 60, 1948, pp. 61 sgg. e 194 sgg.; Id., Encore la «pluie miraculeuse», mage et dieu, in «RPh», 22, 1948, pp. 16 sgg. Per una datazione, molto improbabile, al 174, G. Barta, Legende und Wirklichkeit – Das Regenwunder des Marcus Aurelius, in «ACD», 4, 1968, pp. 85 sgg., poi in R. Klein (a cura di), Mark Aurel cit., pp. 347 sgg. Per le interpolazioni a questo specifico proposito di Xifilino in Cassio Dione vedi A. von Domaszewski, Das Regenwunder des Marc-Aurelsäule, in «RhM», n.f. 49, 1894, p. 114; E. Peterson, Das Wunder an der Columna M. Aurelii, in «MDAI(R)», 9, 1894, p. 80; inoltre G. Posener, À propos de la pluie miraculeuse, in «RPh», 25, 1951, pp. 163 sgg.; M. Sordi, Le monete di Marco Aurelio con Mercurio e la «pioggia miracolosa», in «AIIN», 5-6, 1958-59, pp. 88 sgg.; W. Jobt, 11 Juni 172 n. Chr. Der Tag des Blitz- und Regenwunder im Quadenland, in «SAWW», 335, 1978, pp. 12 sgg.; H.Z. Rubin, Weather Miracles under Marcus Aurelius, in «Athenaeum», 57, 1979, pp. 362 sgg.; G. Fowden, Pagan Versions of the Rain Miracle of A.D. 172, in «Historia», 36, 1987, pp. 83 sgg.; M.M. Sage, Eusebius and the Rain Miracle: Some Observations, ivi, pp. 96 sgg.; R. Klein, Das Regenwunder im Quadenland. «Vita» des Marc Aurel 24,1, im Vergleich mit heidnischen und christlichen Quellen, in BHAC 1986/1989, Bonn 1991, pp. 117 sgg.; quindi vedi soprattutto in J. Scheid-V. Huet (a cura di), Autour de la colonne Aurélienne cit., rispettivamente T. Hölscher, Die Säule des Marcus Aurelius: narrative Struktur und ideologische Botschaft, pp. 89 sgg. (con ulteriore bibliografia ivi citata) e J. Scheid, Sujets religieux et gestes rituelles sur la colonne Aurélienne. Questions sur la religion à l’époque de Marc Aurèle, pp. 227 sgg., in particolare sulla scena della «pioggia miracolosa», pp. 232 sgg. (con ulteriore bibliografia ivi citata, tra cui S. Maffei, La «Felicitas imperatoris» e il dominio degli elementi, in «SCO», 40, 1990, pp. 327 sgg.).
14 Cassio Dione, LXXII 8, con le critiche al pagano Cassio Dione da parte del cristiano Xifilino, ivi, 9: «A proposito di quanto Dione narra su questi avvenimenti, egli sembra essere in errore, sia di propria volontà sia involontariamente; tuttavia, da parte mia, sono propenso a credere che il suo errore sia volontario. E in effetti deve essere così, poiché egli non ignorava la legione di soldati che deve il suo nome peculiare di ‘Fulminatrice’ (la ricorda di fatto nell’elenco delle altre legioni): nome che le fu dato per nessun altro motivo (e in effetti nessun altro lo riporta) se non per l’avvenimento che accadde proprio nel corso di quella guerra». Per la scena del «miracolo della pioggia» sulla colonna Antonina vedi la riproduzione in W. Zwikker, Studien zur Markussäule cit., tav. XVI.
15 Vedi rispettivamente Cassio Dione, LXXII 14,4 (per Arnouphis); J. Bidez, Les écoles chaldéennes sous Alexandre et les Seleucides, in «AJPh», 3, 1935, p. 88, nota 1; H. Lewy, Chaldaean Oracles and Theurgy: Misticism, Magic and Platonism in the Roman Empire, nuova ed. a cura di M. Tardieu, Paris 19782, pp. 3-4; Sozomeno, Storia ecclesiastica I 18,7; Suda I 434 Adler (per Giuliano il Teurgo); Eusebio, Storia ecclesiastica V 1-3, con le testimonianze di Apollinare e Tertulliano (evidentemente per il Dio dei Cristiani).
16 Per gli «amici» (comites) e accompagnatori di Marco nel 170 basti il rinvio a Birley, 1966, p. 222.
17 H.A., Marc. 21,6-7: Instante sane adhuc pestilentia et deorum cultum diligentissime restituit et servos, quem ad modum bello Punico factum fuerat, ad militiam paravit, quos voluntarios exemplo volonum appellavit. Armavit etiam gladiatores, quos obsequentes appellavit. Latrones etiam Dalmatiae atque Dardaniae milites fecit. Armavit et diogmitas. Emit et Germanorum auxilia contra Germanos. Con volones l’Historia Augusta fa evidente allusione agli schiavi arruolati dai Romani, anche allora in una situazione di estrema emergenza, dopo la battaglia di Canne; vedi Livio XXII 57,11: Et formam novi dilectus inopia liberorum capitum et necessitas dedit: octo milia iuvenum validorum ex servitiis prius sciscitantes singulos, vellentne militare, empta publice armaverunt («E la leva ebbe un aspetto nuovo per la scarsità di uomini liberi e la necessità: furono comperati e armati a pubbliche spese ottomila giovani schiavi in ottima salute, dopo aver chiesto a ciascuno se volessero combattere»).
18 Per gli acquartieramenti di Marco Aurelio, Birley, 1966, p. 222; vedi anche Carrata Thomes, 1953, pp. 111-12. In precedenza cfr. soprattutto Th. Mommsen, Der Markomannenkrieg unter Marcus Aurelius, in Id., Gesammelte Schriften, IV 1, Berlin 1906, pp. 487 sgg.; C.H. Dodds, Chronology of the Danubian Wars of the Emperor Marcus Antoninus, in «NC», 13, 1913, pp. 278 sgg.; J. Dobias, Le monnayage de l’empereur Marc-Aurèle et les bas-reliefs historiques contemporains, in «RN», 32, 1932, pp. 127 sgg.
19 Per il conferimento a Marco Aurelio del titolo di Germanicus vedi supra, p. 85 con nota 11.
20 Cassio Dione, LXXII 13,3 e 14,1. Vedi a questo proposito E. Levy, «Captivus redemptus ab hoste», in «CPh», 38, 1943, pp. 159 sgg.
21 Cassio Dione, LXXII 7. Sulle sedi in cui erano stanziati in origine gli Iazigi vedi C. Daiacoviu, Zur Frage der Jazigen im Banat, in «Apulum», 1, 1942, pp. 98 sgg. Cfr. più in generale J. Harmatta, Studies on the History of Sarmatians, Budapest 1950, pp. 45 sgg.
22 Cassio Dione, LXXII 22,16.