Quella peste evidentemente molto perniciosa, da dovunque essa avesse avuto origine (come si è visto, sia dalla Partia, come sosteneva l’Historia Augusta, sia dall’Egitto, come riteneva invece lo storico contemporaneo Crepereio Calpurniano), aveva drasticamente ridotto non solo la popolazione dell’impero ma gli stessi stanziamenti legionari (circostanza gravissima che per Marco Aurelio aveva visto di fatto quasi dimezzarsi le sue truppe). Alle perdite di vite umane (tanto nell’esercito quanto nella manodopera disponibile) vennero ad aggiungersi nell’età dello stesso Marco anche le enormi spese per le guerre combattute lungamente dall’Augusto – come si è visto – sui fronti del Reno e del Danubio. Se la peste era un male tanto «fortuito» quanto inevitabile, tale però da provocare quella «distruzione di uomini» (anthropon holetros) che Dionisio, vescovo di Alessandria, poteva ancora lamentare, poco meno di un secolo più tardi, intorno alla metà del III secolo, in una sua lettera a Ierace, vescovo di tutti gli Egizi, tuttavia erano state le spese ingenti, che le guerre germaniche avevano comportato, a ridurre l’erario pubblico – come si è visto – addirittura sul lastrico. Era questa l’eredità, quasi si trattasse di uno scherzo del destino, che il «buon» Marco lasciava al suo «pessimo» successore, il figlio Commodo.
Per comprendere fino in fondo una simile problematica (la politica monetaria di Marco e i provvedimenti con cui Commodo tentò nei limiti del possibile di correggerla) è necessario però tornare molto indietro, a un imperatore che lo stesso Marco sul letto di morte aveva paragonato al figlio: il «pessimo» e «tirannico» Nerone. Anche Nerone infatti, evidentemente molto ben consigliato, aveva messo in atto una vera e propria riforma monetaria, profondamente innovativa tanto rispetto ai precedenti repubblicani quanto a quelli augustei. Di fatto, contrariamente a quanto comunemente si ritiene, anche nel mondo antico erano ben note, a partire dal greco Senofonte, almeno le esigenze più elementari che soprintendono all’economia politica. Una riforma come quella del 64 aveva lo scopo precipuo, anzi prioritario, di opporsi allo sperpero parassitario soprattutto dei ceti senatorii, dopo la fine dei «felici cinque anni» (quinquennium felix) che si conclusero nel 63, quando Seneca si ritirò a vita privata e quindi fu costretto al suicidio, dopo che il suo antico pupillo aveva profondamente mutato la sua politica nei confronti del senato: dopo i cinque anni di idillio che avevano caratterizzato il suo esordio come Augusto.
Per attuare la sua riforma Nerone non aveva esitato a valorizzare il denarius, la moneta d’argento usata per i piccoli commerci, per quelle che potrebbero definirsi le transazioni di tutti i giorni (i vilia commercia), a scapito dell’aureus (la moneta d’oro), che veniva utilizzato invece evidentemente e quasi esclusivamente dai ceti più abbienti, in primo luogo – com’è chiaro – dagli stessi senatori. Le enormi spese, che i senatori erano disposti ad accollarsi e di cui di fatto si facevano carico, derivavano soprattutto e in primo luogo dall’importazione di oggetti pregiati provenienti dall’Oriente, a partire da quella preziosissima seta di cui amavano abbigliarsi, almeno in privato, e che veniva importata a costi evidentemente esorbitanti dalla lontanissima Cina fino a Roma.
Appunto a questo scopo Nerone, nella ferma intenzione di porre limiti a questi sprechi, anzi a quelli che egli riteneva veri e propri sperperi da parte di quei senatori da lui francamente detestati, mutò il contenuto in oro effettivo dell’aureus da una libbra e quaranta a una libbra e quarantacinque, mentre il piede del denarius passava a sua volta da una libbra e quarantacinque a una libbra e novantasei. L’erario neroniano trasse, anche secondo Plinio il Vecchio, da una riforma di questo tipo un guadagno effettivo e a tutti gli effetti estremamente consistente per l’erario pubblico1.
Tuttavia, a questo scopo era non solo indispensabile ma anche necessario, perché il rapporto tra aureus e denarius potesse conservarsi stabile, che affluisse nelle casse dell’erario una quantità d’oro sufficiente a mantenerlo tale. A tutto questo provvide qualche decennio più tardi in un modo tanto «astuto» quanto molto previdente Traiano, l’«ottimo principe», con le sue due campagne in Dacia destinate a ridurre il regno di Decebalo al rango di provincia romana. Di fatto la conquista della stessa Dacia da parte di Traiano, con le due campagne del 101-2 e del 105-6, non deve essere fatta consistere solo in una ulteriore esternazione di quello che si è soliti definire il consueto «imperialismo romano», bensì in un fenomeno che appare subito a tutti gli effetti estremamente più complesso. Grazie all’acquisizione di questa nuova provincia, Traiano non tardava a impossessarsi dell’«oro dei Daci», in una quantità addirittura impressionante, non solo per il presente ma anche per il futuro, grazie appunto alle miniere d’oro di cui quella provincia era ricchissima.
Nelle intenzioni di Traiano era in effetti l’unico modo perché potesse ristabilirsi di nuovo, in maniera corretta a livello di proporzioni, il rapporto tra moneta d’argento (denarius) e moneta d’oro (aureus), in modo tale che la moneta d’argento ne riuscisse rafforzata. Come ha osservato a suo tempo Santo Mazzarino: «Il punto essenziale è questo, che l’aumento della quantità d’oro appariva necessario per sostenere, in forme non autoritarie, la politica monetaria iniziata da Nerone nel 64, cioè per sostenere la politica della borghesia e dei soldati. Oltre che sulle conseguenze della conquista traianea, bisogna dunque insistere sulle sue premesse sociali, le quali rimontano alla vittoria della borghesia (già sottolineata dallo storico senatoriale Tacito) verso la fine dell’età neroniana; ancora una volta, la storia numismatica ed economica ha un significato solo se essa si configura come storia sociale»2.
A suo tempo già Aurelio Bernardi non aveva mancato di mettere nel dovuto rilievo come si fosse verificato un effettivo aumento dei prezzi già nella seconda metà del II secolo, riconnettendo giustamente questo aumento dei prezzi alla mancanza di manodopera: mancanza di manodopera (tanto libera quanto servile) che la grande peste e le guerre di Marco avevano evidentemente contribuito ad aggravare, tanto più se lo stesso imperatore-filosofo – come si è visto – per le sue guerre non aveva esitato ad arruolare addirittura schiavi. Di fatto, a proposito di Tyra, Istros e Dionysopolis, Jean-Pierre Callu ha potuto debitamente sottolineare: «Au cours d’un article récent Th. Pekáry attribuait à des difficultés propres au Bosphore la modification, en 186, des sigles sur les espèces des Sautomates II. Il est vrai que, dans cet état, le bronze était, surtout depuis 161, soumis à une forte instabilité. Les cas parallèles de Tyra, Istrus, Thomis et Dionysopolis tendent cependant à prouver que, dès avant 193, la crise n’était plus uniquement localisée dans le royaume cimmerien mais que, déjà sous Commode, voir sous Marc Aurèle, la Mésie Inférieure connaissait des manipulations révélées par l’emploi des lettres numérales. En doublant le pouvoir d’achat de leurs monnaies, les villes pontiques donnaient ainsi à la pièce de 4 unités le poids que péseraient, seulement cinquante années plus tard, les derniers sesterces de Viminacium ou de Dacie»3.
Di fatto, la circostanza che già durante il regno dell’imperatore-filosofo si fosse verificato un aumento costante dei prezzi è provata dalla politica del suo «pessimo» successore Commodo. Il nuovo Augusto, infatti, da un lato subito dopo la morte del padre mise fine a quelle guerre che avevano letteralmente dissanguato le casse dello Stato (alleggerendo così in maniera estremamente considerevole tutti i gravami che negli anni delle guerre di Marco si erano addensati tanto sull’erario romano quanto soprattutto sui provinciali), dall’altro lato fu costretto a ricorrere – per cercare di limitare, per quanto possibile, l’aumento dei prezzi al consumo –, circa un secolo prima di Diocleziano, a un vero e proprio «calmiere dei prezzi». Un simile «calmiere dei prezzi» veniva strutturato adesso grazie a una forma censoria (in altri termini, secondo uno «schema» messo in atto da un censore, in epoca imperiale – com’è chiaro – dallo stesso Augusto allora al potere), per mezzo della quale, per esempio, il prezzo di uno schiavo era fissato d’autorità a cinquecento denarii4.
Com’è ben noto, solo l’Egitto possiede grazie alla sua documentazione papirologica un ricchissimo dossier che permette di seguire, anno dopo anno o quasi, l’effettivo mutamento dei prezzi al consumo, il loro eventuale calo o la loro eventuale crescita. Naturalmente, in un simile ambito di considerazioni, tutto dipende dal valore che deve essere conferito a una simile documentazione. In effetti, dopo la sua conquista da parte di Augusto, l’Egitto ebbe uno statuto estremamente particolare: non solo, a differenza di tutte le altre province, non era governato da un senatore bensì da un prefetto di rango equestre, ma almeno teoricamente, anzi di fatto, tutte le sue città (compresa Alessandria, mentre per quanto riguardava tutti gli altri casi doveva trattarsi naturalmente solo di piccoli centri agricoli che sorgevano lungo le sponde del Nilo) erano anche state private drasticamente delle loro assemblee cittadine (boulai), fin quando Settimio Severo non concesse un simile privilegio alla sola Alessandria, la città che aveva preso nome ed era stata fondata da Alessandro il Macedone e che per lunghissimi secoli era stata residenza prediletta ed esclusiva, fino a Cleopatra, dei Tolemei5.
Claire Preaux a suo tempo poté sostenere, ma sicuramente a torto almeno in base alla documentazione disponibile, una sostanziale stabilità dell’Egitto (dunque anche dell’andamento dei prezzi al consumo in quella provincia) nei primi due secoli dell’impero, sebbene fosse costretta comunque ad ammettere come appunto nei primi due secoli si fosse verificato, sempre in Egitto, un abbandono progressivo delle terre coltivabili e come questo effettivo abbandono da parte dei contadini potesse aver determinato parallelamente anche un corrispettivo aumento dei prezzi allora correnti in quella provincia. La ricostruzione avanzata da Claire Preaux mostra di fatto una debolezza di fondo: con essa infatti si è forse, anzi sicuramente, in presenza di una valutazione che sembra oscillare in maniera abbastanza inesplicabile tra l’ottimismo e il pessimismo più nero6.
Tuttavia, già in precedenza, da parte loro Milne, West e Johnson, sebbene affrontando una simile problematica da punti di vista diversi, avevano comunque messo in evidenza tutte le difficoltà economiche in cui versava quella provincia già a partire dall’età augustea: per esempio, West e Johnson avevano sottolineato in modo ineccepibile come l’aumento del prezzo del frumento, e più in generale delle granaglie, non potesse che essere messo in rapporto all’aumento parallelo dei prelievi fiscali operati evidentemente dal governo centrale7.
A sua volta Wallace non mancò di osservare come anche la laographia (la tassa per il censimento) fosse aumentata, dal 19 al 194, dal sedici al diciassette e mezzo per cento, con notevoli guadagni da parte dell’erario non appena si pensi alla grande densità di popolazione non solo dell’Egitto ellenistico, ma anche dell’Egitto sotto la dominazione romana8. Com’è subito chiaro, poiché l’Egitto fin da epoca augustea costituiva una sorta di «granaio» per il rifornimento delle distribuzioni annonarie romane, questo notevole rincaro dei prezzi del grano non può non essere attribuito, almeno in parte, anche alle grandi spese di trasporto da Alessandria fino ad Ostia, con maggiore esattezza, agli arsenali (navalia) del suo porto, dove avveniva lo stoccaggio del frumento che poi sarebbe passato, grazie alla via costituita dal Tevere, fino ai navalia di Roma, per essere quindi distribuito – come ormai era consueto fin dall’epoca dei Gracchi – alla plebe urbana9.
Per quanto riguarda un eventuale aumento dei prezzi, che va messo in rapporto ancora una volta con la diminuzione dell’effettivo contenuto d’argento nel denarius, si presenta evidentemente tanto necessario quanto inevitabile passare a questo punto dal lontano Egitto alla stessa Roma e, più in particolare, alle emissioni di denarii della zecca di Roma dal 177 al 180, dunque negli ultimi tre anni del lungo impero di Marco Aurelio. Di fatto, anche in queste emissioni la quantità effettiva di argento che, almeno teoricamente, avrebbe dovuto essere contenuta nel denarius tende a calare in modo abbastanza drastico, anche se non definibile con estrema esattezza, attestandosi comunque intorno al due per cento: siamo in presenza di una circostanza (il calo effettivo di argento) dovuta ancora una volta – se ci fosse bisogno di ripeterlo – alle durissime conseguenze derivate prima dalla peste, che aveva dimezzato di fatto la mano d’opera, e parallelamente agli esiti provocati dalle lunghissime guerre condotte da Marco, che avevano evidentemente ridotto le scorte d’argento nelle casse dello Stato10. Poiché, com’è chiaro, in un simile contesto, tanto una forte diminuzione della mano d’opera quanto l’emissione «forzosa» di denarii da parte della zecca di Roma per provvedere al pagamento del soldo dei legionari non potevano non incidere sulla stessa qualità (il contenuto reale in argento) dei denarii coniati in quegli anni.
Commodo e Settimio Severo furono in qualche modo costretti ad accentuare, in misura minore sotto Commodo e al contrario in misura decisamente maggiore appunto sotto Settimio Severo, la politica di «svalutazione» già iniziata ai tempi di Marco Aurelio: Commodo attestandosi sulla diminuzione del fino in argento contenuto nel denarius in misura analoga o anzi inferiore a quella del padre; Settimio Severo invece spingendosi ben oltre con i suoi denarii ormai «svalutatissimi», appena si pensi che contenevano circa il cinquanta per cento del loro valore nominale in argento11.
A questo punto si impone una conclusione tanto vera quanto, almeno in apparenza, abbastanza paradossale. Se è opinione comune di molti storici moderni addossare o al «tirannico» Commodo oppure a quello che si è soliti definire l’«imperatore-soldato» Settimio Severo l’inizio della decadenza dell’impero romano, sulla pista indicata, come si è già fatto cenno nel Prologo, da Jérôme Carcopino12, l’inizio di questa decadenza, tanto a livello monetario quanto a livello economico, deve invece essere fatta ricadere sull’imperatore-filosofo Marco Aurelio. Egli infatti, che pure conosceva a menadito le dottrine filosofiche allora in auge, non tarda di fatto ad apparire completamente ignaro di quelle leggi che regolano l’economia di mercato e l’andamento dei prezzi, di cui invece alcuni esponenti del mondo antico che lo precedettero, a partire in Grecia da Senofonte con i suoi Poroi (Le entrate) o dagli pseudo-aristotelici Economici, erano a perfetta conoscenza, come del resto ne era ben conscio per il mondo romano lo stesso Plinio il Vecchio13.
Una leggenda molto dura a morire, almeno presso alcuni storici moderni, è quella secondo cui il pagamento per il passaggio degli eserciti là dove erano in atto campagne militari (quella che in termine tecnico i Romani definivano militaris annona), appunto in quanto una simile imposta costituiva a tutti gli effetti una «tassa straordinaria» (extraordinaria taxatio), sarebbe stato introdotto, ancora una volta, dall’«imperatore-soldato» Settimio Severo. Infatti in una sua dottissima ricerca del 1937 fu Denis Van Berchem a giungere per primo a questa conclusione, quasi inspiegabilmente in un lavoro così dettagliato, non prendendo comunque in esame le numerosissime prove documentarie, naturalmente antiche, già allora disponibili e che dunque potevano a tutti gli effetti contraddirlo14. Per rendere più che discutibile una simile datazione, oltre alle testimonianze epigrafiche già addotte da Julien Guey, sarebbe sufficiente tornare a un passo della Vita del parsimonioso Antonino Pio nell’Historia Augusta, su cui ci si è già soffermati: «Non intraprese nessun viaggio, se non per recarsi nelle sue terre o in Campania, dicendo che l’accompagnamento di un principe, anche del più parco, era gravoso per i provinciali»15.
In effetti, i materiali raccolti accuratamente da Julien Guey hanno messo in rilievo come questa tassa, imposta dai vari imperatori al passaggio dei loro eserciti, fosse già praticata in precedenza, di sicuro, come testimoniano anche materiali documentari provenienti dall’Egitto, fin dall’età di Marco Aurelio. La stessa Claire Preaux, che pure in seguito avrebbe sostenuto, come si è visto, una sostanziale stabilità dei prezzi in Egitto per i primi due secoli dell’impero, riesaminando con estrema cura gli ostraka (i pezzi di materiale ceramico) su cui venivano registrati i salari dei soldati di stanza in una delle piazzeforti del deserto egizio, dopo che Ulrich Wilken li aveva datati nel 1899 all’età di Settimio Severo e Caracalla, ne ha invece stabilito con sicurezza la datazione nell’età di Marco Aurelio16.
Qui è solo necessario, di fatto, avanzare una constatazione tanto evidente quanto prioritaria: essa deve essere fatta consistere nella circostanza che l’Egitto, benché possedesse la peculiarità di essere governato da un esponente dell’ordine equestre, allo stato attuale delle nostre conoscenze, per quanto riguardava invece tutto il complesso della sua gestione ordinaria, deve essere considerato a tutti gli effetti come una delle tante province in cui era suddiviso l’impero dei Romani. Pertanto, da un simile punto di vista, nello stesso Egitto i prezzi delle merci debbono aver seguito le oscillazioni analoghe che essi potevano eventualmente subire anche nelle altre province e soprattutto non dovevano discostarsi di molto dai prezzi correnti a Roma nei diversi periodi.
Ma l’imperatore-filosofo, a differenza del suo predecessore Antonino Pio – che, come si è già detto, non si spingeva neppure in Campania, e quindi tanto meno nelle province, per non gravare di spese gli abitanti, o piuttosto le assemblee municipali, di quei territori che avrebbe attraversato insieme ai suoi accompagnatori (il comitatus) –, non solo prelevò denaro per il passaggio delle sue truppe, la famigerata militaris annona che determinò gravi conseguenze non solo nel III secolo ma fino ad epoca tardoantica17, né si limitò a chiedere contributi straordinari alla città di Thyathra, in Lidia, in probabilissimo rapporto all’usurpazione di Avidio Cassio che allora era in atto, ma giunse a esigere questo tipo di tassazione, appunto dal momento che la militaris annona era un’imposta straordinaria in diretto rapporto alla presenza di truppe su un determinato territorio, anche in territorio italico, con la doverosa avvertenza che il ius Italicum, da intendersi come il complesso di quei diritti di cui godevano da tempo immemorabile gli abitanti dell’Italia, rendeva i cittadini romani residenti appunto in Italia di per sé immuni da ogni tipo di imposte18.
Il «buon» Marco Aurelio, l’imperatore-filosofo, a tutti gli effetti costretto dalle necessità della sua guerra contro Quadi e Marcomanni, fu dunque il primo che si spinse a infrangere, come del resto non avrebbero esitato a fare i suoi successori a partire naturalmente da Settimio Severo, addirittura questo diritto ormai secolare di cui godevano gli Italici e di cui essi dovevano sentirsi a ragione e a tutti gli effetti pieni di orgoglio. Se i Quadi e i Marcomanni si erano spinti nel 167 fino al saccheggio di Opitergium e all’assedio di Aquileia, non bastava a trattenerli evidentemente solo la nuova creazione della praetentura Italiae et Alpium. O, meglio, perché questa «guarnigione a difesa dell’Italia e delle Alpi» fosse pienamente efficace, erano necessarie truppe in gran numero, corrispondenti almeno al numero e alla pericolosità dei nemici.
Marco Aurelio, che in quel tempo governava ancora l’impero insieme a suo «fratello» Lucio Vero, fece fronte a questa necessità stanziando nuove legioni appunto ai confini dell’Italia: nel caso specifico, e in diretto rapporto alla problematica che qui viene presa in esame, la legio III Italica, quella stessa legione che nel 168 era di stanza a Lauriacum e che contribuì a cacciare definitivamente Quadi e Marcomanni oltre il Danubio. Con un’avvertenza tanto necessaria quanto doverosa: che il mantenimento delle legioni, soprattutto a proposito di tutto quanto era necessario perché i vettovagliamenti ricevuti fossero corrispondenti ai bisogni delle truppe, ha un proprio costo e un costo che può rivelarsi all’evenienza molto alto.
Di fatto, nel Digesto, sono pervenuti rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero che attestano i contributi delle singole città al vettovagliamento delle truppe, come per esempio il seguente: «Il denaro destinato all’acquisto del grano, ma non speso, deve essere restituito alla città, e non essere reso disponibile per altre spese. Se al contrario il denaro per l’approvvigionamento di frumento è stato stornato per usi diversi da quelli cui esso era stato destinato, come lavori per i bagni pubblici, anche se sia stato provato che tutto questo è avvenuto in buona fede, non si deve portarlo nel conto. [...] Che il curatore della città dia ordine che sia pagato al proprietario il valore del frumento prelevato ingiustamente, in modo tale che quel valore resti scritto nei conti pubblici»19.
Da questo punto di vista appare fondamentale in un simile contesto l’epigrafe che fu dedicata dai suoi concittadini di Trento a Gaio Valerio Mariano che, dopo aver ricoperto tutte le cariche nella sua città, dopo essere anche stato «sacerdote di Roma e di Augusto», fu nominato «legato dell’annona della terza legione Italica», con un elenco successivo di incarichi (fu decurione di Brescia, Brixia, in altri termini membro dell’assemblea municipale di quella città, quindi poi «curatore della res publica di Mantova»), prima di raggiungere il rango equestre e dunque diventare «patrono» di quella stessa colonia (com’è chiaro, Trento), che provvide anche per i numerosi benefici da lui ricevuti ad elevargli la sua stele funeraria20.
François Jacques, con l’acume che gli era consueto, mise in rapporto le funzioni relative all’annona di Gaio Valerio Mariano con una citazione di Papiniano nel Digesto, là dove il giurisprudente faceva cenno a un «curatore demandato alla gestione nel tempo di una campagna militare» (curator ob negotium expeditionis tempore mandatum)21. Si sarebbe trattato, in altri termini, di un incarico straordinario affidato dall’assemblea municipale (curia) di Trento a Gaio Valerio Mariano per far fronte all’approvvigionamento di viveri appunto della III legione Italica, che in quello stesso periodo, un periodo che è impossibile purtroppo precisare, doveva essersi spostata da Lauriacum per accorrere in Italia, evidentemente a sua difesa. Poiché il suo stanziamento a Lauriacum si data intorno al 168, il suo passaggio in Italia non può che riconnettersi, in una iscrizione di Trento, alla difesa di Aquileia, dove Marco Aurelio e Lucio Vero trascorsero l’inverno tra il 168 e il 169. Com’è ben noto e come del resto è già stato ricordato, nel 169 Opitergium fu saccheggiata e Aquileia stessa dovette subire un duro assedio da parte tanto di Quadi quanto dei Marcomanni, alleati ancora una volta in queste loro scorrerie, volte soprattutto al saccheggio, al di qua delle Alpi22.
Tuttavia gli eserciti non hanno bisogno evidentemente solo di grano, ma necessitano anche di olio per il loro approvvigionamento, e di olio erano prospere in primo luogo l’Africa e la Spagna, suddivise ancora nell’età di Marco in diverse province. Di questa necessità impellente di olio è testimone un’epigrafe di Siviglia, l’antica Hispalis, nella provincia della Spagna Betica. Si tratta di una dedica da parte dei battellieri a Sesto Giulio Possessore che, dopo aver ricoperto altre funzioni importanti (era stato prefetto di coorte e d’ala, tribuno, curatore di città), fu anche «aiutante del prefetto dell’annona per recensire l’olio dell’Africa e della Spagna, [incaricato] allo stesso tempo di trasferire i sussidi annonarii ed anche di pagare il prezzo del loro trasporto ai proprietari delle navi»23.
A questo punto, dopo aver cercato di esaminare nel modo più dettagliato possibile tutta la documentazione antica in nostro possesso, si può e si deve dunque necessariamente concludere. Le testimonianze che sono state apportate documentano senza più alcun dubbio che l’annona militare, questa tassa straordinaria in diretto rapporto al vettovagliamento degli eserciti, non fu introdotta da Settimio Severo, cui Denis Van Berchen ne aveva addossato la «colpa» (o anche, se si volesse, il «merito», in quanto oggettivamente necessaria in quegli anni critici di guerra), ma già qualche decennio prima da Marco Aurelio e Lucio Vero per far fronte alle spese delle guerre che lo stesso Marco era costretto a combattere con Vero al suo fianco sul fronte settentrionale. Evidentemente, tanto per Marco quanto per Vero, la difesa dell’Italia da Quadi e Marcomanni era tanto necessaria quanto imprescindibile, per un motivo molto semplice: come già era avvenuto molti secoli prima ai tempi della seconda guerra punica con Annibale, se i Quadi e i Marcomanni fossero riusciti a superare le Alpi, avrebbero avuto pieno agio di invadere addirittura il suolo italico, con conseguenze gravissime per garantirne la difesa. Come si è già avuto modo di mettere in rilievo, una valutazione di fondo divideva in ogni caso i due Augusti: la circostanza che Vero non condividesse assolutamente l’ostinazione di Marco nel voler oltrepassare le Alpi, per nuove conquiste in territori tanto vasti quanto di fatto incontrollabili24.
1 Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXXIII 47: Postea placuit X– XXXX signari ex auri libris, paulatimque principes inminuere pondus, et novissime Nero ad XXXXV («In seguito fu stabilito di coniare quaranta denari per ogni libbra d’oro, ma a poco a poco i principi ne diminuirono il peso, e molto di recente Nerone lo ha abbassato a quarantacinque denari per libbra»; sulle critiche al lusso sfrenato dello stesso Plinio il Vecchio cfr. ivi, XXX 22 sgg.); vedi a questo proposito S. Mazzarino, 1984, I, pp. 221-23 con nota 15; cfr. anche E. Noè, La fortuna privata del Principe e il bilancio dello stato romano: alcune riflessioni, in «Athenaeum», 65, 1987, pp. 27-65. Sul ritiro a vita privata richiesto a Nerone da Seneca vedi Tacito, Ann. XIV 53,1-3: At Seneca criminantium non ignarus, prodentibus iis, quibus aliqua honesti cura, et familiaritatem eius magis aspernante Caesare, tempus sermonis orat et accepto ita incipit: «Quartus decimus annus est, Caesar, ex quo spei tuae admotus sum, octavus, ut imperium obtines: medio temporis tantum honorum atque opus in me cumulasti, ut nihil felicitati meae desit nisi moderatio eius. Utar magis exemplis, ne<c> meae fortunae sed tuae. Abavus tuus Augustus Marco Agrippae Mytilenense secretum, C. Maecenati urbe in ipsa velut peregrinum otium permisit; quorum alter bellorum socius, alter Romae pluribus laboribus iactatus ampla quidem, sed pro ingentibus meritis, praemia acceperant» («Seneca però, non ignaro di chi lo incriminava, con l’aiuto di quanti ancora si davano cura dell’onestà, e vedendo come Cesare disprezzasse sempre di più la sua vicinanza, gli chiede quando può riceverlo e, ottenuta udienza, cominciò così: ‘È questo, Cesare, il quattordicesimo anno, da quando dedicai le mie cure alla tua speranza, e l’ottavo, da quando sei imperatore: nel frattempo mi hai tanto colmato di onori e di ricchezze che non manca più nulla alla mia felicità, se non che tu la moderi. Mi servirò di grandi esempi, tratti dalla tua fortuna, non dalla mia. Il tuo proavo Augusto concesse a Marco Agrippa di ritirarsi tranquillamente a Mitilene, a Gaio Mecenate permise nella stessa Roma il riposo come di uno che vivesse in una città straniera; uno di loro, compagno in guerra, l’altro, sopraffatto a Roma da molteplici fatiche, avevano ricevuto da lui grandi ricchezze, ma proporzionate ai loro meriti straordinari’»); cfr. a questo proposito A. Fraschetti, Poesia anonima latina cit., p. 221 con nota 13.
2 S. Mazzarino, 1984, I, pp. 297 sg., anche se l’uso del termine «borghesia» può forse apparire troppo «modernizzante», esso in ogni caso rende bene l’idea dei ceti di appartenenza cui faceva cenno lo stesso Mazzarino (soprattutto i plebei molto abbienti e i membri di spicco non solo dell’ordine senatorio ma anche di quello equestre); in precedenza, più in particolare a proposito della conquista traianea della Dacia e per l’ingente quantità d’oro che Traiano acquisì grazie appunto a quella conquista, vedi J. Carcopino, Un retour à l’impérialisme de conquête; l’or des Daces, in «Dacia», 1, 1924, pp. 1 sgg.; in seguito in Id., Points de vue sur l’impérialisme romain, Paris 1934, pp. 73 sgg.; poi J. Guey, De «l’or des Daces» (1924) au livre de Sture Bolin (1958), in Mélanges d’archéologie, d’épigraphie et d’histoire offerts à J. Carcopino, Paris 1966, pp. 446 sgg. Sulle guerre daciche di Traiano vedi R.P. Longden, Notes on the Parthian Campaigns of Trajan, in «JRS», 21, 1931, pp. 1-35; F.A. Lepper, Trajan’s Parthian Wars, Oxford 1948; inoltre e più in generale A. Bernardi, The Economic Problems of the Roman Empire at the Time of its Decline, in «SDHI», 31, 1965, pp. 110-70. J. Gonzalez, Trajano: «Part(h)icus, trib., pot. XIIX, imp. X», in «AEArq», 60, 1967, pp. 237-50; cfr. G.S. Lightfoot, Trajan’s Parthian War and the Fourth-Century Perspective, in «JRS», 80, 1990, pp. 115-26; J. Gonzalez, Reflexiones en torno a las campagnas particas de Trajano, in Id. (a cura di), Trajano Emperador de Roma, Roma 2000, pp. 203 sgg.
3 A. Bernardi, The Economic Problems of the Roman Empire at the Time of its Decline cit., p. 127; vedi in precedenza G. Mickwitz, Geld und Wirtschaft im römischen Reich des vierten Jahrhunderts n. Chr., Helsingfors 1932, p. 48 con pp. 56-57; F. Heichelheim, Zur Währungskrisis des römischen Imperiums in 3. Jahrhundert n. Chr., in «Klio», 26, 1933, pp. 96-113; A.Ch. Johnson, Roman Egypt to the Reign of Diocletian, in T. Frank, An Economic Survey of Ancient Rome, II, Baltimore 1936, p. 436. Diversamente, ma su basi comunque, almeno a mio avviso, molto fragili, A. Passerini, Sulla pretesa rivoluzione dei prezzi durante il regno di Commodo, in Studi in onore di G. Luzzatto, Milano 1949, pp. 2 sgg.; Th. Pekáry, Studien zur römischen Währungs- und Finanzgeschichte von 161 bis 235 n. Chr., in «Historia», 8, 1959, pp. 443-89. Vedi, per la lunga citazione, J.-P. Callu, La politique monétaire des empereurs romains de 228 à 311, Paris 1969, p. 62.
4 Vedi per la pace con i barbari Cassio Dione, LXXXIII 2-3; Erodiano I 8,3: «Così, convocati improvvisamente gli amici, disse che voleva tornare in patria; ma, per vergogna di riconoscere la vera causa del suo impulso, finse di temere che qualcuno dei nobili occupasse il focolare (hestia) dell’impero». Com’è chiaro, tanto Cassio Dione quanto Erodiano, benché da punti di vista diversi, travisavano evidentemente, e volutamente, i reali propositi del giovane principe, che deve ritenersi almeno a questo proposito – nel mettere fine a quelle guerre – molto più saggio del padre; sui motivi reali per cui Commodo mise termine alle guerre vedi soprattutto G. Alföldy, Der Friedensschluss des Kaisers Commodus mit den Germanen, in «Historia», 20, 1971, pp. 84-109. Per il «calmiere dei prezzi» vedi il decreto emesso dai decurioni dell’attuale Henshir Sbia, in Tunisia, per difendersi dai soprusi perpetrati da alcuni pastori; appunto in questo decreto (AE 1903, n. 202 con le correzioni tuttavia apportate da Dessau in CIL VIII 23956) si fa cenno a l. 15 a [- - - - - - - - - e]tiam pretium servi ex form[a] censoria denarios (quingentos) [...]; vedi a questo proposito, benché riferito ad altro contesto, Grosso, 1964, p. 623; più in particolare soprattutto S. Mazzarino, 1984, II, p. 434.
5 Sulla posizione dell’Egitto nell’ambito e nel complesso delle altre province dell’impero vedi già A. Stein, Untersuchungen zur Geschichte und Verwaltung Aegyptens unter römischer Herrschaft, Stuttgart 1915, il quale riteneva che l’annessione dell’Egitto all’impero avesse costituito solo un semplice cambiamento di dinastia, passando da quella dei Tolemei a quella dei Giulio-Claudi; in questo stesso senso anche B.A. van Groningen, L’Égypte et l’empire: étude de droit public romain, in «Aegyptus», 7, 1926, pp. 189 sgg. Vedi quindi soprattutto S. Mazzarino, Augusto e l’Egitto, in Egitto antico e moderno, Roma 1941, pp. 253 sgg.; A. Piganiol, Le statut augustéen de l’Égypte et sa destruction, in «MH», 10, 1953, pp. 193-202; quindi Id., Scripta varia, 3, Bruxelles 1973, pp. 26-40 sgg.; G. Geraci, Genesi della provincia romana d’Egitto, Bologna 1983; Id., La formazione della provincia romana d’Egitto, in Egitto e società antica, Milano 1985, pp. 163 sgg.; N. Lewis, The Romanity of Roman Egypt: A Growing Consensus, in Atti del XVII Congresso Internazionale di Papirologia, Napoli 1984, pp. 1077 sgg. In senso diverso, ma comunque su basi molto fragili, A. von Premerstein, Vom Werden und Wesen des Prinzipats, München 1937, p. 4; Cl. Preaux, Les raisons de l’originalité de l’Égypte, in «MH», 10, 1953, pp. 203-31. Vedi anche la discussione di J. Mélèze-Modrzejewski, L’Égypte cit., pp. 435 sgg. Per la concessione infine di un’assemblea municipale (boule) ad Alessandria vedi ancora E.P. Wegener, The «bouletai» of the «metropoleis» in Roman Egypt, in Symbolae ad ius et historiam antiquitatis pertinentes J.C. von Oven, Leiden 1946, pp. 160-90.
6 Cl. Preaux, La stabilité de l’Égypte aux deux premiers siècles de notre ère, in «CE», 31, 1956, pp. 311-31. Quanto al lavoro (dunque anche quello dei contadini) in Egitto in epoca ellenistico-romana vedi Ead., Restrictions à la liberté du travail dans l’Égypte grecque et romain, in «CE», 9, 1934, pp. 338-45.
7 J.H. Milne, The Ruin of Egypt by Roman Mismanagement, in «JRS», 17, 1927, pp. 1-13; L.C. West-A.Ch. Johnson, Currency in Roman and Byzantine Egypt, Princeton 1944, pp. 118 sgg.
8 S.L. Wallace, Taxation in Egypt from Augustus to Diocletian, Princeton 1938, p. 128.
9 Sulle importazioni di frumento dall’Egitto vedi soprattutto G. Geraci, L’Egitto provincia frumentaria, in Le ravitaillement en blé de Rome et des centres urbains dès débuts de la République jusqu’au Haut-Empire, Actes du Colloque Internationale de Naples, 1991, Roma-Napoli 1994, pp. 274 sgg. Per Ostia vedi di recente N. Purcell, The Ports of Rome: Evolution of a «façade maritime», in A. Gallina Zevi-A. Claridge (a cura di), ‘Roman Ostia’ Revisited. Archaeological and Historical Papers in Memory of Russell Meiggs, London 1996, pp. 267 sgg. Cfr. in precedenza G.W. Houston, Ports in Perspective. Some Comparative Materials on Roman Merchant Ships and Ports, in «AJA», 92, 1988, pp. 553 sgg.; G. Rickman, Problems of Transport and Development of the Ports, in A. Giovannini (a cura di), Nourrir la plèbe, Basel 1991, pp. 103 sgg.; quindi soprattutto F. de Caprariis, I porti di Roma nel IV secolo, in W.V. Harris (a cura di), The Transformations of «Urbs Roma» in Late Antiquity, Portsmouth 1999, pp. 216 sgg.; Ead., Roma: i porti urbani tra continuità e trasformazione, in G.P. Berlanga-J. Pérez Ballester (a cura di), Puertos fluviales antiguos: ciudad, desarrollo e infraestructuras, Atti delle IV Giornate di archeologia subacquea, Valencia 2001, pp. 261-75; vedi anche i saggi raccolti ora in S. Keay-M. Meillet-L. Paroli-K. Strutt, Portus. An Archaeological Survey of the Port of Imperial Rome («Archaeological Monographs of the British School at Rome», 15), London 2005. Per la via fluviale vedi ancora J. Le Gall, Le Tibre, fleuve de Rome dans l’antiquité, Paris 1953. In un simile contesto è almeno doveroso il rinvio a C. Pavolini, Ostie, port et porte de la Rome antique, in A. Fraschetti, Auguste et Rome, ed. fr., Toulouse 2002, pp. 123 sgg.
10 Sul contenuto argenteo dei denarii emessi tra il 177 e il 180 vedi J. Guey, L’aloi du denier romain de 177 à 211 apr. J.-C. (étude descriptive), in «RN», 4, 1962, pp. 73-140; Id., Peut-on se fier aux essais chimiques? Encore l’aloi du denier romain de 177 à 211 après J.-C., in «RN», 7, 1965, pp. 110-22.
11 Per Commodo e Settimio Severo vedi di nuovo J. Guey, L’aloi du denier romain cit., pp. 76 sgg. (su Commodo con bibliografia ivi citata a p. 77); Id., Peut-on se fier aux essais chimiques? cit. (su Commodo vedi la tavola a p. 113; su Settimio Severo pp. 114 sgg.). È fondamentale per questi aspetti J.-P. Callu, La politique monétaire des empereurs romains cit., pp. 162 sgg.; in precedenza, per esempio, H. Mattingly, The Coinage of Septimius Severus and his Times. Mints and Chronology, in «NC», s. V, 12, 1932, pp. 177 sgg.; S. Mazzarino, 1984, II, p. 436. Può ritenersi molto significativo da un simile punto di vista il rescritto di Settimio Severo, pervenuto attraverso un’epigrafe di Mylasa (OGIS 515), con cui lo stesso Settimio Severo imponeva ai «banchieri» pubblici (trapezitai) di quella città, che sorgeva in Asia Minore, di cambiare «forzosamente» i suoi venticinque denarii, paurosamente svalutati, con un buon aureus, che da parte sua continuava a mantenere intatto il proprio fino in oro. Faccio uso del termine «svalutazione» con perfetta coscienza del grande pericolo che esso comporta in genere se riferito al mondo antico, ignaro – com’è chiaro – della vera e propria svalutazione attuabile nel mondo moderno con un sistema fondato sulla moneta in carta. In genere su Settimio Severo e la sua politica monetaria vedi A. Birley, Septimius Severus. The African Emperor, London 1971. Sul rescritto di Settimio Severo ai «banchieri» di Mylasa vedi anche infra, p. 222, con bibliografia citata alla nota 18.
12 Vedi supra, pp. 4 sg.
13 Cfr. le osservazioni già avanzate a suo tempo, nel 1962, nella seconda edizione del suo Impero romano da S. Mazzarino (ed. Tumminelli, Roma), poi Mazzarino 1984, I, pp. 222-23.
14 D. Van Berchem, L’annone militaire dans l’empire romain au IIIe s., in «MSAF», s. VIII, 10, 1937, pp. 117-202.
15 Vedi supra, p. 56 con nota 13. Evidentemente, facendo riferimento esplicito ai «provinciali», Antonino Pio doveva implicitamente alludere a spostamenti anche pacifici attraverso province, che avrebbero provocato comunque prelievi straordinari destinati a gravare su quegli stessi provinciali i cui territori sarebbero stati attraversati all’evenienza dal principe e dal suo seguito (il comitatus).
16 Vedi di fatto, per quanto riguarda il prelievo dell’annona militare già nel II secolo, la documentazione epigrafica addotta da J. Guey, Inscriptions du second siècle relatives à l’annone militaire, in «MEFR», 55, 1938, pp. 56-77. Per l’Egitto Cl. Preaux, «Ostraca» de Pselkis de la Bibliothèque Bodléenne, in «CE», 26, 1951, pp. 121-55; in precedenza già J. Lesquier, L’armée romaine en Égypte d’Auguste à Diocletien, Le Caire 1918, pp. 256 sgg. In passato U. Wilken, Griechische Ostraka aus Aegypten und Nubien, Leipzig-Berlin 1899, pp. 293 sgg. Vedi l’osservazione estremamente pregnante di J.-P. Callu, La politique monétaire des empereurs romains cit., pp. 289 sgg. Sull’inasprimento fiscale in Egitto sotto Marco Aurelio, testimoniato anche dallo «Gnomon dell’Idios Logos», vedi, per esempio, S. Riccobono jr., Il Gnomon dell’Idios Logos, Palermo 1950, pp. 5 sgg.
17 Per i problemi relativi nel IV secolo alla militaris annona e alla connessa aderazione (adhaeratio), che consisteva nella riscossione in denaro, da parte dei funzionari addetti, dei vari tipi di generi richiesti (soprattutto frumento e cavalli) che i contribuenti (collatores) non potevano fornire in quanto ne erano di fatto privi, vedi S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo cit., pp. 137 sgg.
18 Vedi F. Grelle, «Stipendium vel tributum». L’imposizione fondiaria nelle dottrine giuridiche del II e III secolo, Napoli 1963, pp. 4 sgg.; quindi S. Mazzarino, «Ius Italicum» e storiografia moderna, in La data dell’«Oratio ad sanctorum coetum», il ius Italicum e la fondazione di Costantinopoli: note sui «discorsi» di Costantino, in Id., Il basso impero. Antico, tardoantico cit., I, pp. 133 sgg. (con ulteriore bibliografia ivi citata alla nota 74).
19 Ulpiano, in Dig. L 8,2-4 e 6: Ad frumenti comparationem pecuniam datam restitui civitati, non compensari in erogata debet. Sin autem frumentaria pecunia in alios usus, quam quibus destinata est, conversa fuerit, veluti in opus balneorum publicorum, licet ex bona fide datum probatur, compensari quidem frumentariae pecuniae non oportet, solui autem a curatore rei publicae iubetur. [...] Grani aestimatorem per iniuriam post emptionem ablati, quae rationibus publicis refertur, curator rei publicae domino restitui iubeat.
20 CIL V 5036 = ILS 5016: C(aio) Valerio C(ai) f(ilio) Pap(iria tribu) / Mariano / honores omnes / adepto Trident(i), / flamini Rom(ae) et Aug(usti), / praef(ecto) quinq(uennali), augur(i) /, adlecto annon(ae) leg(ionis) III / Italic(ae), sodali sacr(orum) / Tusculanor(um), iudici / selecto decur(iali) trib(unicio) /, decurioni Brixiae /, curator(i) r(ei) p(ublicae) Mant(uanorum) /, equo publ(ico), praef(ecto) fabr(um), / patrono colon(iae) / publice. Per la sua carriera vedi F. Jacques, Les curateurs des cités cit., pp. 336-37. Sul personaggio S. Demougin, Les juges des cinques décuries originaires de l’Italie, in «AncSoc», 6, 1975, pp. 161-63.
21 Papiniano in Dig. XVI 2,20: Ob negotium copiarum expeditionis tempore mandatum curatorem condemnatum pecuniam iure compensationis retinere non placuit, quoniam ea non compensantur.
22 Vedi supra, pp. 74-75.
23 CIL XII 1180 = ILS 1403: Sex(to) Iulio Sex(ti) f(ilio) Quir(irina tribu) Possessori, / praef(ecto) coh(ortis) III Gall(orum), praeposito nume/ri Syror(um) sagittar(iorum) item alae primae Hispa/nor(um), curatori civitatis Romulensium, m(agister) Ar/vensium, tribuno mil[itum leg(ionis)] XII Fulminat[ae], curatori coloniae Arcensium, adlecto / in decurias ab optimis et maximisque / imp(eratorum) Antonino et Vero Aug(ustorum), adiu/tori Ulpii Saturnini praef(ecti) ann(onae) / ad oleum Afrum et Hispanum recen/sendum item solamina transfe/renda item vecturas navicula/riis exolvendas, proc(uratori) Aug(ustorum) ad / ripam Baetis, schapharii Hispalens/ens ob innocentiam iustitiam/que eius singularem. Vedi già in proposito M.R. Cagnat, L’annone d’Afrique, in «MemAIBL», 25, 1917, pp. 205-34, più in particolare p. 247. Poiché evidentemente la colonia di Hispalis godeva di diritto latino, si è in presenza di una testimonianza ulteriore che va ad aggiungersi all’epigrafe di Trento cit. supra, alla nota 20 di questo stesso capitolo. Per i dazi anche dall’Africa già sotto Marco Aurelio vedi S.J. de Laet, «Portorium». Étude sur l’organisation douanière chez les Romains, surtout à l’époque du Haut-Empire, Brugghe 1949, pp. 403 sgg.
24 Vedi supra, pp. 76-77.