Prologo.
La fine della «belle époque»

Quando, nel clima ansioso per lo scoppio ormai vicinissimo della seconda guerra mondiale, Jérôme Carcopino, futuro ministro collaborazionista della Repubblica di Vichy, scrisse la sua Vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero, la competenza indubbia dello studioso offriva un affresco estremamente composito e molto rutilante degli aspetti della vita materiale e religiosa, degli usi e dei costumi, delle consuetudini e dei vizi di una generazione di Romani nata sotto Nerone (54-68) e vissuta fino ai tempi di Adriano (117-138)1. Dunque, attraverso una simile opera i lettori di quei tempi potevano ritrovare con agio la Roma e il popolo di Roma che forse non avevano mai smesso di sognare: ricostruiti entrambi a loro misura o, piuttosto, a misura della loro epoca. Mentre la più assoluta presa di distanza tra passato e presente e i frequenti rinvii alla vita contemporanea, nel tentativo di chiarire la vita quotidiana del passato, aumentavano irresistibilmente il piacere della lettura, a impoverirsi con conseguenze – com’è chiaro – assai gravi era la specificità di una vita urbana ricostruita soprattutto sulla scia di Petronio, di Marziale e Giovenale, come una lunga serie di episodi gustosi e di quadretti di genere, sui quali era eventualmente possibile esercitare una sorta di divertito e mondano moralismo, forse da parte di uno storico altrettanto mondano.

Le stesse caratteristiche dell’epoca prescelta – l’«apogeo dell’impero», sulla base del presupposto, già allora abbastanza discutibile, che questo felice «apogeo» fosse ben presto destinato a una «crisi» ineluttabile – se da un lato non potevano non conferire alla descrizione di questa vita quotidiana i toni di una specie di belle époque destinata a un tramonto abbastanza rapido, d’altro lato e quasi in modo inevitabile potevano far ritenere come unici e tipici della generazione trascorsa tra Nerone e Adriano abiti e consuetudini sociali, usi e pratiche di vita quotidiana che non solo avevano evidentemente alle spalle una loro lunga storia, ma possedevano – come non tarda a essere chiaro – anche un proprio futuro e, potremmo aggiungere, un futuro assai lungo.

Tuttavia, lo stesso Carcopino non mancava di osservare con molta tristezza: «Ora le guerre di Traiano, specialmente la sua seconda campagna dacica [...] sono le ultime in cui l’impero abbia trionfato senza difficoltà e senza delusioni. Dopo i principati gloriosamente pacifici dei suoi successori, Adriano e Antonino Pio, sopraggiungeranno con Marco Aurelio le mezze vittorie pagate a caro prezzo, le resistenze spossanti, e finalmente le invasioni e i rovesci, che disseccano la grande sorgente del rifornimento degli schiavi, e si può già prevedere il momento in cui la schiavitù, condannata dalla rarefazione delle prede di guerra a ripiegare su se stessa, si troverà nell’impossibilità di sostenere la colonna montante sulla quale si reggeva nelle precedenti generazioni l’economia romana»2.

In tal modo, a prescindere da ogni ulteriore valutazione dell’imperatore-filosofo, lo storico moderno, forse a sua insaputa e quasi inconsciamente, nel momento in cui faceva cominciare il «declino» dell’impero già ai tempi di Marco Aurelio, «correggeva» in qualche modo la valutazione che del passaggio dall’impero di Marco a quello di Commodo avevano dato due storici antichi poco più tardi rispetto ai fatti narrati: il senatore Cassio Dione e, al polo opposto del ceto sociale, Erodiano, che – come dichiarava egli stesso – era stato un pubblico funzionario, al servizio di corte. Diceva Cassio Dione: «Ora discendiamo da un regno dell’età dell’oro [quello di Marco] a uno dell’età del ferro [il regno di Commodo]». Anche Erodiano evocava la preoccupazione di Marco Aurelio per il figlio forse troppo giovane, da lui stesso prescelto alla successione, mettendo termine di fatto alla scelta del «migliore» che aveva caratterizzato l’impero adottivo: «E ancora più lo preoccupavano gli episodi meno antichi, il cui ricordo era ancora fresco: i misfatti di Nerone, che giunse fino a uccidere la madre e offrì di sé un risibile spettacolo alle plebi; la sfrenata violenza di Domiziano che non arretrò di fronte all’estremo della crudeltà. Rievocando queste immagini di tirannide, si sentiva prendere dal timore e dallo sconforto», a proposito – com’è chiaro – del futuro governo del figlio, consigliato in primo tempo soprattutto dagli amici di Marco, cui lo aveva affidato, ma in seguito dai suoi amici propri, nei confronti dei quali lo stesso Marco Aurelio nutriva la più profonda diffidenza3.

Di fatto, sarà appunto il «declino» dell’impero già sotto Marco Aurelio, e non sotto il figlio «tirannico» Commodo, a guidare la nostra indagine sull’imperatore-filosofo, quasi unanimemente esaltato nella stessa storiografia moderna per le sue indubbie virtù, le sue lunghissime guerre combattute contro i barbari che cercavano di penetrare nell’impero, e che di fatto giunsero fino ad Aquileia, soprattutto per la sua sopportazione di disgrazie familiari, per la «tolleranza» – come vedremo – nei confronti sia dei grandi vizi attribuiti (ingiustamente) al suo collega e fratello adottivo Lucio Vero, sia di una vera e propria usurpazione da parte di un personaggio che si era rivelato in passato a tutti gli effetti come uno dei suoi più valenti collaboratori, Avidio Cassio. Comunque, prima di passare, capitolo per capitolo, alla storia del suo impero, si impone come di necessità una ricerca prioritaria: come Marco Aurelio sia stato visto e come di conseguenza la sua figura sia stata interpretata nella storiografia moderna, a partire dall’Illuminismo fino a quella più recente e accreditata.

1 Vedi J. Carcopino, La vie quotidienne à Rome à l’apogée de l’Empire, Paris 1939 (trad. it., La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero, con introduzione di E. Lepore, Roma-Bari 200512 [I ed. 1967]). Risultano ancora fondamentali, sebbene troppo spesso almeno apparentemente dimenticati, J. Marquardt, Das Privatleben der Römer, I-II, Leipzig 18862; L. Friedländer, Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms in der Zeit von August bis zum Ausgang der Antonine, I-IV, Leipzig 1919-21; cfr. inoltre, per esempio, U.E. Paoli, Vita romana, Firenze 1946. Sono importanti anche i contributi di P. Brown e di P. Veyne in Ph. Ariès-G. Duby (a cura di), Histoire de la vie privée, I, Paris 1985, rispettivamente pp. 230 sgg. e 23 sgg. (trad. it., La vita privata, vol. I. Dall’Impero romano all’anno Mille, Roma-Bari 1986). Per la vita quotidiana in epoca repubblicana, F. Dupont, La vie quotidienne du citoyen romain sous la République. 509-27 a. J.-C., Paris 1989 (trad. it., La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Roma-Bari 1990).

2 J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma cit., p. 76.

3 Cassio Dione, LVII 36, 4; Erodiano, I 4, su cui vedi F. Càssola (testo e versione di), Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, Firenze 1967; per la visione «plebea» di Erodiano, vedi S. Mazzarino, 1966, II 2, p. 206.