Introduzione

Quando a undici anni facevo la prima media, la mia professoressa, un’insegnante molto preparata, ci parlava di un buon imperatore, un imperatore-filosofo, che era stato costretto a spendere molta parte della sua vita nel difendere i confini dell’impero dai barbari del Nord: un vero e proprio eroe, da paragonarsi per la sua mitezza a Tito, «delizia del genere umano». Il manuale di Storia romana, di cui disponevo e su cui dovevo prepararmi per essere interrogato, conteneva di fatto i medesimi dati. Aggiungeva tuttavia che dopo la morte di Marco Aurelio, a partire da Settimio Severo e quindi attraverso numerosissimi imperatori, di cui mi era molto difficile ricordare perfino i nomi, si sarebbe giunti infine a Diocleziano, che aveva riformato l’impero con un sistema molto complesso, di cui allora stentavo a comprendere i meccanismi e che avrebbe avuto il nome per me ostico a quei tempi di «tetrarchia». Di fatto in prima media la Storia romana di rado si spingeva oltre Costantino e la «conversione» dell’impero, con qualche accenno talvolta, ma non sempre, a un imperatore come Teodosio. Quello che allora veniva definito il Basso impero (con una notazione evidentemente negativa e che attualmente ha acquisito il nome molto più dignitoso di impero tardoantico) si limitava, se lo faceva, a una serie di nomi di imperatori e di usurpatori, per giungere infine nel fatidico 476 alla deposizione del giovanissimo Romolo Augustolo a opera del barbaro Odoacre.

Spero che il lettore voglia scusare questi ricordi personali, che avevano il solo scopo di chiarire come io allora non potessi non condividere fino in fondo la profonda ammirazione per Marco Aurelio, espressa tanto dalla mia insegnante quanto dal mio manuale. Solo molti anni più tardi, intorno al 1972 (ero divenuto nel frattempo assistente di Santo Mazzarino), quando ormai adulto cominciai a interessarmi di nuovo alla sua figura, le mie prospettive cominciarono sensibilmente a mutare. Se la lettura soprattutto di Cassio Dione e della Historia Augusta, insieme ai pochi cenni del funzionario di corte Erodiano che iniziava la sua opera storica con la morte dello stesso Marco, ne tramandavano un’immagine fortemente elogiativa, si intuivano però a titolo diverso in quegli stessi storici (il senatore Cassio Dione, i cenni di Erodiano, il «redattore-falsario» della Historia Augusta), al di là di tutti gli elogi, elementi in qualche modo più complessi e in larga misura fluttuanti. Erano indizi che tendevano a gettare su quello stesso impero ombre che a prima vista sarebbero apparse come assolutamente inaspettate. L’elogio finale che la stessa Historia Augusta dedicava all’imperatore-filosofo, appena lo si paragoni a quello di Cassio Dione, conteneva – come si avrà modo di vedere1 – segni indubbi di un accorato pessimismo, non tanto e non solo per le modalità con cui Marco Aurelio conduceva allora un riepilogo della sua vita di uomo e di sovrano, quanto soprattutto per la circostanza che il «redattore-falsario» della sua biografia (come sempre sulla scia di Mario Massimo) sembrava condividere insieme al suo «eroe» quello stesso pessimismo.

Comunque, per giungere fino al vero e proprio «doppio principato» (com’è ben noto, il termine fu coniato per la prima volta da Ernst Kornemann nel 1930) di Marco Aurelio e Lucio Vero e quindi dissipare alcune inesattezze presenti a questo proposito nel volume fondamentale dello stesso Kornemann, mi è apparso in realtà necessario – soprattutto per sfatare alcuni equivoci che quel volume aveva creato – ritornare, al di là dell’impero congiunto (dal 160 al 169) di Marco Aurelio e Lucio Vero, alla stessa genesi dell’impero adottivo, quello che si era fondato (o in qualche caso aveva finto di fondarsi) sulla scelta del «migliore». Se Kornemann in effetti aveva pensato di dover risalire, per la genesi del «doppio principato», agli esempi costituiti prima nella «colleganza» di Augusto con Agrippa e in seguito con Tiberio, per proseguire quindi a una «colleganza» analoga di Vespasiano con il figlio Tito, come si vedrà, non è stato molto difficile dimostrare come Augusto detenesse «autorità» maggiore per quanto riguardava Agrippa e Tiberio, mentre Tito, finché fu in vita Vespasiano, rimase sempre solo e comunque un Cesare, rispetto al padre che era a tutti gli effetti l’unico Augusto al potere2.

Di fatto, come era già stato dimostrato in modo magistrale soprattutto da Jean Béranger, l’impero adottivo tende piuttosto a caratterizzarsi per una differenza di fondo e di estremo rilievo rispetto a quella che si è soliti definire la dinastia dei Giulio-Claudii e quindi dei Flavii. Mentre nei Giulio-Claudii la trasmissione del potere imperiale avveniva per via di discendenza maschile (soprattutto attraverso adozioni) come di fatto anche nei Flavii (in questo caso però per via di filiazione diretta), per quanto riguarda l’impero adottivo la scelta del «migliore», a partire da Adriano, avveniva grazie a matrimoni contratti con donne che erano sempre e comunque discendenti del proprio predecessore: per quanto riguarda Adriano grazie appunto al suo matrimonio con Vibia Sabina, pronipote del suo predecessore Traiano. È sufficiente una semplice consultazione della tavola genealogica presente in questo stesso volume per assicurarsi, se ce ne fosse bisogno, che da Adriano fino agli stessi Marco Aurelio e Lucio Vero, passando per Antonino Pio, tutti i successori designati hanno sempre sposato figlie, nipoti o pronipoti di colui che li aveva destinati. Non a caso, a proposito di questi matrimoni tutti evidentemente combinati, come si vedrà in seguito, quasi volendo sfatare un mito ormai a suo avviso (ma non solo a suo avviso) troppo consolidato, Jérôme Carcopino a suo tempo poté parlare al contrario di «eredità dinastica presso gli Antonini»: un’«eredità dinastica» che non veniva più trasmessa, come in precedenza presso i Giulio-Claudii e i Flavii, per via di discendenza maschile, ma al contrario attraverso le donne appartenenti alla casa imperiale (la domus Augusta)3.

L’esame soprattutto di altro tipo di documentazione antica, tanto epigrafica quanto papirologica, aveva cominciato anche ad apparirmi tale da contribuire da parte sua a una ricostruzione molto diversa di quel lungo regno: una ricostruzione molto meno felice e idilliaca di quanto esso venga rappresentato sia da Cassio Dione sia dall’Historia Augusta: una rappresentazione molto meno felice in primo luogo da un punto di vista sociale e soprattutto poi da quello economico. La famosa peste scoppiata a partire dal 166 aveva posto all’impero allora ancora congiunto di Marco Aurelio e Lucio Vero problemi assolutamente nuovi e tanto più gravi se essa continuò a infierire imperterrita fino alla morte di Marco; lo dimostrano senza ombra di dubbio le parole rivolte dallo stesso Marco agli amici accorsi al suo letto di morte per dargli l’ultimo addio. Questa peste aveva drasticamente ridotto la popolazione dell’impero, sia libera che servile, e allo stesso tempo aveva contribuito a decimare non solo le legioni con le quali Lucio Vero aveva fatto ritorno dalla Siria, ma, propagandosi in modo inesorabile, anche gli stanziamenti militari al seguito prima dello stesso Lucio Vero e di Marco Aurelio e poi, dopo la morte di Vero, del solo Marco, sui fronti del Reno e del Danubio, con conseguenze inevitabili sulla conduzione delle guerre contro i barbari che da ogni parte assediavano l’impero4.

Vanno aggiunte alle enormi perdite nelle file degli stanziamenti legionari quelle verificatesi allora nelle forze lavorative, con tutte le conseguenze di ordine economico che una moria fortissima, come quella che si verificò a partire dal 167 (si sono potuti calcolare cinquemila morti al giorno per la sola città di Roma), non può non aver provocato su un erario ormai quasi sul lastrico. Le casse dello Stato, com’è chiaro, erano al collasso a causa delle spese sempre più ingenti, e allo stesso tempo gravosissime soprattutto per i provinciali, per le guerre di Marco – ormai unico imperatore, dopo la morte di Vero –, prevalentemente contro Iazigi, Quadi e Marcomanni. Lo stesso Marco Aurelio aveva tentato infatti – un tentativo che alla fine si sarebbe rivelato assolutamente vano – di sospingere in Germania il confine dell’impero dal Reno fino all’Elba, per creare le due nuove province di Marcomannia e di Sarmazia. Marco Aurelio in un caso come questo evidentemente non aveva tenuto conto (e con tutta probabilità le ignorava) delle disposizioni lasciate a suo tempo da Augusto a Tiberio nel proprio testamento, là dove, ben conscio delle spese, insostenibili per l’erario, che lo stanziamento di ulteriori legioni al di là del Reno avrebbe comportato, aveva ordinato al suo successore di non estendere ulteriormente i confini dell’impero.

Se il previdente Augusto conosceva evidentemente almeno i princìpi di base su cui si fonda l’economia politica (come del resto mostrava di esserne a conoscenza nell’età dei Flavii Plinio il Vecchio), come non tarda ad apparire subito chiaro, Marco Aurelio, che conosceva alla perfezione le più diverse dottrine filosofiche, era invece completamente ignaro delle leggi più elementari che soprintendono a una corretta gestione delle entrate dello Stato, come del resto avrebbe dimostrato quando sembrò operare una confusione imperdonabile, per un Augusto degno di questo nome, tra erario pubblico del popolo romano e fisco imperiale.

Di fatto, in un anno imprecisato del suo impero, fu costretto, secondo l’Historia Augusta, appunto dalla circostanza che l’erario pubblico risultava ormai svuotato e da quella, che correva parallela, di non voler (o poter) esigere imposte straordinarie dai provinciali (i quali del resto dovevano essere stati già in precedenza duramente provati), a mettere all’asta i beni del tesoro imperiale, quelli propri e dei suoi predecessori. Tutto al contrario, intorno al 178, secondo Cassio Dione, lo stesso Marco avrebbe chiesto al senato fondi «dall’erario» per il proseguimento delle sue guerre, non perché non disponesse già personalmente dei fondi necessari, ma adducendo come causa che ogni fondo disponibile apparteneva al senato e al popolo romano, al punto che non sarebbe stata di sua proprietà neppure la casa sul Palatino, dove egli dimorava con la propria famiglia5.

Si è evidentemente in presenza di una confusione tra le due principali «casse» dello Stato (erario pubblico e fisco imperiale) non solo non degna di un Augusto, ma nemmeno di un qualsiasi senatore provvisto di un minimo di buon senso. È molto difficile tuttavia che da parte di Marco Aurelio possa trattarsi di una semplice «confusione», a meno che non si tratti di una «confusione» voluta. Si è in presenza di un aspetto fondamentale di quella che ad altro proposito G.R. Stanton ha potuto definire una «scissione» profondissima tra il Marco Aurelio filosofo e il Marco Aurelio Augusto. È una «scissione» che rinvia con forza a quelle accuse di ipocrisia dalle quali l’imperatore-filosofo si sarebbe difeso con forza, come si avrà modo di vedere, almeno secondo l’Historia Augusta (e dunque secondo Mario Massimo) fino a poco prima di morire, contro quanti lo accusavano di «non essere così franco come lo erano stati [Antonino] Pio e [Lucio] Vero»: era un’accusa di «ipocrisia» che quasi paradossalmente accostava Marco Aurelio ad Adriano, il quale da parte sua avrebbe solo finto «mitezza», nel caso specifico solo ed esclusivamente per non dover subire una morte come quella che era toccata a Domiziano6.

Di fatto, durante tutto il suo impero, va osservato – e questo aspetto del suo carattere sarà esaminato a lungo – come lo stesso Marco si sia fatto portatore di un vero e proprio «familismo amorale», per utilizzare un’espressione coniata dagli antropologi moderni a definire la mancanza di «moralità» (non di «moralismo») nell’uso a volte assolutamente spregiudicato dei membri della propria famiglia. Come si avrà modo di mettere in rilievo, questo «familismo amorale» riguarda in primo luogo le sue nozze, egli ancora un semplice Cesare, con l’Augusta Faustina. In effetti il giovane Marco Aurelio non esitò a rompere la sua promessa di matrimonio con Ceionia Fabia, figlia dello scomparso Lucio Ceionio Commodo, il successore designato di Adriano, per sposare appunto la figlia di Antonino Pio, per dichiarato ed esplicito volere di quest’ultimo. In queste condizioni, com’è subito chiaro, il matrimonio di Faustina con Marco non fu e non poteva essere un matrimonio che potrebbe definirsi felice, ma piuttosto ancora una volta secondo l’Historia Augusta un’unione di «parata», costellata dai diversi tradimenti (veri o falsi essi fossero) che sempre l’Historia Augusta non mancava di attribuire alla stessa Faustina nei confronti del «povero» Marco Aurelio, fino al punto di poter sostenere che lo stesso Commodo non fosse figlio di Marco, ma nato invece da uno dei tanti gladiatori e marinai con cui sempre Faustina avrebbe amato intrattenersi. Altrettanto notevole è la notizia, proveniente sempre dalla Historia Augusta e sulla quale si avrà modo di tornare ripetutamente, che agli amici che gli chiedevano almeno di ripudiare (se non di fare uccidere) una moglie così impudica, Marco avrebbe risposto che tanto un ripudio quanto un’uccisione erano semplicemente impossibili dal momento che l’Augusta Faustina, figlia di Antonino Pio, costituiva per lui la «dote» dell’impero e, appunto in quanto «dote», la stessa Faustina doveva comunque implicitamente rimanere al suo fianco come moglie, se egli stesso voleva conservare il suo titolo di Augusto7.

Di un analogo «familismo amorale» fu «vittima», se si volesse usare questo termine, la figlia dello stesso Marco, Lucilla. Ella infatti fu data in sposa in prime nozze a Lucio Vero, il «fratello» per adozione di Marco: com’è subito chiaro, l’imperatore-filosofo, costantemente rappresentato come alieno dall’indulgere in tutto a ogni interesse di tipo personale, con questo matrimonio intendeva legare indissolubilmente alla sua persona un «fratello» che gli era stato imposto dalle disposizioni successorie di Adriano (era il figlio del successore designato di Adriano Lucio Ceionio Commodo) e che, in quanto tale, anche Antonino Pio, per lealtà nei confronti del suo predecessore, era stato costretto ad adottare, benché gli preferisse evidentemente Marco. Era tuttavia un «fratello» con un carattere estremamente diverso da quello di Marco. Nonostante, come si avrà modo di vedere, l’Historia Augusta rappresentasse Marco come la somma di tutte le virtù e Vero come la sentina di tutti di vizi, a dividere profondamente i due Augusti erano non solo differenze profondissime di carattere. Secondo Cassio Dione, infatti, Marco sarebbe stato tutto dedito fin dalla giovinezza alla filosofia e connotato da una certa debolezza fisica, Vero invece sarebbe stato di costituzione molto più robusta e più incline alla guerra e al comando degli eserciti. Fu comunque in seguito, dopo il 166, con la fine della campagna partica condotta vittoriosamente a termine da Vero, che sarebbero emerse divergenze profondissime soprattutto a proposito di un aspetto fondamentale della politica dell’imperatore-filosofo verso i barbari del Nord. Infatti, a differenza di Marco, Lucio Vero sembra che avesse preso atto di una circostanza fondamentale: mentre Marco Aurelio avrebbe voluto che i confini dell’impero fossero spostati dal confine costituito dal Reno a quello rappresentato invece dall’Elba, il «fratello» Vero, da questo punto di vista in modo molto più concreto, credeva impossibile, se non addirittura velleitario, questo spostamento. A suo avviso infatti (come si deve implicitamente ritenere) sarebbe stato impossibile mantenere in maniera stabile presìdi legionari nei nuovi territori sottratti ai barbari, anche ammesso che fosse possibile conquistarli, soprattutto per le enormi spese che tutti questi stanziamenti legionari avrebbero comportato per l’erario del popolo romano.

Sempre Lucilla – e siamo in presenza di un aspetto di quello che potrebbe definirsi ancora una volta il grande «opportunismo» di Marco – dopo la morte di Lucio Vero, che sopravvenne nel 169, fu costretta dal padre a sposare l’anziano Pompeiano, un valoroso generale che già aveva seguito l’imperatore-filosofo in tutte le sue campagne militari, per supplire evidentemente all’inesperienza bellica di Marco. Come si vedrà a tempo debito, queste nuove nozze almeno molto affrettate (Marco non consentì alla figlia neppure di rispettare i mesi del rituale «tempo del lutto», doveroso a Roma per ogni vedova) avvennero contro la volontà della diretta interessata e soprattutto di sua madre, l’Augusta Faustina, che riteneva il matrimonio di sua figlia, essa stessa un’Augusta, con Pompeiano, non solo straniero ma anche privo di nobili natali, assolutamente inadeguato al rango di Lucilla. È comunque un matrimonio che si spiega nel migliore dei modi non appena si pensi, come già era avvenuto con il «fratello» Lucio Vero, alla necessità di Marco Aurelio di legare indissolubilmente a sé Pompeiano, rendendolo addirittura suo genero e introducendolo in tal modo almeno collateralmente nella casa imperiale (la domus Augusta), in modo tale che lo stesso Pompeiano continuasse, dopo la morte di Vero, a seguirlo lealmente nelle sue campagne contro i barbari tanto sul fronte del Reno quanto su quello del Danubio8.

Quando esaltano l’imperatore-filosofo, come si vedrà alla fine di questa ricerca, molti storici moderni, a differenza tuttavia di quelli antichi (da Cassio Dione ed Erodiano fino alla tarda Historia Augusta), dimenticano, o tralasciano, un punto evidentemente fondamentale: che, in virtù del suo «familismo amorale», fu appunto Marco Aurelio a mettere definitivamente termine all’impero adottivo, quello che a partire inizialmente da Nerva e fino allo stesso Marco e a Lucio Vero si era fondato (o aveva finto, come si è già sottolineato, di fondarsi) sulla scelta del «migliore». Evidentemente non è stato difficile per la storiografia moderna più attenta e in qualche modo «smaliziata» osservare con grande semplicità come da Nerva ad Antonino Pio nessuno degli imperatori che man mano si succedettero sul trono possedesse propri figli maschi, supplendo a una simile mancanza grazie alla parentela che le proprie pronipoti, nipoti o figlie, una volta date in sposa, stabilivano con chi essi avevano designato. Poiché tuttavia Marco Aurelio aveva un proprio figlio maschio, sebbene sempre secondo l’Historia Augusta nel profondo del suo animo lo disprezzasse, ritenendo che sarebbe stato un pessimo successore, un successore degno di Caligola, Nerone e Domiziano (i peggiori tiranni che avessero seduto sul trono dei Cesari), sempre e comunque per quello stesso «familismo amorale» che aveva caratterizzato tanto i suoi rapporti con la moglie quanto con la figlia, non esitò neppure un istante a scegliere per tempo come successore il figlio Commodo. Appare chiaro così, ammesso che ci sia bisogno di una ulteriore dimostrazione, che la stessa scelta del «migliore», su cui Plinio il Giovane diceva fondarsi l’impero adottivo, è solo quello che potrebbe essere definito una sorta di «fantasma» storiografico (tanto antico quanto moderno) allo scopo di dissimulare la reale mancanza di figli maschi, con l’avvertenza però che lo stesso Plinio il Giovane non aveva mancato di augurare a Traiano che a succedergli fosse un figlio proprio, con l’adozione vista solo come un espediente di ripiego in mancanza di figli maschi9.

Forse, in prospettiva, la colpa più grave di Marco Aurelio (come già gli aveva rimproverato verso la fine dell’Ottocento Victor Duruy) fu quella di non aver compreso, egli che conosceva tutte le dottrine filosofiche quasi a menadito, la grande rivoluzione spirituale apportata dal cristianesimo, ma di aver prestato credito, come si vedrà, insieme a quel popolino ignorante (cui Duruy addossava il ruolo maggiore nelle persecuzioni) che egli stesso disprezzava, alle accuse più inverosimili e infamanti mosse ai seguaci della nuova religione: soprattutto l’infanticidio e l’incesto. È stato tanto inevitabile quanto necessario esaminare a lungo le durissime persecuzioni che, a differenza della grande tolleranza dimostrata in proposito da Adriano e da Antonino Pio, si abbatterono contro i seguaci di Cristo durante tutto il suo impero. Se la più totale incomprensione dell’imperatore-filosofo nei confronti dei Cristiani è espressa esplicitamente dallo stesso Marco in un brano dei suoi Pensieri, si spiega nel migliore dei modi il carattere assolutamente nuovo di queste stesse persecuzioni che, a differenza di quanto era avvenuto nel corso degli imperi di Traiano, Adriano e Antonino Pio, ora erano condotte per la prima volta attraverso una vera e propria ricerca d’ufficio.

Non è possibile evidentemente quantificare il numero di coloro che patirono il martirio a partire almeno da un anno intorno al 176, quando Marco, ormai unico Augusto, promulgò i suoi «nuovi decreti» contro i Cristiani: «nuovi decreti», come si sottolineerà a tempo debito, con cui si introduceva allora per la prima volta la ricerca d’ufficio. Il numero dei morti dovette essere comunque altissimo se persecuzioni infuriarono dall’Asia Minore a Roma e fino alle Gallie. Non si ha qui la benché minima intenzione di ergersi in qualche modo a moralisti, appena si pensi alle vittime, nel secolo scorso, dei pogrom nella Russia zarista, in Ucraina e in Polonia, o alla shoah che mieté circa sei milioni di vittime durante il genocidio hitleriano. Si può e si deve comunque limitarsi a constatare che l’imperatore-filosofo, che predicava nei suoi Pensieri la fratellanza di tutti gli uomini, evidentemente nel suo arcigno disprezzo non riteneva i Cristiani propri confratelli ma, in quanto a suo avviso nemici del sistema politeistico romano, avversari da combattere senza alcuna pietà e senza tregua.

Come si osserverà grazie alla documentazione fornita soprattutto da Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica, a partire, in Oriente, dalla provincia d’Asia, passando per Roma, fino a giungere in Occidente alle Tre Gallie, dovettero essere – attestandosi su una stima non molto elevata – molte migliaia i Cristiani che subirono il martirio. Però, come dimostra almeno per quanto riguarda le Gallie il senatoconsulto di Marco Aurelio (e Commodo) pervenuto grazie alla tavola bronzea di Italica nella Spagna Betica e a un frammento in marmo da Sardi in Asia Minore, mandare i Cristiani al martirio, soprattutto in determinate circostanze – quando ricorrevano le grandi feste provinciali o quelle che erano in rapporto con ricorrenze da celebrarsi per gli anniversari connessi agli Augusti (a commemorazione dei loro genetliaci o di grandi vittorie imperiali) –, era anche un modo per i sacerdoti provinciali, molto spesso essi stessi senatori, di sostituire con le morti spettacolari di Cristiani, bruciati vivi, divorati dalle belve o sottoposti alle torture più atroci fino a una morte inevitabile, i costosissimi giochi gladiatori cui il popolo di ogni città di provincia (non solo a Roma) era bramoso di assistere e ai quali quegli stessi sacerdoti provinciali dovevano provvedere a proprie spese. Si trattava dunque di un modo molto astuto da parte loro per non dover acquistare gladiatori da chi commerciava in questo tipo di combattenti (gli esosi lanistae) e sottrarsi così a un onere pesantissimo che gravava ogni anno su di essi.

Naturalmente, il senatore che nella tavola di Italica esprime per primo il suo parere, dopo aver ascoltato il discorso degli Augusti Marco Aurelio e Commodo, non ha difficoltà nel sostenere che «il denaro di questi principi è sacro, incontaminato da ogni spargimento di sangue umano». Tuttavia, lo stesso atteggiamento del legato delle Gallie, mentre attendeva la risposta sempre di Marco sul tipo di pena da riservare ai cittadini romani che si erano dichiarati Cristiani, anche in quei giorni di attesa, cui seguirà un responso implacabile, almeno nel racconto di Eusebio di Cesarea, lo vede estremamente accondiscendente non solo nei confronti della «folla ignorante», che di propria iniziativa ha cominciato fin dall’inizio a vessare gli adepti alla religione di Cristo in tutte le maniere possibili e immaginabili, ma anche verso i più alti notabili di Lione e di Vienne, molto probabilmente da doversi identificare con quei sacerdoti provinciali che avrebbero dovuto provvedere di lì a poco a organizzare i giochi gladiatori. Come si avrà modo di vedere a suo tempo, è evidentemente impossibile che lo stesso legato, come pure è stato supposto, potesse agire a Lione in senso contrario agli ordini del suo imperatore e che quindi, esponendosi in caso contrario a ritorsioni gravissime da parte del proprio Augusto, agisse di sua personale iniziativa solo per compiacere i desideri della «folla ignorante» e quelli dei sacerdoti provinciali. Non rimane dunque che prendere atto che il legato delle Gallie, in assenza del governatore, nel 177 si sia rigorosamente attenuto agli ordini impartitigli da Marco, in un anno che lo vedeva impegnato ancora una volta sul fronte del Reno.

Pertanto, ogni tentativo da parte di un largo settore della storiografia moderna, che ha cercato di togliere questa sorta di marchio di infamia al «buon» imperatore-filosofo (come faceva già Ernest Renan facendo cadere alcuni episodi di martirio, come quello di Policarpo, sotto Antonino Pio, in questo seguito più recentemente da Marta Sordi, che da parte sua ha ritenuto i «nuovi decreti» diretti dal «mite» Marco solo contro estremisti eretici quali erano i Marcioniti o i Valentiniani), si è rivelato assolutamente vano, dal momento che lo stesso Marco Aurelio fu a tutti gli effetti non solo un persecutore, ma anche un persecutore feroce. Lo scopo di queste persecuzioni non può neppure individuarsi in una volontà di difesa dell’ordine costituito poiché, a parte episodi abbastanza sporadici sopravvenuti soprattutto nella provincia d’Asia, dove l’estremismo di Marcioniti e Valentiniani si dispiegava con maggiore virulenza, lo stesso non può certo dirsi di altre comunità, sia in Oriente che in Occidente, le quali non solo seguivano la più rigida ortodossia della Chiesa di Roma, ma come Atenagora, in Asia, e in seguito Tertulliano, in Africa, non avrebbero mai mancato di dichiarare la propria incondizionata lealtà sia verso l’impero dei Romani, sia verso lo stesso Marco Aurelio10.

Una pista che si è rivelato indispensabile percorrere di nuovo, benché essa fosse stata presa in considerazione almeno a tratti nella biografia di Anthony Birley e in modo più dettagliato in quella precedente di Franco Carrata Thomes, è quella relativa da un lato ai rapporti di Marco con il senato e il popolo di Roma, dall’altro lato alle riforme da lui introdotte per quanto riguardava l’amministrazione delle città dell’Italia e delle province e a proposito della sua legislazione su schiavi e liberti. Per quanto riguarda i rapporti dell’imperatore-filosofo con il senato essi sono descritti evidentemente come idilliaci dall’Historia Augusta, che non mancava di mettere nel dovuto rilievo il grande ossequio dello stesso Marco nei confronti di quell’assemblea; in modo analogo, avrebbe sempre dimostrato il massimo rispetto nei confronti del popolo, come si sarebbe fatto in una «città libera».

Tuttavia, quanto al senato, è stato necessario mettere nel dovuto rilievo come, sempre secondo l’Historia Augusta, lo stesso Marco non avrebbe mancato di immettere nell’assemblea i propri amici più cari, con la conseguenza, evidentemente voluta, di mutare di fatto i rapporti di forza tra i suoi diversi membri, tanto più se i suoi amici venivano immessi direttamente tra gli ex-pretori e gli ex-edili, dunque nei ranghi più alti di quella stessa assemblea. Quanto al popolo, che secondo l’Historia Augusta avrebbe avuto durante il suo impero lo stesso ruolo che aveva avuto nella libera repubblica, si è con tutta evidenza di fronte a un’affermazione erronea, appena si pensi che ormai da molto tempo i suoi poteri più importanti, compreso quello di eleggere i magistrati superiori (consoli e pretori), erano passati di fatto nelle mani sia del senato sia dell’Augusto allora al potere.

È però sempre l’Historia Augusta a fornire una notizia preziosa, anzi fondamentale, sulle reali attitudini dell’imperatore-filosofo nei confronti dei propri concittadini che, almeno secondo quanto egli stesso dichiarava nei suoi Pensieri, avrebbero dovuto godere tutti degli stessi e identici diritti. Al contrario, con Marco Aurelio si assiste, come si avrà modo di vedere, a una bipartizione del corpo civico che né l’età repubblicana né, prima di lui, quella imperiale avevano mai conosciuto: una bipartizione fondata sul rango, che vedeva per la prima volta i cittadini romani distinti in via ufficiale – si potrebbe sostenere – in cittadini «di prima classe» (gli honestiores, fossero essi senatori o cavalieri) e cittadini «di seconda classe» (che d’ora in poi saranno definiti humiliores). Con una conseguenza anche, e forse soprattutto, di estremo rilievo per quanto riguarda le pene che essi avrebbero dovuto subire sulla base dei reati commessi: pene non più uguali per tutti (senatori, cavalieri, plebei), ma differenziate invece appunto secondo il rango del colpevole: per uno stesso crimine pene più lievi per membri del senato e dell’ordine equestre, molto più dure al contrario nel caso in cui si fosse trattato di plebei.

Benché questa distinzione introdotta da Marco abbia avuto larghissima fortuna, tanto da essere basilare ancora in epoca tardoantica, essa è un indizio molto chiaro di quello che non può tardare a definirsi l’animo profondamente «reazionario» dell’imperatore-filosofo: egli infatti, suddividendo i propri concittadini secondo il rango (con pene diverse a proposito di uno stesso crimine), mostrava ancora una volta la «scissione» profonda sempre attiva nel suo animo: se infatti nei suoi Pensieri in quanto filosofo tutti gli uomini dovrebbero essere uguali (teoricamente uguali dunque anche di fronte alla legge), egli di fatto come Augusto non ebbe alcuna esitazione a distinguerli, contraddicendo in tal modo addirittura se stesso.

Quanto alle innovazioni introdotte da Marco nella prassi giudiziaria dei suoi predecessori, è l’Historia Augusta a contraddire questa volta se stessa quando da un lato sottolinea la particolare attenzione dello stesso Marco al corretto svolgimento dei processi (al punto da far aumentare i giorni in cui essi potevano svolgersi), mentre d’altro lato sostiene – e si può aggiungere in questo caso a ragione – che sempre Marco avrebbe preferito attenersi all’«antico diritto», quello già in uso, piuttosto che introdurvi elementi innovativi. Con un’aggiunta però, ancora una volta secondo l’Historia Augusta, estremamente significativa: che Marco, quasi conscio della sua incompetenza in questo campo, non solo aveva sempre al suo fianco i prefetti al pretorio, ma anche le sue leggi erano sempre promulgate a rischio e pericolo degli stessi prefetti, mentre per i casi più controversi avrebbe fatto costantemente ricorso ai pareri del cavaliere Quinto Cervidio Scevola, uno dei più insigni giurisprudenti del suo tempo11.

Quanto alle innovazioni introdotte da Marco nell’amministrazione delle città dell’Italia e delle province, esse erano assolutamente necessarie per le condizioni soprattutto di ordine economico in cui versavano quelle stesse città: condizioni economiche che le guerre condotte da Marco non avevano mancato di rendere notevolmente più gravi. Appunto per venire incontro alle esigenze delle assemblee cittadine (le curie) e dei membri più abbienti dei diversi centri, più o meno grandi, che costellavano l’impero, e sui quali gravavano gli oneri più cospicui tanto della tassazione ordinaria quanto di quella straordinaria, furono potenziati da Marco Aurelio i «curatori di città». Costoro, inviati dal potere centrale, avevano finalità ben precise: recuperare, per esempio, beni del demanio cittadino usurpati da privati, provvedendo in tal modo a rendere più solide le «casse» pubbliche cui attingevano i curiali in ordine al pagamento delle tasse dovute. Di fatto, come si avrà modo di mettere in rilievo, il loro ruolo poteva essere percepito dagli stessi curiali e dal resto della popolazione come altamente positivo, se molti «curatori di città» poterono addirittura divenire patroni dei centri dove avevano ricoperto la propria curatela. Marco Aurelio provvide a stabilire inoltre un nuovo sistema per il censimento dei liberi, che anche nelle province si sarebbe tenuto come a Roma presso i «prefetti dell’erario». Era un modo soprattutto per alcuni provinciali di rivendicare la loro condizione di liberi, arrecando di necessità a questo scopo la documentazione relativa.

Naturalmente, da buono stoico, che si era nutrito fin dalla giovinezza delle dottrine dello schiavo Epitteto, l’imperatore-filosofo durante tutto il suo impero ebbe sempre un’attitudine estremamente favorevole nei confronti degli schiavi, soprattutto a proposito del comportamento spesso non propriamente benevolo, o addirittura inumano, dei padroni nei loro confronti. Se in questo poteva dirsi un seguace dello stoico Seneca, la sua attitudine nei confronti degli schiavi lo accostava anche, e in questo caso – come si avrà modo di vedere – quasi paradossalmente, a quegli odiati Cristiani che consideravano i loro schiavi anche come propri confratelli. Sempre Marco Aurelio, quando era in discussione per un individuo il suo statuto di schiavo o di liberto, sembra dalla sua legislazione in materia che privilegiasse costantemente questa seconda eventualità, soprattutto nel caso che si trattasse di schiavi liberati, come avveniva abbastanza di frequente nell’impero ellenistico-romano, per via testamentaria12.

Un altro aspetto di rilievo, questa volta fondamentale per quanto riguarda la politica dello stesso Marco Aurelio, deve essere fatto consistere – come si vedrà – nella sua politica fiscale che, se non innovava quanto avevano già fatto per il prelievo di imposte straordinarie i suoi predecessori a partire da Traiano, in certo modo lo «istituzionalizzava», rendendo stabile un tipo di prelievo fiscale che prima avveniva solo in circostanze eccezionali. Antonino Pio, il predecessore di Marco Aurelio, come sosteneva sempre l’Historia Augusta, aveva costantemente evitato di lasciare Roma, demandando le campagne militari avvenute anche nel corso del suo lunghissimo regno a propri legati. Una simile attitudine del previdente Antonino, che si limitò a recarsi nelle sue ville imperiali oppure a spingersi al massimo fino in Campania, veniva spiegata, sempre dall’Historia Augusta, in base alla volontà dello stesso Antonino di non gravare con tasse ulteriori (evidentemente straordinarie) su quei provinciali i cui territori avrebbe attraversato con il suo seguito e, in caso di guerra, con un esercito.

Con Marco Aurelio, al contrario, quella che fino ad allora era stata una tassazione straordinaria – l’annona militare (militaris annona), destinata al mantenimento del seguito dell’imperatore (i suoi comites) e delle truppe che lo accompagnavano – divenne di fatto una tassa ordinaria. Il motivo di una simile trasformazione è molto semplice da spiegarsi: se con Traiano, Adriano e Antonino Pio le guerre erano state o guerre di conquista, come quelle di Traiano nei confronti della Dacia, o guerre difensive contro i barbari (fossero essi Britanni, Mauri, Germani o Daci, o anche i Taurisci che nel Ponto erano giunti fino a Olbiopoli, come nel corso del regno di Antonino Pio), le guerre di Marco Aurelio, soprattutto quelle contro Iazigi, Quadi e Marcomanni, che a partire dal 168 avrebbero costantemente impegnato Marco fino alla fine della sua vita, tenderanno di necessità a trasformare quella che in passato era una tassazione «straordinaria» in un’imposta a tutti gli effetti ordinaria e consueta, per il permanere dello stato continuo di guerra.

Poiché i barbari già nel 168 avevano tentato di invadere addirittura l’Italia, come si vedrà fino ad assediare Aquileia, questa tassazione in passato – come si è detto – «straordinaria» sarà pretesa da Marco anche in Italia, con l’avvertenza fondamentale che gli abitanti dell’Italia, tutti indifferentemente al di qua delle Alpi, godevano del ius Italicum, quel «diritto degli Italici» che in quanto tali, alla pari di tutti i cittadini romani, li rendeva immuni da ogni tipo di tassazione. Marco naturalmente ritenne che anche gli Italici dell’Italia settentrionale dovessero pagare questa tassa «straordinaria» poiché essa era indispensabile alla difesa delle loro città. Se in queste sue considerazioni era nel vero, tuttavia in tal modo egli metteva fine, e per sempre, a un diritto secolare di cui gli Italici avevano goduto da tempo immemorabile.

Per quanto riguarda le riforme amministrative decise dall’imperatore-filosofo, esse appaiono evidentemente condizionate dalle sue pressanti preoccupazioni per le guerre in corso. Sui «curatori di città» ricadeva il compito di provvedere nel migliore dei modi, e all’evenienza alleggerendo anche gli oneri fiscali che ricadevano sui membri delle assemblee cittadine, al prelievo delle imposte soprattutto per le tasse di leva, quando sui singoli centri per lo più delle province ricadeva l’ingrato compito di fornire soldati per l’esercito. A sua volta l’istituzione dell’annona militare, che Denis van Berchen, come si vedrà, aveva attribuito a Settimio Severo, in base a testimonianze antiche di cui non è più possibile dubitare, va invece retrodatata di qualche decennio e attribuita a Marco Aurelio. Sono, entrambi, due elementi che da parte loro tendono a connotare la politica economica di Marco in senso notevolmente più dirigista o, comunque, molto meno liberale di quanto molti storici moderni abbiano ritenuto.

Allo stesso Marco Aurelio, dopo circa un secolo e mezzo in cui il fino in argento del denarius (la moneta d’argento, quella in uso per le spese quotidiane) era rapportato in modo sostanzialmente corretto al contenuto in oro dell’aureus (la moneta soprattutto dei ceti senatori), si deve – come è stato dimostrato – la prima «svalutazione» del denarius, con conseguenze evidentemente negative per i ceti meno abbienti, per quegli stessi humiliores che sempre l’imperatore-filosofo si era premurato di distinguere dagli honestiores, un ceto a lui evidentemente più caro. Di nuovo, quella «svalutazione» del denarius, attribuita all’imperatore-soldato Settimio Severo per supplire con denarii «svalutati» alla mancanza di liquidità per pagare il soldo alle truppe, va abbassata di alcuni decenni, in quanto il primo a operare una «svalutazione» del denarius fu appunto Marco Aurelio, anch’egli, come poco più tardi Settimio Severo, per far fronte al pagamento degli stipendi ai propri soldati13.

A questo punto si può tornare a quanto aveva sostenuto nell’ormai lontano 1939 Jérôme Carcopino, quando metteva in rilievo come la vera crisi dell’impero non avesse avuto inizio né sotto Commodo né sotto Settimio Severo ma, diversamente da quanto avevano sostenuto gli storici antichi Cassio Dione ed Erodiano, già sotto Marco Aurelio. Si è in presenza di un aspetto fondamentale non solo a livello di cultura materiale ma – come mise in rilievo anche Ranuccio Bianchi Bandinelli – di cultura artistica. Da insigne storico dell’arte qual era, Ranuccio Bianchi Bandinelli non poteva mancare di confrontare la colonna coclide di Traiano con quella di Marco Aurelio, eretta in onore dell’Augusto dal senato e dal popolo dopo la sua morte: «Nella Colonna Traiana si riconosce al nemico vinto fierezza nella lotta, valore e dignità morale; nella Colonna Antonina c’è solo ignavia seguita da distruzione. C’e una variazione di contenuto che segna una variazione di clima morale e di concezione intellettuale che si allontana dall’obiettività storica»14. E di fatto, proseguiva, «l’ingresso dell’irrazionale nell’arte di questo tempo», dunque nell’età di Marco Aurelio, va evidentemente di pari passo con l’allontanamento «dall’obiettività storica».

In realtà, a parte l’uso massiccio del trapano (che prelude a un uso analogo sui sarcofagi di III secolo) per conferire maggiore drammaticità alle rappresentazioni raffigurate sui singoli pannelli, va anche messo in rilievo come nella colonna Antonina Marco Aurelio tenda quasi sempre ad essere rappresentato frontalmente, dunque come il vero protagonista di quelle guerre. Da un simile punto di vista Donald Strong ha potuto a sua volta sottolineare come questa caratteristica postura richiami analoghe attitudini dell’arte religiosa in Oriente, dove il culto imperiale era attivo fin da epoca augustea15.

A sua volta, più di recente, Gilles Sauron ha affermato «che Marco Aurelio è rappresentato quasi sempre in un’attitudine analoga e talvolta addirittura identica a quelle delle due divinità rappresentate in grandi dimensioni e in localizzazioni strategiche sul fregio da un punto di vista ottico: il dio Danubio, al suo inizio, e la Vittoria, in centro». Queste notazioni evidentemente debbono ritenersi preziose. Se Traiano nella sua colonna è rappresentato come un Augusto poderoso per le sue vittorie, ma dove è egemone soprattutto il suo carattere di uomo (benché di uomo di eccezione), Marco Aurelio, ormai morto, nella sua colonna in maniera chiaramente emblematica, è quasi assimilato a una divinità. È un’assimilazione che non può e non deve stupire appena si pensi che la colonna era in evidente rapporto con il «tempio del divo Marco» (templum divi Marci) eretto dal figlio Commodo, quando il padre fu introdotto per decreto del senato nel novero dei divi16.

Marco Aurelio, l’imperatore-filosofo, come dimostrano le sue posture sulla colonna Antonina, dopo la sua morte, ed evidentemente a opera del senato, subisce dunque una trasformazione, se si guarda in prospettiva, non troppo inaspettata: da uomo a divinità, con l’avvertenza tuttavia che almeno in questa stessa colonna tale trasformazione deve intendersi a tutti gli effetti come ormai già avvenuta mentre, conducendo le sue guerre interminabili, egli evidentemente era ancora in vita. È un destino un po’ singolare appena si torni alle sue stesse considerazioni, espresse nei Pensieri, quando esortava se stesso a non «cesarizzarsi»17.

È un destino tuttavia che non può e non deve stupire dopo il lungo cammino percorso: poiché, com’è chiaro, nonostante ogni richiamo alla sua condizione umana sempre presente nei Pensieri – una condizione umana in quanto tale da condividersi con tutti i propri simili –, lo stesso Marco durante tutti gli anni del suo lunghissimo regno, anche fingendo grazie a quell’ipocrisia di cui, come si è visto, lo accusavano in molti, si sentì di fatto superiore agli altri. Si trattava di un sentimento di superiorità che gli conferiva un’altissima coscienza di se stesso, anzi quello che potrebbe definirsi un vero e proprio «egotismo». Tutte le malattie di cui soffriva (in primo luogo le continue emicranie, di sicuro psicosomatiche) non avevano minimamente alterato questo sentimento, anzi forse poterono addirittura aumentarlo grazie alle pozioni con cui lo curava il suo medico Galeno18: si trattava di pozioni che contenevano notevolissime quantità di oppio e che, una volta assorbite quotidianamente, avevano reso a tutti gli effetti lo stesso Marco un oppiomane, con tutte le conseguenze che una simile dipendenza non poteva non comportare per un Augusto sul trono.

Forse il rimprovero che verrà mosso a questa analisi dell’impero di Marco Aurelio sarà quello di aver tentato di ricostruire in tutti i suoi aspetti le varie fasi di un regno in modo forse non troppo benevolo nei confronti del suo protagonista, diversamente da molte monografie di pura e semplice esaltazione. Tuttavia, se il compito dello storico è quello di indagare in profondità e senza pregiudizi quanto realmente avvenne, si può sostenere che qui ci si è solo limitati a raccontare: narrare e non affabulare, dal momento che il genere letterario dell’affabulazione non è di pertinenza del mestiere dello storico, ma di quello molto più alto, almeno ad avviso di chi scrive, del romanziere.

1 Vedi infra, pp. 191-93.

2 Vedi infra, pp. 36-37.

3 Vedi infra, pp. 38, 42.

4 Vedi infra, pp. 70 sgg.

5 Vedi infra, rispettivamente pp. 129-30, 132 nota 3 e 181.

6 Vedi infra, p. 218 con nota 14.

7 Vedi infra, p. 38.

8 Vedi infra, pp. 80-81.

9 Vedi infra, p. 39.

10 Vedi infra, rispettivamente, pp. 99 e 125.

11 Vedi infra, p. 132 con nota 3.

12 Vedi infra, pp. 145-47.

13 Vedi infra, pp. 202 sgg.

14 R. Bianchi Bandinelli, Dall’Ellenismo al Medioevo, Roma 1978, pp. 111-12 (già in Id., Osservazioni sulla forma artistica in Oriente e in Occidente, in Tardo antico e alto Medioevo. La forma artistica nel passaggio dall’Antichità al Medioevo, in «Atti del convegno internazionale di studi sul tema», n. 105, Accademia dei Lincei, Roma 1968, pp. 289 sgg.).

15 D. Strong, Roman Art, London 1976, p. 112.

16 G. Sauron, Une innovation du symbolisme gestuel sur la colonne Aurélienne: la «convention optique», in J. Scheid-V. Huet (a cura di), Autour de la colonne Aurélienne. Geste et image sur la colonne de Marc Aurèle à Rome, Turnhout 2000, p. 247. Per la connessione della colonna con il «tempio del divo Marco» si veda, per esempio, S. Maffei in LTUR I, 1993, pp. 302-305. Per la colonna Traiana è doveroso il rinvio soprattutto a S. Settis (a cura di), La colonna Traiana, Torino 1988.

17 Marco Aurelio, Pensieri VI 30: «Stai attento a non cesarizzarti, a non farti macchiare dalla porpora, come è consueto che avvenga».

18 Vedi infra, p. 23.