Una delle caratteristiche essenziali della successione all’impero romano è il suo oscillare, che non tarderebbe a definirsi almeno «scabroso», tra adozione e successione per via ereditaria, in assenza, almeno teoricamente, di quella successione apertamente dinastica che caratterizza invece le monarchie medioevali e moderne. Si è in presenza infatti di una caratteristica che deve essere fatta risalire già all’età di Augusto, di colui che non esitò a trasformare l’antica repubblica nel suo «principato» o, piuttosto, in quello che gli stessi Romani a partire appunto da Augusto definivano principato (il governo di un «principe» affiancato però almeno teoricamente dagli altri «principali cittadini», i principes viri). In tal modo, come Augusto aveva adottato Gaio e Lucio Cesari e poi, dopo la loro morte, Tiberio, a Tiberio successe il figlio di Germanico, figlio a sua volta di Druso Maggiore e di Antonia (nipote del principe), Caligola, e, dopo Caligola, Claudio, fratello a sua volta di Germanico. Dopo il matrimonio con Agrippina Maggiore, Claudio ebbe la sciagurata idea, su ispirazione evidentemente della stessa Agrippina, di adottare il figlio di quest’ultima, Domizio Enobarbo, che dunque assunse anch’egli il nome di Claudio e che, almeno nelle disposizioni testamentarie lasciate dallo stesso Claudio, avrebbe dovuto condividere l’impero con Britannico, l’unico figlio di Claudio, quello che gli era nato dal suo precedente matrimonio con la «spudorata» Messalina. Di conseguenza si può e si deve concludere che per adozione o per parentela diretta i Giulio-Claudii, da Augusto fino a Nerone, costituirono una vera e propria dinastia1.
Dopo la morte violenta del tirannico Nerone e il «lungo anno» (annus longus) del 69 che ne seguì vedendo contrapporsi Galba, Otone e Vitellio, almeno secondo Tacito, questa stessa morte non solo provocò sentimenti diversi nel popolo, nel senato e nelle stesse coorti urbane, ma avrebbe allora per la prima volta svelato il «segreto di Stato» che un Augusto potesse essere acclamato come tale anche «altrove che a Roma». In effetti, Galba era stato acclamato dalle legioni di Spagna (più in particolare da quelle della provincia Tarraconese, di cui era allora governatore), e tuttavia la breve parentesi costituita dalla sua accessione all’impero deve ritenersi estremamente significativa, poiché lui stesso propose per la prima volta, dovendo naturalmente provvedere alla scelta di un proprio successore dopo la ribellione di Otone in Germania, il problema della scelta del «migliore», avvertendo con un lungo discorso in senato che, da parte sua, appunto in quanto il «migliore», avrebbe adottato Sesto Pisone Liciniano:
Galba, presa la mano di Pisone, gli parlò così: «Se io da privato in virtù della legge curiata di fronte ai pontefici ti adottassi secondo la tradizione, sarebbe per me un onore fare entrare nella mia casa il rampollo di Gneo Pompeo e di Marco [Licinio] Crasso, e sarebbe una gloria per te aggiungere alla tua nobiltà il lustro delle genti Sulpicia e Lutazia. Ma poiché la volontà degli dei e il consenso degli uomini mi hanno chiamato all’impero, il tuo carattere eccellente e il tuo amore per la patria mi hanno spinto ad offrirti quel principato, per il quale i nostri antenati combattevano con le armi e al quale io stesso fui chiamato dalla guerra. Te lo offro in pace seguendo l’esempio del divo Augusto che innalzò con sé in un fastigio vicino al suo prima il figlio della sorella Marcello, poi il genero Agrippa, quindi i nipoti e infine il figliastro Tiberio. Tuttavia Augusto cercò il suo successore nell’ambito della propria famiglia, io nella repubblica, non perché non abbia parenti o compagni di guerra, ma perché io stesso non ho accettato l’impero per ambizione e così sia prova della mia saggezza averti anteposto non tanto alle mie parentele, ma anche alle tue»2.
A questo riguardo esiste una notazione di Tacito estremamente caratteristica per quanto riguarda la prosecuzione più tarda di questo «esperimento» nel 96, quando, dopo la congiura che provocò l’assassinio di Domiziano, il senato scelse come Augusto Nerva. Appunto a questo proposito, ma con lo sguardo volto anche a Traiano, sempre Tacito poteva sostenere: «sebbene il Cesare Nerva abbia mescolato un tempo due cose inconciliabili, il principato e la libertà»3. L’adozione da parte di Galba di Sesto Pisone Liciniano in quanto da lui ritenuto il «migliore» era stata tuttavia – anche se, come abbiamo visto, estremamente significativa – una scelta destinata a non verificarsi mai, per la sconfitta e la successiva morte dello stesso Galba in seguito alla vittoria di Vitellio. Quando però Vitellio fu sconfitto a sua volta da Vespasiano, la «chimera» dell’impero adottivo scomparve, poiché a Vespasiano succedettero i suoi figli: Tito, che secondo la tradizione antica si caratterizzò per la sua mitezza e la sua clemenza, e, tutto al contrario, Domiziano, famoso per il suo dispotismo e la sua tirannia4.
Quando però Domiziano fu ucciso da un procuratore di Domitilla, la moglie di Flavio Clemente messo a morte nel 95 dallo stesso Domiziano in quanto accusato di «costumi giudaici» (molto probabilmente era un cristiano), con l’avvento al trono nel 96 dell’ormai anziano Nerva (che forse nelle intenzioni del senato doveva essere solo un imperatore di transizione) il problema della scelta del «migliore» si proponeva di nuovo, poiché Nerva, privo di figli ma non di parenti, nel 98 adottò Traiano facendone a tutti gli effetti il suo coreggente. Sembrava, o voleva apparire, quasi un ritorno agli ideali della tarda repubblica romana, quando Cicerone alla vigilia delle guerre civili – con lo sguardo volto evidentemente a Pompeo – aveva vagheggiato un princeps che restituisse allo Stato legalità e allo stesso tempo ferma gestione del potere5.
Da Nerva a Marco Aurelio (in pratica dal 96 al 180) iniziò dunque quello che siamo soliti chiamare «impero adottivo», poiché nelle intenzioni degli Augusti che proponevano il loro successore, colui che era destinato all’impero avrebbe dovuto essere sempre e comunque il «migliore», almeno nell’ottica di chi lo aveva prescelto. A questa impostazione, non solo a mio avviso molto ideologica ma «ideologizzata» dagli stessi contemporanei (oltre che, è necessario aggiungere, da parte di molti storici moderni), si possono, anzi si debbono tuttavia contrapporre – e di fatto tutto questo è già avvenuto – due circostanze fondamentali: da un lato nessuno degli Augusti scelti attraverso l’adozione del suo predecessore possedeva propri figli maschi; d’altro lato, essi erano tutti imparentati sempre e comunque attraverso le rispettive mogli. Se infatti Antonino Pio nella Historia Augusta aveva potuto sostenere che l’impero non è come una semplice villula (una casetta di campagna) che si può trasmettere in tutta tranquillità ai propri discendenti, tutto al contrario il suo successore e genero Marco Aurelio, a quanti gli proponevano di ripudiare Faustina per i suoi tradimenti e la sua impudicizia, avrebbe risposto: «Se ripudiamo la moglie, bisogna rendere anche la dote», evidentemente facendo riferimento con «dote» a quell’impero che egli stesso aveva ricevuto da Antonino Pio, di cui Faustina era la figlia, benché comunque insieme al «fratello» per adozione Lucio Vero6.
Si è molto discusso fin dall’Ottocento a proposito di queste adozioni eminentemente politiche nella Roma del II secolo. Theodor Mommsen e Léon Homo, da parte loro, si dichiararono per la più totale incompatibilità tra il principato e la sua trasmissione ereditaria da parte dell’imperatore precedente7. Da parte sua, mettendo in rilievo il carattere ereditario dell’impero, diversamente soprattutto da Michail Rostovtzeff, Jérôme Carcopino poté invece definire l’impero adottivo come un puro e semplice «mirage littéraire», un «miraggio letterario» vero e proprio, mentre preferiva parlare da parte sua esplicitamente, in un suo famoso contributo, di «eredità dinastica presso gli Antonini»8. Com’è chiaro, invece, il primo a esaltare una simile procedura – la scelta del «migliore» come Augusto – fu Plinio il Giovane nel suo Panegirico a Traiano. Quando egli vide il proprio «eroe» Traiano, il «migliore», tornato a Roma dopo la morte di Nerva, ascendere al Campidoglio nel 98, sembrava iniziare per lui un’epoca a tutti gli effetti nuova dopo gli anni cupi della tirannide del tristo e dispotico Domiziano (evidentemente molto tristo per senatori quali erano appunto Tacito e lo stesso Plinio il Giovane). Del resto, l’ascesa di Traiano al Campidoglio, più in particolare nel tempio di Giove Ottimo Massimo, deve ritenersi momento essenziale per conferire piena validità ai poteri e all’imperium del nuovo imperatore, che gli erano direttamente trasmessi dallo stesso Giove, poiché è dalla divinità poliade che a Roma dipende l’imperium.
Si osservi tuttavia come nel suo Panegirico Plinio non mostrasse una coerenza assoluta, appunto a proposito di Traiano, per quanto riguarda le modalità che presiedono alla successione imperiale. Egli infatti, sempre a proposito del successore che, evidentemente il più tardi possibile, avrebbe preso il posto dello stesso Traiano, poteva invocare Giove nei termini seguenti: «Ti prego e ti scongiuro [...] che innanzitutto tu lo conservi [Traiano] per i nostri nipoti e pronipoti, quindi che quando gli avrai dato un successore nato da lui, e da lui educato e reso simile a chi è adottato, oppure, se il destino lo nega, che tu sia nel consiglio quando lo sceglie e mostri qualcuno che sia degno di essere adottato in Campidoglio»9.
È dunque più che evidente dedurre da questa affermazione di colui che con il suo Panegirico viene in genere considerato a tutti gli effetti il teorico dell’impero adottivo, che Plinio il Giovane, mentre pregava e supplicava Giove di concedere una lunga vita a Traiano (enfaticamente tanto lunga, o addirittura talmente longeva, da poter sopravvivere persino ai «nostri nipoti e pronipoti»), allo stesso tempo si augurava anche che, se Traiano avesse avuto un figlio, fosse appunto questo figlio a divenire il suo successore o, se un destino sciagurato lo avesse impedito, Giove gli fosse di aiuto quando avesse dovuto cercare qualcuno al di fuori della cerchia della propria famiglia e dei suoi parenti: «qualcuno che sia degno di essere adottato in Campidoglio». Rispetto al precedente costituito da Nerva, la grande differenza – ed è una differenza di estremo rilievo – è la seguente: mentre Nerva, come del resto già Galba, aveva propri parenti cui trasmettere l’impero e invece scelse Traiano appunto in quanto ritenuto il «migliore», lo stesso Plinio anteponeva la discendenza diretta alla scelta del più degno, una scelta tuttavia destinata a passare in secondo piano, quasi si fosse trattato di un espediente di «ripiego», soltanto in assenza di eredi maschi, eredi che Traiano tuttavia di fatto non ebbe.
Sempre a proposito di Nerva, non è certamente privo di significato che lo storico senatore Cassio Dione attribuisca ad Adriano propositi simili alle attitudini dimostrate da Nerva nel corso di un tentativo di congiura nei suoi confronti, quando non prese vendetta contro nessuno dei congiurati: in effetti, sempre secondo l’Historia Augusta, «In una qualche lettera che scrisse al senato, in cui mostrava peraltro i sentimenti più alti, egli giurò che non avrebbe fatto nulla che fosse contrario all’interesse pubblico né avrebbe messo a morte alcun senatore»10. Nonostante che questo giuramento fosse violato da Adriano in modo plateale con la messa a morte o la costrizione al suicidio di quattro consolari nel 118 e nonostante il sospetto che avesse fatto avvelenare la stessa moglie Sabina11, è evidentemente emblematico che all’inizio del suo impero lo stesso Adriano volesse presentarsi al senato come emulo in tutto di Traiano, il suo predecessore.
Sempre a proposito di Adriano e seguendo la pista suggerita «maliziosamente» da Jean Béranger, è tanto necessario quanto doveroso, per chiarire la vera natura dell’impero adottivo, esaminare ora le parentele che, grazie alle rispettive consorti, legano i successivi imperatori da Adriano stesso fino a Marco Aurelio. Adriano prese in moglie Vibia Sabina, che era figlia di Ulpia Marciana, sorella di Traiano, la cui figlia Matidia aveva sposato Vibio Sabino ed era dunque nipote dello stesso Traiano. Il buon Antonino Pio sposò a sua volta Annia Faustina (Faustina Maggiore) che era figlia di Rupilia Faustina, anch’essa figlia di una sorella di Traiano e dunque sua pronipote. Marco Aurelio non mancò a sua volta di prendere in moglie Faustina (Faustina la Giovane), mentre il suo collega Lucio Vero sposò (o, piuttosto, fu costretto a sposare da Marco Aurelio) Lucilla, la figlia dello stesso Marco12. È una successione all’impero dunque che, diversamente da quanto avveniva in passato, adesso non si trasmette più per via maschile ma attraverso donne (le donne della famiglia imperiale, la domus Augusta) che, appunto in quanto rappresentano – come già aveva sostenuto Marco Aurelio – la «dote» del potere imperiale, potranno eventualmente giocare un ruolo politico maggiore di quanto, con pochissime eccezioni (si pensi all’influenza tanto enorme quanto deleteria esercitata da Agrippina su Claudio), ne avessero avuto in passato. Se Santo Mazzarino parlò a suo tempo di «femminismo» a proposito delle donne della domus Augusta, e per quanto riguardava più in generale le donne di rango senatorio nel III secolo13, va sottolineato con forza che è appunto un «femminismo» assolutamente analogo, dopo le considerazioni svolte sul sistema successorio nel II secolo, a caratterizzare nel suo complesso l’intera catena di successioni che vedono susseguirsi sul trono tutti gli Augusti nel lunghissimo periodo dell’impero adottivo.
Per dare la misura del ruolo svolto dalle mogli degli Augusti nella vita politica del II secolo prenderemo le mosse da Adriano. Questi, caduto in disgrazia presso Traiano, «alla fine, grazie alle richieste di [Lucio Licinio] Sura ritornò nell’amicizia di Traiano più pienamente di prima, e ne sposò la pronipote, pronipote di sua sorella, unione che favorì Plotina, ma che Traiano voleva poco, come dice Mario Massimo». A volere con tutte le sue forze questo matrimonio fu dunque Plotina, moglie dell’imperatore, il quale avrebbe ceduto a una simile richiesta solo di mala voglia, come fu del resto sempre Plotina a far nominare Adriano legato nel corso della guerra partica. L’intervento della stessa Plotina secondo l’Historia Augusta sarebbe stato determinante soprattutto nell’adozione di Adriano da parte di Traiano sul letto di morte:
A dire la verità Traiano, secondo una voce ricorrente, avrebbe avuto intenzione di lasciare come successore Nerazio Prisco e non Adriano – una scelta che molti amici avrebbero approvato – al punto che un giorno avrebbe detto a Prisco: «Ti affido le province, se mi capitasse qualcosa di fatale». E molti sostengono anche che Traiano avrebbe avuto l’intenzione, seguendo l’esempio di Alessandro il Macedone, di morire senza lasciare un successore; molti pretendono che avrebbe inviato una sua orazione al senato, per chiedere, se gli fosse accaduto qualcosa, che fosse il senato a dare un principe allo Stato, aggiungendo tuttavia una lista di nomi tra i quali il senato scegliesse il migliore. Non mancano neppure quanti sostengono che, quando Traiano era già morto, Adriano avesse ricevuto l’annuncio della sua adozione attraverso uno stratagemma di Plotina: un altro avrebbe mormorato [il nome di Adriano] con una voce debole come se fosse [stata quella dello stesso] Traiano14.
Un altro matrimonio evidentemente combinato, e in quanto tale molto mal riuscito o anzi disastroso, fu quello di Marco Aurelio con Faustina. Fu un matrimonio «combinato» in questo caso dallo stesso Antonino Pio. Mentre Adriano aveva fatto sì che Marco Aurelio promettesse di prendere in sposa Ceionia Fabia, figlia di quell’Elio Vero che era già stato adottato dallo stesso Adriano ma poi era prematuramente scomparso, Antonino Pio ruppe quella promessa di matrimonio, in modo tale che lo stesso Marco, da lui evidentemente prediletto, potesse sposare sua figlia Faustina, che era del resto cugina germana dello sposo. Dunque in questo caso non è una donna, ma lo stesso imperatore a decidere che il suo successore debba sposare la propria figlia, contravvenendo così alle precise disposizioni di colui che lo aveva preceduto nell’impero: «Dopo la morte di Elio Vero Cesare, Adriano, molto in pensiero per la propria salute, adottò Arrio Antonino – che in seguito fu chiamato Pio – a patto tuttavia che egli adottasse a sua volta due figli, Annio Vero e Marco Antonino». Sempre nei piani di Adriano, secondo Cassio Dione, Annio Vero avrebbe dovuto prendere in sposa Faustina, figlia di Antonino Pio, che tuttavia non rispettò questa disposizione del suo predecessore, dando in moglie la stessa Faustina a Marco Aurelio, mentre a sua volta Annio Vero, che d’ora in poi sarà chiamato Lucio Vero, avrebbe sposato Lucilla, la figlia dello stesso Marco15.
Naturalmente il matrimonio di Marco Aurelio e Faustina, appunto perché voluto da Antonino Pio, non può certo definirsi un matrimonio felice, nonostante l’animo – secondo molti solo apparentemente – mite che l’Historia Augusta attribuisce allo stesso Marco. Faustina, che era non soltanto un’Augusta ma anche una donna di «gran mondo», avrebbe amato una vita di corte un po’ più spensierata e sicuramente doveva annoiarsi a morte tanto di un marito filosofo quanto di molti dei suoi amici, a partire dal noiosissimo Frontone. Di qui nacquero le voci sui suoi ripetuti tradimenti, poiché sembra che Faustina si invaghisse soprattutto di gladiatori:
Alcuni dicono, e questo sembra verosimile, che il suo successore e figlio [di Marco Aurelio] Commodo Antonino non fosse nato da lui, ma da un adulterio, e combinano questa storiella con volgari maldicenze. La figlia di Pio, Faustina, sposa di Marco, vedendo un giorno dei gladiatori che sfilavano, si innamorò di uno di loro e, dopo aver sofferto a lungo, confessò il suo amore al marito. Quando Marco consultò gli astrologi caldei, essi furono dell’avviso che il gladiatore doveva essere ucciso, Faustina bagnarsi nel suo sangue e allora congiungersi con il marito. Fatto questo, la passione di Faustina si spense e nacque Commodo, per la verità un gladiatore non un principe. [...] Quello che rende l’episodio plausibile, fu che il figlio di un imperatore tanto virtuoso abbia avuto attitudini peggiori di un maestro di gladiatori, di un istrione, di un combattente nel circo, peggiori infine di quelle di un uomo pieno di un’accozzaglia di tutte le ignominie e di tutti i crimini. Tuttavia sono in molti a dire che Commodo fu un figlio adulterino, poiché è noto che a Gaeta Faustina cercava di frequentare marinai e gladiatori16.
Di grande rilievo – un rilievo che non può tardarsi a definire addirittura prioritario – è anche il ruolo che l’Historia Augusta attribuisce a Faustina nel tentativo di usurpazione messo in atto nel 175 da Avidio Cassio. Cassio Dione da parte sua considerava come assolutamente sicuro il coinvolgimento di Faustina nell’usurpazione. Più complesso appare invece un suo eventuale intervento nei termini in cui esso appare descritto ancora una volta nella stessa Historia Augusta. Nella biografia di Marco Aurelio l’Historia Augusta fa propria una diceria che doveva essere abbastanza diffusa: «E [Avidio Cassio] si proclamò imperatore, come dicono alcuni, con il consenso di Faustina». Nella Vita di Avidio Cassio la notizia del coinvolgimento di Faustina è però attribuita in modo esplicito al solo Mario Massimo, dove a proposito di una presunta lettera inviata dalla moglie al marito (ma si tratta di una lettera sicuramente apocrifa) sempre l’Historia Augusta poteva sostenere: «Appare da questa circostanza [una lettera di Marco alla moglie] che Faustina fosse ignara della congiura, benché Mario Massimo, nella volontà di infamarla, sostenga che Cassio si sia impadronito dell’impero con la sua complicità»17.
Dal momento che lo scambio delle quattro lettere tra Marco Aurelio e Faustina è stato ritenuto unanimemente spurio a partire da un famoso contributo di Ernest Renan del 186718, si è potuto discutere a lungo sull’attendibilità di Mario Massimo, tanto perfido diffamatore quanto (ma molto più difficilmente) biografo imparziale, con discussioni altrettanto lunghe, o addirittura estenuanti, anche da parte di alcuni storici moderni, a questo stesso proposito: se veramente Faustina fosse coinvolta nella congiura, all’evenienza per assicurare la successione di suo figlio Commodo, oppure se al contrario ne fosse completamente estranea e solo la sua pessima nomea, indebitamente meritata, abbia facilitato anche il suo inserimento in questo progetto cospiratorio ai danni del marito19.
L’«impero adottivo», con l’ideologia che lo sottendeva (la scelta del «migliore» da parte dell’Augusto che adottava il suo successore), fu dunque frutto in larghissima parte del caso (escluso Nerva, come già si è visto, né Traiano, né Adriano, né Antonino Pio ebbero figli maschi). Fu comunque un sogno destinato a infrangersi con Marco Aurelio, che ebbe la ventura che gli sopravvivesse un unico figlio maschio, Commodo. Com’è ben noto, Commodo è rappresentato a tinte fosche nell’Historia Augusta, tanto che la sua Vita di tiranno amante dei giochi del circo ed egli stesso gladiatore potrebbe ritenersi quasi un pendant in negativo alla Vita del padre, come già è stato messo in rilievo da André Chastagnol a proposito della Vita del «buon» Marco che avrebbe a sua volta costituito a tutti gli effetti un pendant positivo rispetto alla Vita del «pessimo» Vero. A questo proposito non possono mancare di essere rievocate, per quanto riguarda l’odio fortissimo del senato verso Commodo, le acclamazioni dell’assemblea senatoria nei confronti dello stesso Commodo alla sua morte, che Mario Massimo non solo biografo ma anche senatore (e un senatore presente a quella stessa seduta dell’assemblea di cui faceva parte) era ben felice di riportare per intero:
Dopo la morte di Commodo le acclamazioni del senato furono assai violente. Per conoscere quale fosse il giudizio del senato su Commodo, ho preso [chi finge di scrivere è Elio Lampridio] da Mario Massimo le stesse acclamazioni e il testo del senatoconsulto: «Che si strappino gli onori al nemico della patria, si strappino gli onori al parricida, che si trascini via il parricida! Nemico della patria, parricida, gladiatore, che si faccia il suo corpo a pezzi nello spogliatoio [dei gladiatori]. Nemico degli dei, boia del senato, nemico degli dei, parricida del senato: nemico degli dei, nemico del senato. Il gladiatore nello spogliatoio [dei gladiatori]. L’assassino del senato sia rinchiuso nello spogliatoio; l’assassino del senato sia trascinato [per le vie di Roma] con un uncino! Nemico e parricida, sì, sì! Colui che non ha risparmiato il proprio sangue, sia trascinato [per le vie di Roma] con un uncino!»20.
A questo punto ci si può anche fermare, con la sola avvertenza che il senato in quella stessa circostanza non avrebbe subito mancato di acclamare alla porpora Pertinace.
Fu dunque Marco Aurelio, l’imperatore-filosofo, per i contemporanei e per molti studiosi moderni un vero e proprio «modello» da seguire in ogni sua attitudine, a mettere fine alla scelta del «migliore» che, almeno teoricamente, aveva caratterizzato nel suo complesso l’età degli Antonini (a partire da Nerva e Traiano, benché costoro, come del resto Adriano, non abbiano mai portato il nome di Antonino, fino allo stesso Antonino Pio e poi a Marco Aurelio, dunque dal 96 al 180). Ma di fatto Jérôme Carcopino, Santo Mazzarino e Anthony R. Birley hanno mutato profondamente una simile prospettiva: Jérôme Carcopino parlando a suo tempo esplicitamente di «eredità dinastica», Santo Mazzarino ritenendo lo stesso impero «adottivo» come una sorta di combinazione tra caso e ideologia, Anthony Birley sostenendo che i contemporanei avrebbero confuso la mancanza di figli maschi con la scelta del «migliore»21.
1 A. Fraschetti, Augusto, Roma-Bari 19933, pp. 68 sgg.; M. Pani, La corte dei Cesari, Roma-Bari 1997, passim.
2 Tacito, Hist. I 15,7-3: Igitur Galba, adprehensa Pisonis manu, in hunc modum locutus fertur: «Si te privatus lege curiata apud pontifices, ut moris est, adoptarem, et mihi egregium erat Cn. Pisonis et M. Crassi subolem in penatis meos adsciscere, et tibi insigne Sulpiciae ac Lutatiae decora nobilitati tuae adiecisse: nunc me deorum hominumque consensu ad imperium vocatum praeclara indoles tua et amor patriae impulit ut principatum de quo maiores nostri armis certabant bello adeptus quiescenti offeram exemplo divi Augusti qui sororis filium Marcellum, dein generum Agrippam, mox nepotes suos, postremo Tiberium Neronem privignum in proximo sibi fastigio conlocavit. Sed Augustus in domo successorem quaesivit, ego in re publica, non quia propinquos aut socios belli non habeam, sed neque ipse imperium ambitione accepi, et iudicii mei documentum sit non meae tantum necessitudines, quas tibi postposui, sed et tuae», con il commento di H. Heubner, P. Cornelius Tacitus, Die Historien I, Heidelberg 1983, pp. 52-53. Per la circostanza che un Augusto potesse essere acclamato anche «altrove che a Roma» vedi ivi, 4,2: Finis Neronis ut laetus primo gaudentium impetu fuerat, ita varios motus animorum non modo in urbe apud patres aut popolum aut urbanum militem, sed omnis legiones ducesque conciverat, evulgato imperii arcano posse principem alibi quam Romae fieri («Benché la morte di Nerone fosse stata accolta subito con gioia da tutti, essa però aveva provocato non solo reazioni diverse presso il senato, il popolo, la guarnigione urbana, ma aveva anche scosso le legioni e i loro comandanti, una volta divenuto di dominio pubblico il segreto di Stato che un imperatore potesse essere acclamato altrove che a Roma»).
3 Tacito, Agr. 3,1: Nunc demum redit animus, sed quamquam primo statim beatissimi saeculi ortu Nerva Caesar res olim dissociabilis miscuerit, principatum et libertatem, augeatque cotidie felicitatem temporum Nerva Traianum [...] («Ora finalmente è tornato il coraggio; ma sebbene il Cesare Nerva subito, all’esordio di un’epoca felicissima, abbia messo insieme due regimi un tempo inconciliabili, il principato e la libertà, e Nerva Traiano aumenti ogni giorno la felicità dei tempi [...]»); vedi al riguardo J. Béranger, Recherches sur l’aspect idéologique du principat, Basel 1953, in particolare p. 56.
4 Sui progetti dinastici del «borghese» Vespasiano e la circostanza che essi furono di fatto attuati basti il rinvio a S. Mazzarino, 1984, I, pp. 281 sgg.
5 Sul princeps, da identificarsi in Pompeo, vagheggiato da Cicerone, vedi soprattutto E. Lepore, Il «princeps» ciceroniano e gli ideali politici della tarda repubblica, Napoli 1952. Sulla congiura contro Domiziano, capeggiata da un procuratore di Flavia Domitilla, vedi infra, p. 218 nota 14.
6 H.A., Marc. 19,8-9: De qua cum diceretur Antonino Marco, ut eam repudiaret, si non occideret, dixisse fertur: «Si uxorem dimittimus, reddamus et dotem». Dos autem quid habebatur <nisi> imperium, quod ille ab socero volente Hadriano adoptatus acceperat? («Quando al suo riguardo [della moglie Faustina] consigliavano a Marco Antonino di ripudiarla se non di ucciderla, si dice che abbia detto: ‘Se ripudiamo la moglie, dobbiamo rendere anche la dote’. Questa dote cosa altro era se non l’impero che egli aveva ricevuto dal suocero quando era stato adottato per volontà di Adriano?»). Si avrà modo di tornare più volte su questa risposta che Marco Aurelio avrebbe dato agli amici che gli consigliavano di ripudiare o addirittura di far uccidere la moglie per i suoi veri o presunti tradimenti. Non è sembrato pertanto opportuno rinviare a tutte le occasioni in cui sarà tanto necessario quanto inevitabile far ricorso a questa testimonianza.
7 Th. Mommsen, Le droit publique romain, V, trad. fr., Paris 1886, p. 448; L. Homo, Les institutions politiques des Romains, Paris 1927, p. 283.
8 J. Carcopino, L’hérédité dinastique chez les Antonins, in «REA», 51, 1949, pp. 262 sgg.; quindi Id., Passion et politique chez les Césars, Paris 1958, pp. 143 sgg. Per un parere diverso (accanto a quelli di Mommsen e Homo citati alla nota precedente) vedi M. Rostovtzeff, Gesellschaft und Wirtschaft im römischen Kaiserreich, I, Leipzig 1929, p. 105. Quanto al carattere, se non retorico, almeno «ideale» dell’adozione, H. Nesselhauf, Die Adoption des römischen Kaiser, in «Hermes», 83, 1955, p. 492; Fr. Altheim, Römische Geschichte, III, Berlin 1958, pp. 86 sgg.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, IV 1, Napoli 1962, pp. 381 sgg. È illuminante sempre a questo proposito la conclusione di J. Béranger, Principatus, Genève 1975, p. 284: «Or la réalité a moins de cohérence: le seul cas net est celui de Nerva adoptant Trajan. Trajan n’imita pas Nerva en adoptant celui qu’il désignait à l’avance pour lui succéder. Il semble qu’il réservait l’éventualité où il laissait un fils. L’opinion publique, elle aussi, souhaitait une descendance. [...] Les élus ne sont pas des étrangers les uns aux autres. Des liens de parenté, des affinités les unissent. L’adoption est dirigée par des considérations qui ne sont ni idéals ni altruistes».
9 Plinio, Pan. 95,5: Oro et obtestor [...] primum ut illum nepotibus nostris ac pronepotibus serves, deinde ut quandoque successorem ei tribuas quem genuerit, quem formaverit similemque fecerit adoptato, aut, si hoc fato negatur, in consilio sis eligenti monstresque aliquem quem adoptari in Capitolio deceat. Cfr. Seneca, Dial. XII 12,5: Rectorem Romano imperio longa fide adprobet et ante illum consortem patris quam successorem adspiciat («Approvi dopo una lunga tutela chi è destinato a governare l’impero romano e lo guardi come coreggente del padre piuttosto che come suo successore»). Su Plinio il Giovane come «portavoce» di Traiano cfr. G.G. Tissoni, Sul «concilium principis» in età traianea, II, L’attività di Plinio il Giovane in senato e la sua funzione di «portavoce», in «SDHI», 31, 1965, pp. 222 sgg.
10 Vedi H.A., Hadr. 7,4: In senatu quoque excusatis, quae facta erant («Si scusò anche in senato per quanto era avvenuto»). Cfr. Cassio Dione, LXIX 4, sull’attitudine di Nerva nei confronti dei congiurati capeggiati nel 97 da Calpurnio Crasso: «Quando Calpurnio Crasso, un discendente dei famigerati Crassi, insieme ad altri aveva ordito una congiura contro di lui, [Nerva] li invitò a sedersi accanto a sé nel corso di uno spettacolo (essi ancora ignoravano il fatto che ne fosse informato) e diede loro alcune spade per fargli vedere a parole se queste fossero pungenti (come di fatto lo sono), ma in realtà per mostrar loro che a lui non importava nulla di essere comunque ucciso»; cfr. a questo proposito F. Millar, A Study on Cassius Dio cit., p. 15.
11 Per quanto riguarda la messa a morte o la costrizione al suicidio di quattro consolari (il cognato Serviano, Pedanio Fusco Salinatore, Platorio Nepote, Terenzio Genziano) e, allo stesso tempo, per le voci, che corsero al momento della sua morte, sull’avvelenamento della stessa moglie Sabina vedi H.A., Hadr. 23,2-9: Factusque de successore sollicitus primum de Serviano cogitavit, quem postea, ut diximus, mori coegit. Fuscum, quod imperium praesagiis et ostentis agitatus speraret, in summa detestatione habuit. Platorium Nepotem, quem tantopere ante dilexit, ut veniens ad eum aegrotantem Hadrianus inpune non admitteretur, suspicionibus adductus est, – eodem modo et Terentium Gentianum, et hunc vehementius, quod a senatu tunc diligi videbat, omnes postremo, de quorum imperio cogitavit, quasi futuros imperatores detestatus est. Et omnem quidem vim crudelitatis ingenitae usque eo repressit, donec in villa Tiburtina profluvio sanguinis paene ad exitium venit. Tunc libere Servianum, quasi affectatorem imperii, quod servis regis cenam misisset, quod in sedili regio iuxta lectum posito sedisset, quod erectus ad stationes militum senex nonagenarius processisset, mori coegit multis aliis interfectis vel aperte vel per insidias. Quando quidem etiam Sabina uxor non sine fabula veneni dati ab Hadriano defuncta est («Si preoccupò allora del suo successore e pensò in primo luogo a Serviano, che più tardi costrinse a suicidarsi, come abbiamo detto. Prese in un odio violento Fusco, che aspirava all’impero agitato da presagi e da prodigi. Prese in sospetto Platorio Nepote, che un tempo aveva tanto prediletto da scusarsi di non averlo ammesso in sua presenza un giorno che era venuto a fargli visita nel corso di una sua malattia, e allo stesso modo Terenzio Genziano, e costui con tanta maggiore virulenza poiché allora lo vedeva prediletto dal senato. Alla fine detestò tutti coloro ai quali un tempo aveva pensato di trasmettere il potere, all’idea che divenissero futuri imperatori. Tuttavia tenne a freno la violenza della crudeltà, che gli era congenita, fino a quando nella villa di Tivoli rischiò quasi di morire per un’emorragia. Allora, privo di freni, costrinse al suicidio Serviano, come se aspirasse al regno, poiché aveva mandato una cena agli schiavi imperiali, si era seduto sul seggio imperiale posto vicino al suo letto, e come un vecchio di novant’anni si era fatto avanti fino agli acquartieramenti dei soldati. E ne fece morire molti altri, o apertamente o tramando insidie. In modo tale che, quando morì la moglie Sabina, non mancarono voci che fosse stato Adriano a farla avvelenare»). A questo proposito già A. von Premerstein, Das Attentat der Konsulare auf Hadrian in Jahre 118, in «Klio», Beiheft 8, 1908. Sui progetti successorii di Adriano vedi J. Carcopino, L’hérédité dinastique chez les Antonins cit., pp. 262 sgg.; quindi Id., Passion et politique chez les Césars cit., pp. 143 sgg.; Id., Encore la succession d’Hadrian, in «REA», 67, 1965, pp. 67 sgg.; P. Grenade, Le règlement successoral d’Hadrien, in «REA», 52, 1950, pp. 67 sgg.; M. Hammond, The Transmission of the Power of the Roman Emperor from the Death of Nero in A.D. 68 to that of Alexander Severus in A.D. 235, in «MAAR», 24, 1956, pp. 61 sgg.; H.-G. Pflaum, Le règlement successoral d’Hadrien, in BHAC 1963, Bonn 1964, pp. 95 sgg.; sui personaggi ricordati nella Historia Augusta vedi Id., La valeur de la source inspiratrice de la «Vita Hadriani» cit., pp. 173 sgg. Su Vibia Sabina, A. Carandini, Vibia Sabina, Firenze 1969, passim, dove viene anche messa in rilievo la cesura profonda tra l’impero di Traiano e quello di Adriano.
12 Cfr. a questo proposito gli stemmi approntati da Carrata Thomes, 1953, p. 26 e A. Chastagnol, Histoire Auguste cit., p. 89.
13 S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano 1988, pp. 131 sgg.
14 H.A., Hadr. rispettivamente 2,10: Denique statim suffragante Sura ad amicitiam Traiani pleniorem redit, nepte per sororem Traiani uxore accepta fovente Plotina, Traiano leviter, ut Marius Maximus dicit, volente; 4,1: Usus Plotinae quoque favore, cuius studio etiam legatus expeditionis Parthicae tempore destinatus est; 4,8-10: Frequens sane opinio fuit Traiano id in animo fuisse, ut Neratium Priscum, non Hadrianum successorem relinqueret, multis amicis in hoc consentientibus, usque adeo ut Prisco aliquando dixerit: ‘Commendo tibi provincias, si quid mihi fatale contigerit’. Et multi quidem dicunt Traianum in animo id habuisse, ut exemplo Alexandri Macedonis sine certo successore moriretur, multi ad senatum eum orationem voluisse mittere petiturum, ut, si quid ei evenisset, principem Romanae rei publicae senatus daret, additis dum taxat nominibus ex quibus optimum idem senatus eligeret. Nec desunt qui factione Plotinae mortuo iam Traiano Hadrianum in adoptionem adscitum esse prodiderint, supposito qui pro Traiano fessa voce loquebatur. Su Nerazio Prisco vedi, per esempio, G. Camodeca, La carriera del giurista L. Neratius Priscus, in «Atti dell’Acc. di Sc. mor. e polit. di Napoli», 87, 1976, pp. 19 sgg.
15 Sulla volontà di Adriano che Marco Aurelio sposasse Ceionia Fabia vedi H.A., Marc. 4,5: Virilem togam sumpsit quinto decimo anno aetatis, statimque ei Lucii Ceionii Commodi filia desponsata est ex Hadriani voluntate («Assunse la toga virile a quindici anni e subito fu fatto fidanzare con la figlia di Lucio Ceionio Commodo per volontà di Adriano»); ivi, Hadr. 24,1: Et mortuo Aelio Caesare Hadrianus ingruente tristissima valetudine adoptavit Arrium Antoninum, qui postea Pius dictus est, et ea quidem lege, ut ille sibi duos adoptaret, Annium Verum et Marcum Antoninum. Cfr. anche Cassio Dione, LXIX 21,1: «E, dal momento che non aveva alcun figlio maschio, adottò come figlio Commodo, figlio di Commodo, e in aggiunta a lui Marco Annio Vero. [...] Questo Marco Annio Vero, che prima si chiamava Catilio, era l’avo di Annio Vero, che era stato tre volte console e prefetto urbano. E, benché sospingesse Antonino ad adottarli entrambi, egli però prediligeva Vero dal momento che gli era parente e per la sua età, poiché aveva già dato prova di una forza di carattere eccezionale». Vedi in proposito P. Grenade, Le règlement successoral d’Hadrien cit., pp. 258 sgg.; H.-G. Pflaum, Le règlement successoral d’Hadrien cit., pp. 95 sgg.; J. Carcopino, Encore la succession d’Hadrien cit., pp. 62 sgg., che – com’è ben noto – supponeva che Elio Vero fosse un bastardo di Adriano e dove comunque, a proposito dei piani molto tortuosi attribuiti da Hans-Georg Pflaum ad Adriano, non mancava la critica molto pesante «Cette fois, l’histoire débouche sur un roman policier».
16 H.A., Marc. 19,1-7: Aiunt quidam, quod et verisimile videtur, Commodum Antoninum, successorem illius ac filium, non esse de eo natum sed de adulterio, ac talem fabellam vulgari sermone contexunt. Faustinam quondam, Pii filiam, Marci uxorem, cum gladiatores transire vidisset, unius ex his amore succensam, cum longa aegritudine laboraret, viro de amore confessam. Quod cum ad Chaldaeos Marcus rettulisset, illorum fuisse consilium, ut occiso gladiatore sanguine illius sese Faustinam sublavaret atque ita cum viro concumberet. Quod cum esset factum, solutum quidem amorem, natum vero Commodum gladiatorem esse, non principem [...]. Quod quidem verisimile ex eo habetur, quod tam sancti principis filius his moribus fuit, quibus nullus lanista, nullus scaenicus, nullus arenarius, nullus postremo ex omnium dedecorum et scelerum conluvione concretus. Multi autem ferunt Commodum omnino ex adulterio natum, si quidem Faustinam satis constet apud Caietam condiciones sibi et nauticas et gladiatorias elegisse.
17 Per il discusso coinvolgimento di Faustina nell’usurpazione di Avidio Cassio vedi infra, pp. 157-59, con documentazione ivi addotta.
18 Vedi già a suo tempo E. Renan, Examen de quelques faits relatifs à l’impératrice Faustina, femme de Marc-Aurèle, in «CRAI», 1867, pp. 103-215; in seguito, almeno in parte sulla sua scia, J. Schwartz, Avidius Cassius et les sources de l’«Histoire Auguste» cit., pp. 143 sgg.; A. Baldini, La rivolta bucolica e l’usurpazione di Avidio Cassio (Aspetti del principato di Marco Aurelio), in «Latomus», 37, 1978, p. 665, che tuttavia sembra sostenere, benché in modo generico, l’autenticità dell’epistolario tra Faustina e Marco Aurelio; cfr. anche Astarita, 1983, pp. 107 sgg.
19 Alla complicità di Faustina presta credito J. Spiess, Avidius Cassius und der Aufstand des Jahres 175, München 1975, pp. 33 sgg.; quindi Astarita, 1983, pp. 107 sgg. Diversamente vedi tuttavia H.U. Instinsky, Cassius Dio, Mark Aurel und die Yazigen, in «Chiron», 2, 1972, p. 475.
20 H.A., Comm. 18,1-5: Adclamationes senatus post mortem Commodi graves fuerunt. Ut autem sciretur, quod iudicium senatus de Commodo fuerit, ipsas adclamationes de Mario Maximo indidi et sententiam senatus consulti: «Hosti patriae honores detrahantur, parricidae honores detrahantur, parricida trahatur! Hostis patriae, parricida, gladiator in spoliario lanietur! Hostis deorum, carnifex senatus, hostis deorum, parricida senatus: hostis deorum, hostis senatus. Gladiatorem in spoliario! Qui senatum occidit, in spoliario ponatur: qui senatus occidit, unco trahatur: hostis parricida, vere vere. Qui sanguini suo non pepercit, unco trahatur!». Per queste acclamazioni del senato vedi soprattutto S. Mazzarino, 1966, II 2, pp. 200-10. Cfr. inoltre G. Porta, Un Caligola nell’«H.A.»: Commodo, in «A&R», 20, 1975, pp. 170 sgg.; vedi in precedenza H. Nesselhauf, Die «Vita Commodi» und die «acta urbis», in BHAC 1964/1965, Bonn 1966, pp. 127 sgg. Per la successione di Pertinace vedi Grosso, 1964, pp. 405 sgg.
21 Vedi rispettivamente J. Carcopino, cit. alla nota 8 di questo stesso capitolo; Birley, 1966, p. 307; S. Mazzarino, 1984, I, pp. 328 sgg.