Edward Gibbon, nella sua monumentale History of Decline and Fall of Roman Empire, pubblicata a partire dal 1782, dunque in piena età illuministica, dedicava – con un’attitudine che potrebbe apparire almeno singolare appena si pensi allo spazio che l’imperatore-filosofo aveva trovato, per esempio, in un Tillemont – solo un brevissimo accenno a Marco Aurelio. Mentre negava l’esistenza di qualsiasi editto a favore dei Cristiani in seguito all’intervento del loro Dio nel famoso episodio della «pioggia miracolosa», accogliendo invece la tradizione che faceva intervenire Giove attraverso Mercurio (torneremo a lungo su questa problematica), alla fine poteva brevemente concludere: «Durante tutto il corso del suo regno, Marco disprezzò i Cristiani come filosofo e di conseguenza li punì come sovrano»1. Non può evidentemente stupire da parte di Gibbon questo lapidario giudizio appena si pensi che – com’è ben noto – la prima ispirazione della sua opera sul «declino» dell’impero romano fu suscitata in lui durante un suo soggiorno romano, mentre in pieno Foro – allora una massa di rovine che emergevano dal Campo Vaccino –, preso da una grande tristezza per la fine di un passato definitivamente tramontato e trascorso, udiva i lugubri inni che i pii frati intonavano e che provenivano evidentemente dalla vicina chiesa di Santa Maria Antiqua2.
Non è un caso forse che la prima monografia «moderna» su Marco Aurelio fosse opera di un allievo di Bartolomeo Borghesi, il più grande «antiquario» dell’Ottocento italiano, colui in cui Theodor Mommsen aveva riconosciuto il suo «unico maestro»3. Di fatto, Noël Des Vergers, che anch’egli si dichiarava come Mommsen allievo di Borghesi, dopo la morte di quest’ultimo scrisse e gli dedicò un suo Essai sur Marc-Aurèle d’après les monuments épigraphiques, Paris MDCCCLX. Se Des Vergers affermava a chiare lettere che il piano originario dell’opera era dovuto allo stesso Borghesi («io debbo il piano [dell’opera] ai suoi consigli»), non è certamente difficile comprenderne l’impostazione di fondo. Dopo aver messo in rilievo la scarsità o la poca affidabilità delle fonti (Cassio Dione nei sunti molto più tardi di Zonaras e Xifilino, le biografie della Historia Augusta – non solo quella dello stesso Marco, ma anche di Lucio Vero e di Avidio Cassio –, i pochi cenni di Erodiano e i tardi riassunti di Aurelio Vittore e di Eutropio, i rilievi della colonna Antonina e gli stessi Pensieri dell’imperatore-filosofo), Des Vergers, evidentemente sulla scia del magistero borghesiano, si propose un percorso molto diverso: «Vediamo se ci sarà possibile dedurre dai documenti contemporanei, soprattutto dalle iscrizioni, qualche dettaglio ignorato sulle istituzioni di un sovrano, il cui nome ci ricorda l’epoca più felice dell’umanità nel corso della lunga durata del suo impero». A proposito di Faustina, che avrebbe spesso tradito Marco Aurelio secondo l’Historia Augusta, Des Vergers non mancava da parte sua di dare, su Marco, un giudizio assolutamente negativo: «Non avrebbe dovuto un giorno fare in modo che fossero resi onori divini a una moglie che aveva disonorato il suo nome»; per quanto riguardava la scelta come successore di Commodo il suo giudizio era assolutamente analogo: «Si preferirebbe, conoscendo la condotta di Faustina, credere, con qualche storico del suo tempo, che fosse il figlio di un gladiatore». Dopo aver messo in rilievo «il degrado delle classi aristocratiche», attribuiva la malvagità di Commodo ai cattivi maestri: «Commodo aveva allora dodici anni. Marco Aurelio era assente, occupato dalla campagna contro i Marcomanni [...]. È questo che lo scusa, se egli può aver fatto una cattiva scelta dei maestri cui un padre affida il proprio figlio», come se lo stesso Des Vergers ignorasse che il suo «buon» Marco Aurelio, nel momento stesso in cui si era premurato mentre ancora era in vita di designare il suo unico figlio alla successione, in tal modo aveva messo fine di fatto allo stesso impero adottivo. Per quanto riguardava i Pensieri e i rapporti dello stoico Marco con il cristianesimo, non mancava inoltre di aggiungere, dopo aver parlato del mutamento dello stoicismo nel corso del secondo secolo: «È nella dottrina depurata di Marco Aurelio che questo cambiamento ci sembra più evidente; ed è essa oggi ad offrirci per la prima volta una somiglianza incontestabile con la morale evangelica», quasi dimentico di quanto le persecuzioni contro i Cristiani, dopo la grande tolleranza dimostrata nei loro confronti da Adriano e da Antonino Pio, si fossero effettivamente molto intensificate appunto sotto l’imperatore-filosofo4.
A prescindere dall’idea, abbastanza corrente nell’Ottocento, dell’impero di Marco Aurelio come «l’epoca più felice dell’umanità» (con notevoli eccezioni su cui ci soffermeremo subito dopo), Noël Des Vergers si limitava a cercare di ricostruire la storia di quell’impero attraverso i diversi cursus honorum (la progressione delle carriere) dello stesso Marco Aurelio, di Lucio Vero e dei comandanti degli eserciti che avevano combattuto con Lucio Vero nella campagna partica, e con Marco Aurelio e Lucio Vero nelle guerre contro i barbari del Nord, quegli stessi barbari che a partire dal 169 avevano tentato di penetrare addirittura in Italia.
Non tutti però, in Francia (Des Vergers, anche dopo la morte di Borghesi, continuò a vivere in Italia per il resto della sua vita e pertanto non può essere fatto rientrare, benché francese di nascita, nella storiografia propriamente francese), erano d’accordo che l’età di Marco Aurelio fosse stata «l’epoca più felice dell’umanità». Victor Duruy, che al servizio di Napoleone III aveva indubbiamente collaborato con il suo imperatore, cui era legatissimo, all’Histoire de Jules César (Paris 1865-66) ed era autore di una monumentale Histoire des Romains, nel V tomo della prima edizione del 1864, di fatto sostanzialmente invariata rispetto alla seconda del 1883, dava un giudizio non propriamente positivo sull’opera di Marco Aurelio. Per quanto riguardava la sua persecuzione contro i Cristiani, all’inizio del capitolo relativo Duruy poteva affermare: «Il contrasto tra i sentimenti del filosofo e l’esistenza del principe conferiscono alla vita pubblica di Marco un interesse singolarmente tragico». Quindi, sempre a proposito delle sue persecuzioni contro i Cristiani, non poteva non osservare: «Noi non possiamo omettere questa pagina sanguinosa del suo regno», sebbene riconoscesse quasi paradossalmente indubbi contatti tra il suo stoicismo e il cristianesimo («Egli è rimasto la più alta espressione di questo stoicismo depurato che confinava con il cristianesimo senza entrare in esso e senza prendervi nulla»), mettendo comunque e giustamente in rilievo come tra Epitteto e Gesù «si trovasse ancora un abisso, o piuttosto una massa ancora impenetrabile di passioni, di interessi e di superstizioni, che proteggevano l’antico ordine sociale e le sue leggi assassine».
Per quanto riguardava i «nuovi decreti» contro i Cristiani (quei «nuovi decreti» sui quali sarà necessario tornare a tempo debito), Duruy li attribuiva ai governatori di provincia, come se costoro potessero metterli in atto senza il consenso dell’imperatore, dando grande spazio a proposito dei famosi martiri di Lione – su cui torneremo lungamente – non tanto al ruolo svolto dalle autorità provinciali, quanto piuttosto allo scatenarsi della «folla» ignorante («in tutti i tempi, in tutti i paesi, la passione, la paura forniscono alle eccitazioni oscurate accuse che esse accettano con avidità»). Le critiche poi continuavano a proposito dello stesso Marco Aurelio e del suo entourage: «Marco Aurelio filosofeggiava troppo, e questi retori, filosofi, ai quali conferiva i fasci consolari, dovevano essere singolari uomini di Stato, a giudicare da quello che per noi resta il più celebre, Cornelio Frontone. Raccontano che, al momento di partire per la sua ultima campagna, l’imperatore fece a Roma tre lunghe conferenze sulle dottrine delle diverse scuole. È eccellente che ci sia molta filosofia nella sua vita interiore e alla vigilia della morte; ma altre preoccupazioni dovevano occupare il principe all’inizio di una grande guerra».
Un altro grande rimprovero che Duruy non mancava di muovere a Marco Aurelio era quello di aver posto fine all’impero adottivo che si era sempre fondato (o piuttosto, come vedremo, aveva tentato di fondarsi) sulla scelta del «migliore», privilegiando invece l’eredità dinastica e scegliendo come proprio successore il figlio Commodo («il saggio, davanti ai cui occhi venivano meno tutti i privilegi, credette che suo figlio, che era nato in fasce di porpora, vi avrebbe trovato lo scettro dell’impero»).
Lo stesso Duruy concludeva, quasi con un senso di rammaricata tristezza: «Bisogna dire che, sedotti da questa purezza, la storia dà a questo imperatore un posto troppo grande. Nel suo regno di diciannove anni, non si trovano istituzioni nuove, né una buona guerra, né una buona pace; solo un gran libro. È molto per un pensatore, è troppo poco per il capo di un impero. Poniamolo dunque nel numero degli uomini cui dobbiamo il massimo rispetto; ma non mettiamolo nel rango dei principi che hanno meritato il meglio per il loro paese: Platone sosteneva, e Marco Aurelio ripeteva con lui, ‘Felici i popoli se i filosofi sono re o se i re praticano la filosofia!’. A ciascuno il suo compito: il filosofo alla scuola ed il principe agli affari»5.
È necessario sottolineare e mettere in rilievo un punto fondamentale a proposito del V tomo dell’Histoire des Romains di Victor Duruy. Tra la prima edizione del 1864 e la nuova edizione del 1883 era stato pubblicato nel 1882, come settimo libro della sua altrettanto monumentale Histoire des origines du Christianisme, il Marc Aurèle di Ernest Renan: opera che ebbe ai suoi tempi una diffusione e un successo enormi. A questo proposito è necessario almeno constatare un punto di rilievo evidentemente non secondario: Victor Duruy non tenne il benché minimo conto del Marc Aurèle di Renan, a parte una citazione molto marginale a proposito di Faustina6. La ragione di ciò è molto facile da spiegarsi. Renan infatti dava di Marco Aurelio un’immagine assolutamente diversa da quella di Duruy, offrendo dell’imperatore-filosofo la rappresentazione del sovrano ideale e concentrandosi anche (com’era evidentemente negli scopi della sua opera) soprattutto sui rapporti tra Marco Aurelio e il cristianesimo, in uno stadio avanzato del suo sviluppo, con gli occhi rivolti non solo alla Chiesa ortodossa, a partire naturalmente da quella di Roma, ma anche e forse soprattutto alle eresie gnostica e marcionita e al grande sviluppo delle religioni orientali nell’impero dei Romani.
Così Renan poteva esordire, con evidente riferimento a Marco Aurelio: «Antonino [Pio] è come un Cristo che non avrebbe avuto un Vangelo; Marco Aurelio è come un Cristo che sarebbe stato egli stesso a scrivere il proprio». Quindi: «Da parte mia, penso che uno Stato non sarebbe ben governato che quando un sovrano, conoscendo e temendo il vero Dio, giudichi tutto sapendo che a sua volta sarà giudicato davanti a Dio, e i sudditi, temendo a loro volta Dio, si facciano scrupolo di far torto al loro sovrano e gli uni agli altri». Nella sua rappresentazione, evidentemente troppo idealizzata per essere vera, dell’imperatore-filosofo, lo stesso Renan in qualche modo non tardava a contraddire se stesso, sebbene dovesse naturalmente conoscere bene quale giudizio dava Marco Aurelio a proposito dei Cristiani nei suoi Pensieri. Per quanto riguardava le guerre di Marco Aurelio contro i barbari che tentarono addirittura di penetrare in Italia, sempre Renan poteva sostenere (com’è chiaro, ancora sotto la forte impressione della guerra franco-prussiana del 1870 e della caduta di Napoleone III, che ne era conseguita): «Il vero pericolo era al di là del Reno e del Danubio. Lì vivevano, in una minacciosa oscurità, popolazioni energiche, in maggior parte di razza germanica, che i Romani non conoscevano molto se non come fedeli e belle guardie del corpo [...], o in quanto superbi gladiatori che, svelando di colpo nell’anfiteatro la bellezza della nudità dei loro corpi, facevano scoppiare l’ammirazione del pubblico»7.
Renan, se a proposito dei Germani citava un passo di Tacito tratto appunto dalla sua Germania, dimenticava tuttavia di citare Cesare, al quale si deve, grazie a un’osservazione diretta che si potrebbe attualmente definire di carattere «antropologico», una distinzione di fondo: quella tra Celti e Germani8. I Romani dunque conoscevano molto bene il mondo celtico e quello germanico già molto prima delle campagne di Marco Aurelio, e da queste conoscenze anch’egli o, piuttosto, i suoi comandanti avranno avuto evidentemente modo di trarre il vantaggio più grande. In presenza di simili affermazioni si tocca un punto fondamentale di tutta la ricostruzione che Renan diede dell’imperatore-filosofo: la sua sconfinata ammirazione per Marco Aurelio, nel cui pensiero egli identificava il trionfo della «ragione» – quella stessa «ragione» su cui si fondava l’intero complesso delle sue riflessioni che potrebbero definirsi teoretiche –, domina a tutto campo la figura del suo «eroe», di cui non cessava di tessere lodi incondizionate9.
Tuttavia, poiché il Marc Aurèle era parte integrante della Histoire des origines du Christianisme, il problema più complesso e difficile da risolvere erano per Renan i rapporti assolutamente conflittuali che avevano visto contrapporsi il suo «eroe» (il «buon» imperatore Marco Aurelio) ai Cristiani, con le grandi persecuzioni che ne erano conseguite dopo che queste stesse persecuzioni erano di fatto quasi cessate durante gli imperi di Adriano e di Antonino Pio10. In simili condizioni Renan non esitava a «riabbassare», per discolparne appunto il suo Marco, il martirio di Policarpo al 154, sotto Antonino Pio, contro le esplicite testimonianze di Eusebio e di Girolamo che lo ponevano invece verso il 172, quando ormai Marco era unico Augusto, allo stesso modo del martirio di Pionio a Smirne, di Giustino a Roma, mentre (stranamente, per un grandissimo storico del cristianesimo) appariva come assolutamente ignaro dei martirii patiti a Pergamo da Carpo, Popilo e Agatonice11.
I Pensieri di Marco Aurelio sembravano a Renan addirittura una sorta di Imitazione di Cristo: «Il libro di Marco Aurelio, dal momento che non ha alcuna base dogmatica, conserverà in eterno la sua freschezza. Tutti, a partire dall’ateo o da chi si ritiene tale, fino all’individuo più compreso nel credo particolare di ciascun culto, possono trovarvi frutti edificanti. È il libro più puramente umano che esista». Con la riserva di tornare in seguito sui Pensieri quando esamineremo le «Testimonianze» a proposito dell’impero di Marco, va già sottolineata al contrario la natura quasi esclusivamente compilativa di quest’opera, che si limitava a riassumere pensieri abbastanza, o molto, correnti nell’ambito della filosofia stoica da Epitteto a Zenone e Crisippo, al punto che Enrico Turolla ha potuto sostenere: «quale fascino abbia esercitato su di lui il libro di Epitteto traspare da ogni pagina dei Ricordi; ma più ancora che le singole frasi e i singoli pensieri ha importanza l’influsso che Epitteto ebbe in tutta la concezione della vita di Marco Aurelio», mentre a sua volta Carlo Carena ha osservato: «La ragione vera dell’interesse di questo libro non è la sua celebrata serenità, il modello di un saggio divinamente sereno, ma all’opposto il travaglio di una ricerca mai conclusa, la prova deludente di uno sforzo teorico astratto dalla complessità del reale»12.
L’enorme importanza che Renan attribuiva alle eresie di Marcione e di Valentino, e più in generale al diffondersi delle religioni orientali all’interno dell’impero, gli serviva in qualche modo a «confondere le acque». Possono ritenersi esemplari da un simile punto di vista i martiri di Lione del 177. A questo proposito Renan non esitava a esordire: «Disgraziatamente l’autorità cedette. Gli ultimi due o tre anni di Marco Aurelio furono rattristati da spettacoli assolutamente indegni di un sovrano così perfetto». La colpa naturalmente, come già non aveva esitato a fare Victor Duruy, veniva addossata alla «folla», una «folla» di ignoranti, e inoltre al popolino, ai Frigi, agli Asiatici che praticavano «superstizioni perverse». Com’è chiaro, sotto il nome di Frigi e di Asiatici non tarderemo a vedere i Marcioniti e i Valentiniani, essi stessi in aperto contrasto con la Chiesa ortodossa di Lione. Se pure avremo modo di tornare a parte sui martiri di Lione, metropoli delle Gallie, là dove sorgeva l’altare di Roma e Augusto, si osservi qui come Renan da un lato non potesse non esaltare questi martiri, in primo luogo il cittadino romano Attalo e la schiava Blandina, e dall’altro lato fosse costretto di fatto a constatare che l’imperatore-filosofo, attraverso il legato delle Gallie, aveva macchiato la sua immagine con questa inumana serie di martirii che certo non si confacevano alla tolleranza di colui che lo stesso Renan avrebbe voluto che fosse un osservatore «imparziale». Del resto il disprezzo di Marco Aurelio per i Cristiani è documentato da un celebre passo dei suoi Pensieri13.
Una raccolta di saggi, oggi forse giustamente dimenticata, di Gaetano Negri (Meditazioni vagabonde. Saggi critici, Milano 1897) conteneva un capitolo, che non si può esitare a definire notevolmente sorprendente, su I «Ricordi» di Marco Aurelio e le «Confessioni» di sant’Agostino (pp. 97-224). Gaetano Negri, un progressista rosminiano, si affrettava comunque a prendere le distanze fin dall’inizio appunto da Renan: «Alla mitologia naturalista venne a sostituirsi la mitologia filosofica. La cosa fu possibile perché, come vedremo in altri studi, quella metafisica religiosa poté innestarsi sopra una figura divina, reale, vivente, la quale ha dato al cristianesimo un’efficacia sul sentimento umano, che non sarebbe stata concessa ai sottili fantasmi del pensiero filosofico»14.
Il cattolico Negri, anche se progressista, non poteva evidentemente condividere la «fede nella ragione» che aveva caratterizzato nel suo complesso tutta l’opera di Renan, un Renan se non «ateo» almeno agnostico. Nonostante le grandi lodi rivolte al Renan orientalista e studioso delle lingue semitiche, il suo giudizio sull’Histoire des origines du Christianisme non poteva che essere polarmente diverso, tanto da affermare: «Io non esito a dire che il Renan, come pensatore, negli ultimi anni ha perduto gran parte della sua efficacia». Anche sul presente e sull’avvenire le sue idee erano completamente diverse: «Stordito ed accecato dai dolorosi avvenimenti ai quali assisteva [Negri alludeva evidentemente alla sconfitta della Francia da parte della Germania nel 1870], ma che, nel grande complesso dell’evoluzione umana, non sono che episodi insignificanti e passeggeri, egli vide, nel movimento democratico in cui è travolta la società moderna, la sconfitta della ragione e, rinnegando le sue speranze giovanili, egli corse all’estremo opposto e proclamò la necessità dell’oligarchia scientifica». Tuttavia, ancora secondo Negri, che si dimostrava sostanzialmente non solo molto più ottimista ma anche molto più democratico: «Il vero è che la società presente è incomparabilmente meglio organizzata della società passata, e la società futura lo sarà meglio della presente, appunto perché il dominio della ragione si va allargando nelle moltitudini». Ed ancora: «Il Renan pensatore è una personalità supremamente interessante, per alcuni aspetti ammirabile, per altri assai discutibile, la quale deve essere studiata più come un sintomo, come un segno dei tempi che per il risultato da lui ottenuto e per la solidità delle idee da lui lasciate». A proposito di Renan, Negri, contrapponendogli Bauer e la sua Kirchengeschichte der ersten drei Jahrhunderte, poteva dunque concludere: «Chi vuole farsi un concetto chiaro e largo dell’evoluzione dell’idea cristiana non legga il libro elegante del francese, legga il libro ruvido del tedesco»15.
Se dunque il giudizio di Negri sull’Histoire des origines du Christianisme era assolutamente negativo, per la problematica che ci interessa più da vicino passeremo ora al suo saggio successivo: quello che aveva come argomento I «Ricordi» di Marco Aurelio e le «Confessioni» di sant’Agostino. L’accostamento e il confronto tra le due opere, tra loro diversissime non solo perché una scritta da un Augusto pagano e l’altra da un vescovo cristiano, si presentano evidentemente molto audaci. I Pensieri di Marco Aurelio Gaetano Negri li giudicava quasi un primo passo: «È il lungo soliloquio di un uomo il quale fruga nella coscienza, per analizzare i moventi più riposti, per esortarla, impedirle di deviare dal retto cammino; di un uomo il quale essendo essenzialmente religioso, e non avendo religione, si compone una religione del dovere, basandola su una specie di fatalismo ottimista»16.
Un simile giudizio va comunque rettificato su due punti fondamentali. Marco Aurelio non solo era religioso, ma addirittura religiosissimo almeno nei confronti del pantheon politeistico romano, a partire da Giove Ottimo Massimo, come dimostrano – se ce ne fosse bisogno – i suoi stessi Pensieri. Per quanto riguarda il «fatalismo ottimista» di Marco, basti mettere in rilievo come tutti i suoi Pensieri siano posti sotto il segno della morte che incombe, quasi ne fosse la tetra protagonista, su tutti gli esseri umani e, più in particolare, sullo stesso imperatore-filosofo. Come ha messo in rilievo Carlo Carena, «La morte, ‘mistero della natura’ al pari della nascita, lungi dallo stimolare una rêverie poetica, la problematica viva, si fa disagio sempre presente, che il saggio cerca sino alla fine di fugare ragionando». Ed ancora Max Pohlenz: «L’essere individuale si perde nello spazio e nel tempo, come nei quadri di Caspar David Friedrich una figura umana svanisce nell’immensa vastità del paesaggio. Nella vita materiale non c’è nulla che abbia stabilità o valore. Tutt’al più, per un romano, potrebbe conservare qualche prestigio la gloria. Ma quale reale importanza può avere il giudizio delle masse che oggi ti onorano come un dio e domani ti condanneranno? [...] Questa via sembra sboccare nel più disperato pessimismo»17.
Tuttavia può ritenersi molto significativo che lo stesso Negri fosse di fatto costretto a riconoscere: «Si ha, nei Ricordi di Marco Aurelio, come un’impressione di freddo, si ha un senso di vuoto. Questa moralità così rigorosamente razionale non basta. Non avendo un substrato veramente scientifico, non ha base sufficientemente larga e sicura e, insieme, vi manca l’emozione, lo slancio, l’impeto di un’anima che si effonde nella letizia d’aver trovato l’oggetto che la infiamma d’amore e di speranze immortali. Manca, infine, in Marco Aurelio, tutto quello che troveremo in S. Agostino». Gaetano Negri non solo si contraddiceva quando, nel saggio precedente Ancora su Ernesto Renan, aveva alluso a «una specie di fatalismo ottimista», alludendo al contrario qui a «un’impressione di freddo», a un «senso di vuoto», quello che sottende il vero e il sostanziale pessimismo di Marco, ma lo stesso confronto, a più di un secolo di distanza, deve considerarsi anche e soprattutto profondamente erroneo. I Pensieri di Marco e le Confessioni di Agostino sono due opere evidentemente inconfrontabili. Nella prima è raccolta una lunga serie di riflessioni molto sparse, frammentarie e personali che Marco Aurelio – com’è chiaro – dettò a un suo scriba lontano da Roma, mentre combatteva contro i barbari sul versante renano e danubiano; le Confessioni di Agostino sono al contrario un’opera scritta e lungamente meditata dal vescovo di Ippona nella calma e nel raccoglimento interiore che poteva offrirgli la sua diocesi18.
Se il rosminiano Negri si inquadra molto bene nel periodo del pontificato «progressista» di Gregorio XIII, tuttavia nella stessa Francia la critica più aspra e radicale al Marc Aurèle di Renan doveva venire da una figura tanto emblematica dei tempi in cui visse quanto almeno per più aspetti «contorta», come fu a tutti gli effetti (anche politicamente) quella di Georges Sorel. Sorel, che nel 1905 dedicava una sua opera specifica al «sistema storico di Renan», accusava lo stesso Renan di aver approfittato della scarsità delle fonti per comporre, a proposito di Marco Aurelio, un vero e proprio «romanzo storico», che avrebbe dovuto fare da pendant alla Vita di Gesù; inoltre sempre il Marc Aurèle sarebbe stato il frutto di una riflessione troppo invecchiata e calcolatrice. Il volume sarebbe stato scritto per venire incontro alla fantasia di quanti, alla sua comparsa, indulgevano all’idea di «progresso», presentando lo stesso Marco come un eroe della morale estranea allo spirito religioso. Invece, tutto al contrario, sarebbe stato appunto l’impero di Marco Aurelio a provocare riflessioni mistiche e a partire «dai suoi tempi si sarebbe riconosciuta, sperimentalmente e definitivamente, l’impotenza della saggezza ufficiale»; si sarebbero constatati inoltre i limiti dello stoicismo e si sarebbe visto che l’utopia dei moralisti non poteva resistere soprattutto – e giustamente, come si vedrà in seguito – alla pratica economica. Inoltre, e per concludere, le preoccupazioni del successo letterario avrebbero sopraffatto in Renan la coscienza di uno storico vero e proprio, mentre Sorel sottolineava allo stesso tempo tutta l’importanza, per la ricostruzione anche economico-sociale di un impero, dell’archeologia: quella stessa archeologia di cui Renan non avrebbe tenuto alcun conto e che – almeno a suo avviso – «ci dà informazioni piuttosto sulle classi che sui singoli individui»19.
Sarebbe troppo lungo, e in definitiva non molto proficuo, ripercorrere qui la storiografia moderna su Marco Aurelio fino alle tante monografie, forse troppo spesso di pura esaltazione, dedicate all’imperatore filosofo, come quelle di H.D. Sedgwick, P. Matheson, M. Loisel, F.H. Hayward, U. Wilamowitz, W. Goerlitz, L. Homo, P. de Proyat, J. Romains, fino ai due profili molto più equilibrati di Carrata Thomes e Anthony Birley con la messa a punto, altrettanto equilibrata, di G.R. Stanton20.
A conclusione di questa breve, ma necessaria, rassegna degli studi dedicati a Marco Aurelio, non possiamo non accennare a quello che è stato definito il «dualismo» della sua personalità, come se in lui si fossero contrapposte due identità a tutti gli effetti diverse, al punto che alcuni studiosi, anche molto dotti, quasi in modo «freudiano», o in Francia «prelacaniano», non hanno esitato a studiare il «personaggio» Marco Aurelio come se l’imperatore si fosse disteso sul divano di uno psichiatra, di uno psicanalista o seduto in poltrona di fronte a uno psicoterapeuta, riconoscendo comunque nello stesso Marco turbe mentali evidentemente molto serie destinate a condizionarne l’operato durante tutto il suo impero21. E di fatto, anche nella vita materiale dell’imperatore-filosofo non c’era nulla che avesse stabilità e valore, se egli stesso non esitava a sostenere nei suoi Pensieri: «Chi subisce il dominio di gloria presso i posteri non pensa che ognuno di quanti lo ricorderanno scomparirà ben presto, e che lo stesso avverrà dei suoi successori, fin quando ogni ricordo di lui, passando dall’uno all’altro dei suoi ammiratori mortali, sarà estinto»22.
1 E. Gibbon, History of Decline and Fall of Roman Empire, London 1925, pp. 125-26.
2 Su E. Gibbon, soprattutto S. Mazzarino, Storia romana e storiografia moderna, Napoli 1954, pp. 27-28; G. Giarrizzo, E. Gibbon e la cultura inglese del Settecento, Napoli 1954; A. Momigliano, Gibbon’s Contribution to Historical Method, in «Historia», 2, 1954, pp. 450-63; quindi in Id., Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 195-211; E. Gabba, Adam Ferguson e la storia di Roma, in Alte Geschichte und Wissenschaftsgeschichte. Festschrift für Karl Krist zum 65. Geburtstag, Darmstadt 1988, pp. 202-21; quindi Id., Cultura classica e storiografia moderna, Bologna 1995, pp. 77 sgg.
3 Vedi al riguardo la lettera dello stesso Mommsen pubblicata da L. Wickert, Theodor Mommsen: eine Biographie, II, Frankfurt 1964, p. 126. Cfr. inoltre S. Mazzarino, Il mutamento delle idee sull’antichità classica nell’Ottocento, in «Helikon», 9-10, 1969-70, p. 155; A. Fraschetti, Per Bartolomeo Borghesi: antiquari e «tecnici» nella cultura italiana dell’Ottocento, in Bartolomeo Borghesi. Scienza e libertà, Colloquio internazionale Aiegl (1981), Bologna 1982, p. 136.
4 N. Des Vergers, Essai sur Marc-Aurèle d’après les monuments épigraphiques, Paris MDCCCLX, rispettivamente p. i per i consigli di Borghesi; pp. 2-3 per l’impostazione del suo lavoro; p. 100 su Faustina; p. 75 sulla successione di Commodo; pp. 147 sgg. sullo stoico Marco Aurelio e il cristianesimo.
5 V. Duruy, Histoire des Romains, tomo V, nuova ed. Paris 1883: per le citazioni vedi rispettivamente pp. 178 (per il giudizio iniziale su Marco Aurelio), 204 (sull’entourage filosofeggiante di Marco), 217 (sulla successione di Commodo), 219-20 (su Marco Aurelio e il cristianesimo), 225-26 (sul confronto tra l’insegnamento di Epitteto e quello di Gesù), 228-29 (sui «nuovi decreti» contro i Cristiani), 235 (a proposito del giudizio finale sull’imperatore-filosofo). Per quanto riguarda il giudizio di Marco Aurelio sulla «Repubblica» ideale di Platone va osservato, contrariamente a quanto sosteneva Victor Duruy, che esso era molto più pessimistico: vedi in effetti Pensieri IX 29: «Non sperare in una repubblica come quella di Platone, ma ritieniti soddisfatto di ogni piccolo progresso e tieni presente che non è poco ottenerlo».
6 V. Duruy, Histoire des Romains cit., p. 214 nota 2.
7 E. Renan, Marc Aurèle ou la fin du monde antique, in Id., Histoire des origines du Christianisme, libro VII, Paris 1882, poi in Oeuvres complètes de Ernest Renan, a cura di H. Psichari, 10 voll., Paris 1947-61, vol. V, rispettivamente pp. 742, 751, 780, 899, 914.
8 Vedi in proposito S. Mazzarino, La più antica menzione dei Germani, in «SCO», 6, 1956, pp. 76 sgg.; quindi (con aggiunte) Id., Il basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana, II, Bari 1980, pp. 119 sgg.; Id., 1966, II 1, pp. 202 sgg.; quindi A. Fraschetti, Giulio Cesare, Roma-Bari 20052, pp. 42-44.
9 Vedi in genere la monografia dedicata a Renan da J. Chaix-Ruy, Ernesto Renan, trad. it., Brescia 1954 (con ulteriore bibliografia ivi citata: in primo luogo due monografie di H. Psichari); cfr. inoltre R. Dessaud, Notice sur la vie et les travaux de Ernest Renan, Paris 1951, soprattutto pp. 111 sgg.; Id., L’oeuvre scientifique d’Ernest Renan, in «CRAI», 1945, pp. 532 sgg.; su Renan semitista in particolare A. Meillet, Renan linguiste, in «Journal de Psychologie normale et pathologique», 2, 1932, pp. 331 sgg., con il lusinghiero giudizio: «se i dettagli sono superati, viceversa i princìpi svolti in quest’opera si possono insegnare ancor oggi». Cfr. sul fronte opposto il giudizio assolutamente negativo («dilettantismo» di Renan) avanzato a suo tempo da E. Fueter, Storia della storiografia moderna, II, trad. it., Napoli 1970, pp. 309 sgg. Su Renan vedi anche il giudizio assolutamente diverso di R. Aron (cit. in J. Chaix-Ruy, Ernesto Renan cit., p. 281 nota 4): «Renan è assolutamente incapace di formule precise, non passa da una verità precisa ad un’altra. Tocca, saggia, ricava delle impressioni e questa parola dice tutto. La filosofia, le generalizzazioni non sono per lui che il riflesso delle cose, l’eco delle cose in lui. Egli non possiede un sistema, ma punti di vista, sensazioni». Cfr. inoltre S. D’Elia, Il basso impero nella cultura moderna dal Quattrocento ad oggi, Napoli 1967, pp. 279 sgg., che riporta il giudizio di E. Fueter, Storia della storiografia moderna, II cit., p. 313, dove Renan, insieme a Burckhardt, è collocato tra gli «studiosi della storia come oggetto di godimento artistico». Infine, su Renan e la Germania, G. Sorel, Germanesimo e storicismo in E. Renan, in «La critica», 20, 1931, pp. 110-14. Su Sorel e Renan vedi infra, p. 18.
10 Sul rescritto di Adriano a Minucio Fundano, secondo cui i Cristiani possono essere puniti solo se colti in flagrante violazione di una legge, e su quello di Antonino Pio al Koinon d’Asia, vedi infra, pp. 93 sgg.
11 Per la cronologia del martirio di Policarpo e di Giustino sotto Antonino Pio, E. Renan, Marc Aurèle cit., p. 567. A proposito di questa stessa datazione vedi la bibliografia citata infra, p. 103 nota 12.
12 E. Renan, Marc Aurèle cit., p. 907: «Le livre de Marc Aurèle, n’ayant aucune base dogmatique, conservera éternellement sa fraîcheur. Tous, depuis l’athée ou celui qui se croit tel, jusqu’à l’homme engagé dans les croyances particulières de chaque culte, peuvent y trouver des fruits d’édification. C’est le livre le plus purement humain qu’il y ait». Cfr. invece i giudizi molto diversi di C. Carena (a cura di), Marco Aurelio. I Ricordi, Torino 1986, p. xv; E. Turolla, Marco Aurelio Antonino. I Ricordi, Milano 19973, nell’introduzione di M. Pohlenz, p. 1 (riportati entrambi infra, p. 17).
13 E. Renan, Marc Aurèle cit., p. 933, a proposito del giudizio su Marco Aurelio e sul ruolo della «folla»; p. 935 sui Frigi e gli Asiatici; pp. 933 sgg. sul martirio in genere; pp. 939-40 e 947 rispettivamente su Attalo e Blandina. A proposito del giudizio sprezzante di Marco Aurelio sui Cristiani vedi infra, p. 93. Sui Marcioniti e i Valentiniani soprattutto E.R. Dodds, Pagans and Christians in an Age of Anxiety. Some Aspects of Religious Experience from Marcus Aurelius to Constantine, Cambridge 1986, passim (trad. it., Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, Firenze 1970).
14 G. Negri, Ancora su Ernesto Renan, in Meditazioni vagabonde. Saggi critici, Milano 1897, pp. 29-94.
15 Ivi, rispettivamente pp. 65, 73, 77, 88.
16 Vedi di nuovo G. Negri, I «Ricordi» di Marco Aurelio e le «Confessioni» di sant’Agostino, in Meditazioni vagabonde cit., p. 101.
17 Vedi rispettivamente C. Carena (a cura di), Marco Aurelio. I Ricordi cit., p. xiv ed E. Turolla, Marco Aurelio Antonino. I Ricordi cit., p. xv, a proposito di Pensieri, rispettivamente IV 23 e XI 8.
18 G. Negri, I «Ricordi» di Marco Aurelio e le «Confessioni» di sant’Agostino cit., pp. 107-8. Sulle Confessioni di Agostino mi basti il rinvio alle pagine fondamentali di P. Brown, Agostino, trad. it., Torino 1971, pp. 150-71.
19 G. Sorel, Le système historique de Renan, III, Paris 1906, pp. 322 sgg. Su Sorel sono fondamentali le considerazioni illuminanti di N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino 1986, pp. 62-63. Da parte nostra, perdoneremo al non antichista Sorel, che attribuiva l’Historia Augusta e più in particolare la Vita Marci ancora all’età di Diocleziano, di non conoscere il saggio rivoluzionario dovuto al «precursore» Hermann Dessau, Über die Zeit und Persönlichkeit der «SHA», in «Hermes», 24, 1889, pp. 337 sgg., che in base ad alcune incongruenze contenute in essa datava l’opera al IV secolo, aprendo da allora ogni futura discussione su quell’opera, la cui datazione è, ed è destinata a rimanere, almeno a mio avviso, oggetto di eterna discussione.
20 H.D. Sedgwick, Marcus Aurelius: A Biography Told as Much as May Be by Letters, together with Some Accounts of the Stoic Religion and an Exposition of the Roman Government’s Attempt to Suppress Christianity during the Marcus’ Reign, New Haven 1921 (rist. anast., New York 1971); P. Matheson, Marcus Aurelius and His Task as Emperor, Cambridge 1922; M. Loisel, La vie de Marc-Aurèle philosophe et empereur, Paris 1929; F.H. Hayward, Marcus Aurelius, a Saviour of Men, London 1935; U. Wilamowitz, Kaiser Marcus, Berlin 1931; W. Goerlitz, Mark Aurel Kaiser und Philosoph, Leipzig 1936 (trad. fr., Marc-Aurèle. Empereur et philosophe, Paris 1962); L. Homo, Le siècle d’or de l’Empire romain, Paris 1947; P. de Proyat, Marc-Aurèle: un empereur citoyen du monde, Paris 1962; J. Romains, Marc-Aurèle ou l’empereur de bonne volonté, Paris 1968. Per due profili più equilibrati vedi Carrata Thomes, 1953 e Birley, 1966, ai quali si deve necessariamente accompagnare la rassegna di G.R. Stanton, Marcus Aurelius, Lucius Verus, and Commodus, in «ANRW», II, 2, 1975, pp. 478-549.
21 Vedi in particolare, e per primi, P. Noyen, «Divus Marcus princeps prudentissimus et iuris religiosissimus», in «RIDA», 1, 1954, pp. 349 sgg. e, appunto contemporaneamente, R. Dailly-M.H. van Effenterre, Le cas de Marc-Aurèle: essai de psychosomatique historique, in «REA», 56, 1954, pp. 347 sgg.; vedi in seguito J.E.G. Whitehorne, Was Marcus Aurelius a Hypochondriac?, in «Latomus», 36, 1977, pp. 413 sgg.
22 Marco Aurelio, Pensieri IV 19.