V.
Marco Aurelio e Lucio Vero, Augusti

1. Il «doppio principato»

Ernst Kornemann, nel suo libro ormai famoso sul «doppio principato», in altri termini su quei casi che non vedono un solo Augusto al governo dell’impero, faceva iniziare una simile forma di governo fin dai tempi di Augusto. Il primo «principe» che Roma abbia mai avuto, osservava giustamente Kornemann, avrebbe scelto come suoi «colleghi» prima Agrippa (l’amico che era stato al suo fianco non solo sui banchi di scuola, ma anche su tutti quei campi di battaglia da Filippi alla presa di Alessandria che lo avevano portato infine nel 30, dopo l’eliminazione di Antonio, a impadronirsi del potere) e più tardi, in tal caso sollecitato in modo evidentemente pressante da sua moglie Livia, il genero e figliastro Tiberio. Sempre Kornemann continuava quindi con i Flavii (Vespasiano e Tito) per poi giungere infine all’impero «adottivo». Tuttavia lo stesso Kornemann sembrava come dimentico, pur in un volume dove veniva passata in rassegna tutta la documentazione antica con estremo scrupolo e con altrettanto rigore, di una circostanza che non tarda ad apparire a tutti gli effetti fondamentale. In realtà, quanto alla «colleganza» nell’impero di Augusto prima con Agrippa e poi con Tiberio, lo stesso Augusto – come dichiarava con un qualche mal celato orgoglio nelle sue Res gestae – possedeva comunque «autorità» (auctoritas) maggiore rispetto ai suoi «colleghi», sebbene avesse almeno formalmente il medesimo «potere» (potestas). Quanto a Vespasiano e a Tito, non si può non constatare come anche in questo caso si ripetesse con esattezza lo schema già sperimentato in epoca augustea da Augusto con Agrippa e Tiberio, poiché anche Tito era stato solo un semplice Cesare prima della morte del padre, l’Augusto Vespasiano1.

In base a questo ordine di considerazioni, almeno (e non solo) a mio avviso difficilmente confutabili, va messa nel dovuto rilievo una circostanza certamente fondamentale: se si escludono come esempi di reale «doppio principato» quelli messi in atto prima da Augusto e poi da Vespasiano, il primo «doppio principato» vero e proprio fu a tutti gli effetti quello costituito da Marco Aurelio e Lucio Vero. Il motivo di questa constatazione è molto semplice, e consiste nel fatto che entrambi gli Augusti (tanto Marco Aurelio quanto Lucio Vero), dopo la morte del loro predecessore Antonino Pio, erano detentori di poteri assolutamente identici e paritari. Deve ritenersi fondamentale a questo proposito una brevissima notazione riportata ancora una volta dall’Historia Augusta: «Essi dunque [Marco Aurelio e Lucio Vero] si misero subito a governare insieme, con poteri identici. E fu allora che l’impero romano ebbe per la prima volta due Augusti, poiché fino ad allora ciascun imperatore, cui era stato lasciato l’impero, non l’aveva condiviso con un altro»2. Con un’avvertenza ulteriore e anch’essa non irrilevante: non solo nella biografia di Vero ma anche in quella di Marco Aurelio, sempre secondo la stessa Historia Augusta, il senato avrebbe voluto che fosse il solo Marco Aurelio ad ascendere al trono imperiale, mentre sarebbe stato lo stesso Marco a volere che Lucio rivestisse i suoi stessi onori e che quindi anch’egli gli fosse collega in quanto Augusto nel principato3. Sicuramente l’Historia Augusta non solo esagera ma cade in un vero e proprio errore attribuendo l’ascesa al trono di Lucio Vero solo alla volontà o – se si vuole – alla benevolenza di Marco Aurelio, poiché lo stesso Marco non aveva fatto altro che limitarsi in questo caso a rispettare le disposizioni prese a suo tempo da Antonino Pio. Si osservi inoltre un ulteriore elemento di distorsione molto caratteristico della Historia Augusta, a proposito del nome di «Lucio Aurelio Commodo» che Marco avrebbe allora conferito a Vero: giacché di fatto Lucio Vero aveva ricevuto il nome di «Aurelio», con una contraddizione emblematica provenendo la notizia sempre dalla stessa Historia Augusta, già a sette anni («Entrò nella famiglia Aurelia quando aveva sette anni [...]»), ed era dunque a tutti gli effetti impossibile che quel nome gli fosse conferito da Marco solo nel 161, quando succedettero entrambi ad Antonino Pio4.

2. Marco Aurelio e Lucio Vero: due personalità diverse...

Se dunque il primo vero e proprio «doppio principato» fu quello di Marco Aurelio e Lucio Vero, in quanto i due Augusti avevano poteri non solo teoricamente ma a tutti gli effetti assolutamente identici, va tuttavia anche messo nel debito conto come lo stesso Marco Aurelio, di fatto maggiore di età di qualche anno, avrebbe cercato almeno all’inizio di esercitare una sorta di «tutorato» sul suo fratello per adozione5. Tuttavia i due nuovi Augusti possedevano caratteri e personalità profondamente diversi, sui quali è sempre l’Historia Augusta a diffondersi lungamente. Almeno a suo dire, in Marco Aurelio si sarebbe come concentrata la somma di tutte le virtù, al contrario di Lucio Vero, rappresentato come la sentina di tutti i vizi e di ogni turpitudine. Marco infatti fu soltanto per la sua «passione per la filosofia che si distaccò da ogni altra di quelle attività [che in precedenza aveva praticato: la pittura, il pugilato, la corsa, la caccia, la pallacorda], e lo rese serio e austero, senza però spegnere in lui quella gioia che manifestava soprattutto verso i suoi parenti, ma anche nei confronti degli amici e anche di persone che non conosceva bene: virtuoso senza eccesso, riservato senza mollezza, austero senza essere triste»6.

Per quanto riguarda al contrario Lucio Vero è sempre l’Historia Augusta a soffermarsi a lungo sulle sue voluttuose sregolatezze e la sua grande lussuria. Saranno riportate qui solo alcune di queste attitudini rappresentate come assolutamente negative, attitudini di una personalità tutta dedita ai vizi e appunto alla lussuria:

Giunto ad Antiochia, si lasciò completamente andare a una vita debosciata e furono i suoi comandanti Stazio Prisco, Avidio Cassio e Marzio Vero che, raggiungendo Babilonia e la Media e riconquistando l’Armenia, misero fine alla guerra. Nondimeno egli ottenne i titoli di Armeniaco, Partico e Medico, che furono ugualmente conferiti a Marco rimasto a Roma. Durante quattro anni, Vero trascorse l’inverno a Laodicea, l’estate a Dafne e il resto del tempo ad Antiochia. Tutti i Siriaci lo deridevano e noi conosciamo ancora molte delle battute satiriche che gli lanciavano a teatro. Durante i Saturnali e nei giorni di festa invitava sempre a banchetto gli schiavi di casa. Ma, su insistenza dei notabili del suo seguito [i comites], si diresse una seconda volta verso l’Eufrate. Tornò però in tutta fretta a Efeso per accogliere Lucilla mandata da suo padre Marco Aurelio e soprattutto temendo che Marco non arrivasse con lei in Siria e scoprisse la sua vita scandalosa. Di fatto Marco aveva annunciato in senato che avrebbe accompagnato sua figlia in Siria. Quando la guerra terminò vittoriosamente, conferì regni ad alcuni re e governatorati di provincia ai suoi amici [comites]. Quindi fece ritorno a Roma per il trionfo, lasciando di malanimo la Siria che considerava quasi come un suo regno. Condivise con il fratello gli onori del trionfo ed entrambi ricevettero dal senato i titoli con cui l’esercito li aveva acclamati. Si racconta inoltre che in Siria si fece tagliare la barba per compiacere un’amichetta di basso rango: episodio che scatenò contro di lui il sarcasmo dei Siriaci (H.A., Ver. 7).

Si racconta anche che intratteneva legami incestuosi con sua suocera Faustina e che ella sarebbe stata l’artefice della sua morte offrendogli a tradimento ostriche avvelenate per punirlo di aver rivelato alla propria moglie i rapporti che aveva con la madre. [...] (H.A., Ver. 10,1)7.

Queste malevolenze, evidentemente false (basti pensare a eventuali rapporti sessuali tra il giovane Lucio Vero e l’Augusta Faustina, una donna ormai avanti negli anni), sono riportate tutte dalla Historia Augusta e sono dovute sicuramente alla sua fonte: Mario Massimo che, emulo del suo predecessore Suetonio, si compiaceva di mescolare il vero e il falso, i pettegolezzi più infamanti alle citazioni addirittura degli acta senatus, come aveva fatto (esse sono già state riportate) con le durissime imprecazioni del senato dopo la sua morte contro il «tiranno» Commodo8. È merito tuttavia in primo luogo di Pierre Lambrecht e in seguito di Santo Mazzarino aver rivalutato la figura di un Augusto tanto a lungo e tanto ingiustamente infamato; e a pieno titolo Pierre Lambrecht non ha esitato a rivalutare il suo ruolo di primo piano anche nella grande spedizione partica9.

3. L’impresa partica di Lucio Vero

A proposito della campagna militare che Marco, rimanendo come al solito a Roma, affidò a Lucio Vero, deve essere avanzata una constatazione prioritaria: in effetti, neppure l’impero di Marco Aurelio e Lucio Vero era una compagine statale completamente pacificata, per il semplice motivo che esso non poteva necessariamente non ereditare tutti i problemi che già si erano posti soprattutto sui confini, in un primo tempo solo su quelli settentrionali, già durante il regno di Antonino Pio. Sul versante del Nord i Britanni già premevano fin dal 161 e, quasi contemporaneamente, nel 161-2, i Catti sul versante renano10. Tuttavia in questi stessi anni la vera minaccia contro Roma proveniva ancora una volta dall’impero partico che, a differenza delle tribù barbariche, prive di un’organizzazione militare vera e propria ma che costituivano piuttosto semplici orde dedite soprattutto al saccheggio, rappresentava a tutti gli effetti una compagine statale alla pari di quella dell’impero romano.

Di fatto, quando Vologese III invase l’Armenia e impose sul suo trono un re-fantoccio, Pacoro di dinastia arsacide, lo scontro con Roma divenne inevitabile. L’Armenia infatti, fin da epoca augustea, rappresentava una sorta di «Stato-cuscinetto» il cui controllo era evidentemente fondamentale tanto per i Romani quanto per i Parti. Appunto per questo motivo fu proprio Marco Aurelio a incaricare Lucio Vero di quella pericolosissima campagna. In modo molto diverso dai pettegolezzi insinuati dall’Historia Augusta sulla vita dissipata di Lucio Vero ad Antiochia, Cassio Dione, che scriveva la sua opera storica a pochi decenni di distanza da quella stessa campagna, ne dava al contrario una versione completamente diversa: «Lucio giunse ad Antiochia e raccolse un gran numero di truppe; quindi, presi i migliori generali sotto il suo personale comando, pose il suo quartier generale in città, dove dette tutte le disposizioni e assemblò i viveri per la guerra e [affidò l’esercito] ad [Avidio] Cassio». Il fatto che Lucio Vero affidasse in quella circostanza le proprie truppe ad Avidio Cassio si spiega evidentemente molto bene in base al fatto che lo stesso Avidio era, almeno da parte di padre (Avidio Eliodoro), originario della Siria e doveva dunque conoscere molto bene tanto i luoghi quanto la tattica dei Parti: era una tattica estremamente complessa, al punto che i Romani riuscivano molto spesso a comprenderla solo a stento, come aveva già dimostrato la disastrosa sconfitta subita da Crasso a Carrhae nel 54 a.C. Poiché Vologese di fatto non si era limitato a impossessarsi dell’Armenia, ma aveva attaccato la stessa provincia romana di Siria, sconfiggendone in battaglia il governatore Attidio Corneliano, l’invasione partica della Siria non poteva non apparire ai due Augusti (Marco Aurelio rimasto a Roma e Lucio Vero che si trovava su quel fronte) una circostanza gravissima che riportava anch’essa molto indietro nel tempo, a quando Mitridate, re del Ponto, aveva invaso nel-l’88 a.C. addirittura la provincia romana d’Asia11.

Di fatto, quella che si è soliti definire «guerra partica» doveva essere divisa, almeno secondo il contemporaneo Luciano di Samosata, in quattro fasi: «in Armenia, in Siria, in Mesopotamia, sul Tigri e in Media»12. Lucio Vero lasciò Roma nel 162; tuttavia una lunga malattia (la sua salute, come quella del padre morto giovanissimo, doveva essere abbastanza cagionevole, come dimostrerà del resto anche la sua morte prematura) lo costrinse a trattenersi nei pressi di Canosa prima di partire da Brindisi per imbarcarsi infine sulla flotta del Miseno. Da Brindisi fece dunque tappa a Corinto, ad Atene, in Panfilia e in Cilicia: se tutti questi soggiorni sono rappresentati dall’Historia Augusta solo come occasioni per il «debosciato» Lucio Vero di approfittare degli allegri svaghi e degli altrettanto allegri intrattenimenti che quelle città, soprattutto in Asia Minore, potevano offrirgli, essi al contrario erano assolutamente necessari al giovane Augusto che doveva avere come obiettivo prioritario quello di presentare più forte la presenza romana in Oriente dopo le molte disfatte che erano state subite in precedenza dai vari comandanti romani a opera dei Parti. Lucio Vero giunse ad Antiochia solo verso la fine del 162; al suo seguito rimaneva sempre la flotta del Miseno, indispensabile sia per assicurare i necessari collegamenti con Roma sia per il trasporto delle truppe e il rifornimento delle vettovaglie necessarie al loro sostentamento. Il lungo soggiorno di Vero ad Antiochia aveva anche lo scopo di coordinare gli eserciti allora dislocati su un fronte evidentemente molto ampio per la cui difesa era inoltre richiesto l’invio di ulteriori rinforzi: dalla Germania Superiore arrivò dunque, sguarnendo però di fatto quei fronti anch’essi gravidi di pericoli, la legio I Minervia e dalla Mesia Inferiore la XV Macedonica13.

Quando Lucio Vero giunse in Oriente, su quel versante la situazione appariva, ed era di fatto, estremamente grave: i Parti avevano occupato l’Armenia ed erano giunti fino a occupare la provincia romana di Siria; due governatori, quello di Cappadocia e quello di Siria, rispettivamente Marco Sedazio Severiano e Lucio Attidio Corneliano, avevano trovato la morte, il primo suicida dopo la sconfitta che aveva subito a opera dei Parti e il secondo sul campo di battaglia. Il comando della campagna contro l’Armenia fu affidato a Stazio Prisco, che già aveva combattuto in Britannia e in Dacia. Egli dunque con la legio I Minervia e la XV Macedonica riconquistò Artaxata, mentre Pacoro ritirandosi non mancò di fare terra bruciata alle sue spalle: lo scopo di Pacoro era evidentemente non soltanto quello di ritardare l’avanzata romana quanto anche di impedire al nemico di rifornirsi di viveri, distruggendo a scopo cautelativo sia le provviste sia le possibilità di eventuali raccolti, di cui i Romani potessero impadronirsi. Comunque Artaxata fu conquistata e rasa al suolo da Stazio Prisco nel 163, mentre Caineopolis, che sorgeva a poca distanza, accolse al suo interno una guarnigione romana. In tal modo, in seguito ai successi conseguiti, nel 164 al posto del filoarsacide Pacoro fu installato sul trono d’Armenia il re filoromano Soemo. A questo punto Lucio Vero fu acclamato dalle sue truppe con il titolo di Armeniacus, conferito in seguito anche al collega Marco, che durante tutta quella campagna continuò comunque a risiedere a Roma14.

Dopo l’Armenia, nelle intenzioni di Lucio Vero (e anche questa sua decisione conferma le abilità strategiche attribuite allo stesso Vero da Cassio Dione), era necessario dirigersi direttamente contro l’impero dei Parti. Questa importantissima spedizione fu affidata ad Avidio Cassio, famoso, o piuttosto famigerato, per le sue modalità di imporre la disciplina alle truppe. Avidio Cassio avanzò, di nuovo attraverso la Siria, verso Nicephorium, e la conquistò. In Cappadocia nel frattempo Marco Stazio Prisco, che probabilmente era morto, fu sostituito da Gaio Giulio Severo. In modo analogo in Siria a Marco Annio Libone, succeduto a Lucio Attidio Corneliano e morto in circostanze abbastanza misteriose, succedette Gneo Giulio Vero, che proveniva a sua volta dalla Britannia15.

Nel frattempo il legato Publio Marcio Vero, con due legioni (tra le quali la XV Macedonica) aveva già conquistato due città di fondamentale importanza verso il fronte partico: Edessa e Nisibi. I Parti infatti, nel momento in cui occuparono Edessa, avevano sostituito, come già avevano fatto in Armenia, il suo re legittimo filoromano con un re filopartico di loro gradimento. Almeno dalla documentazione numismatica si deduce che quest’ultimo dovrebbe aver regnato dal 163 al 165. A sua volta Nisibi, che aveva resistito ai Romani, fu distrutta16. Nel frattempo, avanzando con le sue truppe, Avidio Cassio aveva passato addirittura l’Eufrate ed era entrato così nella stessa Mesopotamia settentrionale, fino a conquistare nel 165 Seleucia, inseguendo Vologese fino a Ctesifonte e distruggendo addirittura il palazzo reale. Proseguì quindi, sempre lungo l’Eufrate, fino a Circesium per conquistare finalmente Dura-Europos, che si trovava in Mesopotamia, poco al di qua dell’Eufrate. Lucio Vero, che aveva superato quella prova immane, cercò allora almeno di sottrarsi a quella sorta di «tutorato» che Marco finora aveva esercitato su di lui, ed ebbero inizio in tal modo alcuni dissapori tra i due Augusti17.

4. La peste

A questo punto la guerra poteva dirsi conclusa, e in modo totalmente vittorioso. Nel 165 Lucio Vero era stato acclamato dalle truppe Parthicus Maximus, titolo che Marco ricevette l’anno successivo. Tuttavia, appunto a causa della distruzione di Seleucia e più in particolare della profanazione del tempio di Apollo, si sarebbe diffusa, secondo la tradizione non solo in Partia ma, a partire dalla Partia, in tutto l’impero, una terribile pestilenza. A questo proposito è necessario seguire ancora una volta il racconto che di questo avvenimento dava l’Historia Augusta:

Il suo destino [di Lucio Vero] volle che trasportasse con lui la peste nelle province che attraversò durante il suo ritorno e nella stessa Roma. Si dice che la pestilenza sia sorta a Babilonia dove un cofanetto d’oro, riposto nel tempio di Apollo e che per caso un soldato romano aveva forzato, liberò miasmi pestilenziali che di là si diffusero in territorio partico e poi in tutto l’impero. Il colpevole però non fu Lucio Vero, ma [Avidio] Cassio che, mancando di parola, espugnò Seleucia che aveva accolto i nostri soldati come amici. Tuttavia, tra gli altri, Asinio Quadrato, storico della guerra partica, lo discolpa e accusa gli abitanti di Seleucia di aver per primi mancato alla parola data (Ver. 8,1-4).

Nella Vita Marci il biografo si soffermava su particolari ulteriori e più dettagliati, in rapporto soprattutto agli effetti che la peste aveva provocato nella stessa città di Roma:

Ci fu inoltre una pestilenza così violenta che bisognava trasportare i cadaveri su vetture e carri. Allora dunque gli Antonini promulgarono leggi molto severe a proposito delle sepolture e delle tombe, proibendo tra le altre cose che nessuno erigesse un sepolcro dove voleva, divieto ancor oggi valido. Tra le migliaia di vittime colpite dalla peste ci furono anche molti nobili: i più eminenti ricevettero da Antonino l’onore di una statua. La sua bontà era così grande da ordinare che i funerali dei più poveri avvenissero a spese dello Stato. C’era anche un ciarlatano che, cercando insieme ad alcuni complici di seminare disordini in città, arringava la folla in campo Marzio dall’alto di un fico selvatico: diceva che il fuoco sarebbe caduto dal cielo e ci sarebbe stata la fine del mondo se lui stesso, caduto dall’albero, non si fosse trasformato in cicogna; quindi, al momento convenuto, si lasciò cadere dall’albero e fece uscire contemporaneamente una cicogna dalle pieghe della sua veste. Marco lo fece portare di fronte a sé, quello confessò e ottenne il perdono (Marc. 13,3-6)18.

Se tutti questi espedienti di ciarlatani non tardano a ricordare molto da vicino episodi analoghi relativi alla peste a Milano nei Promessi sposi di Manzoni, attribuendoli al pericolo della guerra contro i Marcomanni, sempre l’Historia Augusta ricordava anche altri provvedimenti di ordine religioso presi ancora da Marco, benché in realtà dovesse trattarsi di provvedimenti contro l’incombere della peste stessa. Tra gli altri, veniva ricordata la circostanza che lo stesso Marco Aurelio avrebbe fatto «venire sacerdoti dappertutto, compì riti di origine straniera e purificò Roma con ogni tipo di sacrifici espiatori. Ritardò anche la partenza per la guerra allo scopo di poter celebrare lettisterni [banchetti in onore degli dei] secondo il rito romano per sette giorni»19.

A questo stesso proposito, qualche decennio più tardi, Cassio Dione accennava soltanto, per quanto riguardava la vittoria di Lucio Vero in Oriente, a un suo ritorno a Roma contristato dalla perdita di «gran parte dei soldati a causa della carestia e poiché malati». Tuttavia un frammento dello storico Crepereio Calpurniano, anch’egli un contemporaneo degli avvenimenti narrati e che tentò di scrivere un suo racconto sull’impresa partica di Lucio Vero, suggeriva al contrario che la peste avesse avuto origine in Egitto e che dunque appunto dall’Egitto essa si fosse propagata in tutto l’impero20.

Che la peste avesse avuto origine in Partia, come riteneva l’Historia Augusta, o più in genere in Oriente (o, con maggiore esattezza, in Egitto, come sosteneva Crepereio Calpurniano), la circostanza tuttavia che in un simile contesto è tanto necessario quanto fondamentale sottolineare deve essere fatta consistere nelle conseguenze di ordine economico-sociale che un’epidemia gravissima (sia che essa fosse allora molto difficilmente una vera e propria peste bubbonica, sia che si trattasse di semplice vaiolo o tifo: era difficile anche per i medici antichi, perfino per un Galeno, distinguere tra questi diversi tipi di malattie largamente infettive) provocò sulla demografia dell’impero romano nel suo complesso. Come già ebbe modo di mettere in rilievo a suo tempo Rosa Luxemburg nell’Accumulazione del capitale, nel mondo antico e più in genere in ogni epoca (basti pensare per quanto riguarda il Medioevo alla famosa «peste nera» scoppiata dopo il 1346) la conseguenza di queste perdite demografiche è in sostanza una, anche se assolutamente devastante: trattandosi nel caso specifico del mondo greco-romano, l’enorme perdita di manodopera (tanto manodopera libera quanto manodopera servile) sia per la coltivazione dei campi sia per l’artigianato. Appena si pensi che questa pestilenza, di cui si ignora la natura esatta, provocò nella sola città di Roma – nel momento del suo massimo imperversare – almeno cinquemila morti al giorno (come è stato calcolato, ma con tutte le riserve che simili calcoli non possono non comportare), le perdite sul piano demografico e corrispettivamente le ricadute su quello più propriamente economico sono evidentissime, tali da non aver bisogno neppure di essere commentate21.

Sono conseguenze che sarà necessario prendere in esame partitamente e dettagliatamente in seguito, a proposito della politica economica di Marco Aurelio, ormai unico Augusto, e soprattutto a proposito da un lato di una nuova tassazione da lui imposta, dall’altro della sua politica monetaria. Con un’avvertenza forse prematura, ma comunque essa stessa di rilievo fondamentale: l’intensificarsi delle guerre combattute da Marco sul fronte germanico fino alla sua morte non poterono evidentemente non comportare che un solo esito: quello di aggravare ulteriormente le condizioni economiche di un impero già quasi sul lastrico.

5. Le campagne dei due Augusti contro i barbari del Nord

Tuttavia, neppure dopo il suo ritorno a Roma, alla fine della campagna partica, per Vero le fatiche della guerra potevano dirsi terminate. Infatti, intorno al 166 si assistette a nuovi attacchi di popolazioni barbariche che cercavano di superare i confini dell’impero, oltrepassando tanto il Reno quanto il Danubio. Già a partire dal 166 Marco Aurelio provvide ad arruolare due nuove legioni composte soprattutto da Italici che, mutando i loro nomi precedenti, assunsero, appunto per l’origine degli uomini da cui erano composte, quelli di II Italica e III Italica. La situazione allora era estremamente grave: seimila Longobardi e Obii avevano invaso la Pannonia, anche se ben presto sarebbero stati respinti oltre i confini di quella provincia. A questo punto, dopo la durissima sconfitta che avevano subito Longobardi e Obii, ben undici popolazioni barbariche inviarono ambasciatori al governatore della Pannonia Superiore Iallius Bassus per chiedere la pace: quasi paradossalmente, avevano scelto come loro portavoce Bellomario, re dei Marcomanni, una delle tribù germaniche più ostili a Roma22.

Lucio Vero, che aveva aperto il 167 come console per la terza volta, occupò quella magistratura solo per pochi mesi in quanto nel 168 fu costretto a partire di nuovo insieme a Marco, questa volta per dirigersi a Settentrione, dal momento che le notizie provenienti da quel fronte erano estremamente gravi. I Marcomanni si erano ribellati di nuovo e ad essi si era aggiunta la tribù dei Victuales; entrambi muovevano verso Sud, disturbando la frontiera. Minacciavano addirittura di invadere l’Italia se non vi fossero stati accolti pacificamente. Si addivenne a trattative e molte tribù inviarono ambasciatori ai governatori delle province aggredite per chiedere il loro perdono. Comunque gli Augusti avevano già raggiunto Aquileia. I Quadi erano stati sconfitti e il loro re era morto23.

Tuttavia, a proposito di queste stesse guerre, i pareri di Marco e di Vero erano divergenti, ancora una volta con maldicenze dell’Historia Augusta a proposito delle attitudini del secondo Augusto che, già «partito di malavoglia», dopo la fine di quella campagna, avrebbe avuto troppa fretta di lasciare il fronte per far ritorno a Roma:

Ma i due imperatori partirono in veste di guerra, mentre i Victuales e i Marcomanni creavano dappertutto disordini e mentre altri popoli, che erano stati cacciati dalle loro sedi dai barbari del Nord, erano pronti a entrare in guerra se non fossero stati accolti. Questa partenza e la loro marcia fino ad Aquileia ebbero esiti positivi. Infatti molti re si ritirarono insieme ai loro popoli e misero a morte coloro che avevano istigato alla rivolta. Da parte loro i Quadi, che avevano perduto il loro re, andavano dicendo che non avrebbero confermato colui che era stato eletto prima che la loro scelta non fosse stata confermata dai nostri imperatori. Lucio tuttavia era partito malvolentieri, nonostante che moltissimi [barbari] avessero inviato ambasciatori ai legati imperiali a chiedere perdono per il tradimento [...]. Infine, oltrepassate le Alpi, [Marco e Lucio] avanzarono oltre e presero tutte le precauzioni necessarie alla difesa dell’Italia e dell’Illirico. Fu anche deciso, su richiesta di Lucio, di mandare lettere al senato per preannunciare il ritorno dello stesso Lucio a Roma. Ma, ad appena due giorni dalla loro partenza, Lucio, seduto in carrozza insieme al fratello, fu colpito da un attacco di apoplessia e morì24.

Lucio Vero morì dunque mentre faceva ritorno a Roma nella stessa carrozza in cui viaggiava insieme a Marco Aurelio. Siamo in presenza di una circostanza che non tarda ad apparire estremamente significativa, poiché essa potrebbe essere indizio che anche Marco intendesse allora fare ritorno nella «capitale». Appena si pensi ai rapporti già abbastanza tesi tra i due Augusti, di fatto è molto difficile pensare che lo stesso Marco avesse intenzione di accompagnare in carrozza per un gesto di pura e semplice «cortesia» il «fratello» Lucio appena per un tratto del suo viaggio di ritorno. Se questa supposizione coglie nel vero, ne dedurremo che Marco sentiva la necessità impellente di rientrare a Roma per risolvere i problemi insoluti – ed erano molteplici e svariati – che aveva lasciato al momento della sua partenza, e non solo per provvedere a che anche Lucio Vero – come del resto gli competeva di diritto – fosse tumulato nel Mausoleo di Adriano e dunque inserito anch’egli, come tutti gli altri Augusti che lo avevano preceduto, nel novero dei divi25.

6. Le divergenze di Lucio Vero e Marco Aurelio sulle guerre nordiche

A questo punto, e alla conclusione del «doppio principato» (come si è visto, non facile) di Marco Aurelio e Lucio Vero, va messo in rilievo un aspetto di estremo interesse per quanto riguarda la differenza di prospettive politiche soprattutto a proposito della politica estera dei due Augusti. Come Augusto nel suo testamento aveva lasciato scritto a Tiberio di non ampliare ulteriormente i confini dell’impero anche per le difficoltà di ordine economico che un simile ampliamento avrebbe comportato (soprattutto in rapporto agli inevitabili stanziamenti legionari e alle necessità, altrettanto inevitabili, di rifornirli di viveri), come Adriano e il suo successore Antonino Pio, sebbene con modalità diverse, si erano adoperati a proteggere i confini del mondo romano, che per entrambi coincidevano – come già si è visto – con gli stessi confini della civiltà ellenistico-romana26, allo stesso modo anche Lucio Vero si mostra un persecutore – e un persecutore estremamente degno, al di là delle maldicenze dell’Historia Augusta sui suoi rapporti con Marco – di quella stessa politica. Di fatto, l’impero fin dall’inizio del suo «doppio principato» correva pericoli di invasioni: come già si è visto, nel 161 e nel 162 i Catti avevano compiuto scorrerie oltre il Reno, mentre la Britannia in quegli stessi anni era in piena agitazione27. Appunto per queste ragioni Lucio Vero, ben conscio che la situazione dell’impero non era allora di fatto assolutamente pacificata, diversamente da Marco Aurelio, avrebbe voluto mettere fine a una politica espansionistica o addirittura imperialistica, quale era quella propugnata da Marco, per mettere in atto piuttosto trattative diplomatiche con quei barbari del Nord che minacciavano continuamente di oltrepassare il Reno e il Danubio, evidentemente allo scopo, nelle intenzioni dello stesso Lucio Vero, di rendere più sicuri i confini delle province romane che avevano la sventura di trovarsi a ridosso di quei due fiumi.

7. I rapporti commerciali di Roma con l’Estremo Oriente

Del resto gli esiti della campagna partica di Lucio Vero non furono molto positivi (o almeno tanto positivi quanto ci si sarebbe aspettato) anche per quanto riguardava i rapporti commerciali di Roma con l’Estremo Oriente. Il regno partico, anche se sconfitto, rimaneva sempre e comunque una via di passaggio necessaria e indispensabile per le carovane che, muovendo soprattutto da Palmira, percorrevano la via della seta e delle spezie, merci di cui i ceti alti dell’impero (in primo luogo quelli appartenenti al rango senatorio) erano particolarmente desiderosi. Così, grazie alla scoperta del regime dei monsoni già in epoca augustea, non rimaneva da percorrere che una via diversa, non solo molto più lunga ma in larga misura anche più tortuosa: circumnavigare l’Oceano Indiano e quindi, passando per Singapore (Kattighara), attraversare la penisola indocinese per giungere finalmente in Cina. Non è certo un caso che appunto in questi anni gli annali cinesi degli Han abbiano puntualmente registrato una cosiddetta «ambasceria» proveniente da Ta-tsin (l’impero romano) e che sarebbe stata sedicentemente inviata da Au-tun (l’imperatore Antonino, in altri termini lo stesso Marco Aurelio). È evidentemente molto dubbio che Marco Aurelio abbia mai inviato ambasciatori veri e propri in Cina, troppo preso allora (come si è visto) a proteggere i confini settentrionali del suo impero. Del resto, anche le caratteristiche dei doni che gli «ambasciatori» recavano in omaggio al sovrano del Celeste Impero (denti di elefante evidentemente d’avorio, corni di rinoceronte, gusci di tartarughe) tendono inevitabilmente a connotarli piuttosto come mercanti romani che, per acquisire credito presso l’imperatore della Cina, non esitarono a spacciarsi astutamente per «ambasciatori». Forse erano quegli stessi commercianti che, prima di arrivare in Cina, erano passati per l’India, provenendo da Je-nam (l’Amman), e di fatto negli scavi condotti a suo tempo nel delta del Mekong, presso l’attuale Saigon, fu scoperto un aureo di Marco Aurelio28.

1 E. Kornemann, Doppelprinzipat und Reichsteilung im Imperium Romanum, Leipzig-Berlin 1930 (rist. anast. Groeningen 1968). Vedi, naturalmente a proposito di Augusto, RG 34,3, ed. Gagé: Post id tempus a[uctoritate] omnibus praestiti, potes/statis autem nihilo amplius habu[i quam cet]eri qui mihi quo/que in magistratu conlegae [f]uerunt («Dopo questo tempo [il 27 a.C.] fui superiore a tutti in autorità, ma non ebbi più potere in nulla di coloro che mi furono colleghi in ciascuna magistratura»). Al riguardo R. Heinze, «Auctoritas», in «Hermes», 60, 1925, pp. 348 sgg.; quindi Id., Vom Geist des Römertums, Stuttgart 19603, pp. 43 sgg.; J. Gagé, De César à Auguste. Où est le problème des origines du principat?, in «RH», 177, 1936, p. 289; S. Mazzarino, 1984, I, pp. 119-20; A. Fraschetti, Augusto, Roma-Bari 20024, pp. 61-62. A proposito di Vespasiano e Tito, sempre E. Kornemann, Doppelprinzipat und Reichsteilung cit., pp. 59 sgg., si fondava soprattutto su Plinio, Pan. 8: [Titus] simul filius, simul Caesar, mox imperator et consors tribuniciae potestatis et omnia pariter et statim factus est: («[Tito] allo stesso tempo figlio, allo stesso tempo Cesare, fu fatto subito imperator e partecipe della tribunicia potestà e pari in tutto»). Di fatto i rapporti di potere tra Vespasiano e suo figlio Tito ripetevano lo schema già collaudato da Augusto con Agrippa e Tiberio, con l’ulteriore avvertenza che Tito era semplicemente Caesar, come prima della morte di Augusto lo era stato Tiberio.

2 H.A., Marc. 7,6: Atque ex eo pariter coeperunt rem publicam regere. Tuncque primum Romanum imperium duos Augustos habere coepit, <cum imperium sibi re>lictum cum alio <non> participasset, come da parte mia proporrei di emendare per dare senso compiuto alla citazione stessa.

3 Vedi H.A., Ver. 3,8: Defuncto Antonino Marcus in eum omnia contulit, principatu etiam imperatoriae potestatis indulto, sibique consortem fecit, cum illi soli senatus detulisset imperium («Morto Antonino [Pio], Marco gli conferì [a Lucio Vero] tutti gli onori, anche la partecipazione al potere imperiale, benché il senato avesse offerto l’impero a lui soltanto»).

4 Vedi H.A., Marc. 7,5-7: Post excessum divi Pii a senatu coactus regimen publicum capere fratrem sibi participem in imperio designavit, quem Lucium Aurelium Verum Commodum appellavit Caesaremque atque Augustum dixit. [...] Antonini mox nomen recepit. Et quasi pater Lucii Commodi esset, et Verum eum appellavit addito Antonini nomine filiamque suam Lucillam fratri despondit («Dopo la morte del divo Antonino, [Marco Aurelio], sospinto dal senato ad assumere il potere, designò il fratello [Lucio Vero] a essergli partecipe nell’impero, lo chiamò Lucio Aurelio Vero Commodo e lo designò Cesare e Augusto. [...] Subito egli stesso [Marco Aurelio] ricevette il nome di Antonino. E, come fosse il padre di Lucio Commodo, gli diede il nome anche di Vero e promise al fratello in sposa sua figlia Lucilla»). La notizia a proposito del nome «Aurelio», conferito allora da Marco a Lucio, è evidentemente errata, come è chiaro grazie a H.A., Ver. 2,10: Post septimum annum in familiam Aureliam traductus [...]. Per le diverse formule onomastiche di Lucio Vero vedi J.-P. Callu, Vérus avant Vérus cit., pp. 101 sgg.

5 Per i giudizi nella storiografia moderna vedi Carrata Thomes, 1953, pp. 63-64, il quale sostiene che il senato, contrariamente a quanto affermato da H.A., Marc. 7,5-7 – secondo cui i senatori avrebbero voluto che il solo Marco assumesse l’impero –, avrebbe scelto come collega Lucio Vero per le grandi difficoltà in cui versava allora lo Stato. Vedi anche Birley, 1966, p. 153: «Two emperors thus ruled the Roman world for the first time, an innovation, but like most Roman innovations one for which there was ample precedent», con implicita, ma molto evidente, allusione ai «colleghi» di Augusto, Agrippa e Tiberio.

6 Vedi H.A., Marc. 4,10: Sed ab omnibus his intentionibus studium eum philosophiae abduxit seriumque et gravem reddidit, non tamen prorsum abolita in eo comitate, quam praecipue suis, mox amicis atque etiam minus notis exhibebat, cum frugi esse sine contumacia, verecundus sine ignavia, sine tristitia gravis.

7 Vedi rispettivamente H.A., Ver. 7: Antiochiam posteaquam venit, ipse quidem se luxuriae dedit. Duces autem confecerunt Parthicum bellum, Statius Priscus et Avidius Cassius et Martius Verus per quadriennium, ita ut Babylonem et Mediam pervenirent et Armeniam vindicarent. Partumque ipsi nomen est Armeniaci, Parthici, Medici, quod etiam Marco Romae agenti delatum est. Egit autem per quadriennium Verus hiemem Laodiciae, aestatem apud Daphnem, reliquam partem Antiochiae. Risui fuit omnibus Syris, quorum multa ioca in theatro in eum dica exstant. Vernas in triclinium Saturnalibus et diebus festis semper admisit. Ad Eufratem tamen impulso comitum suorum secundo profectus est. Efesus etiam redit, ut Lucillam uxorem missam a patre Marco susciperet, et idcirco maxime, ne Marcus cum ea in Syriam veniret et flagitia eius adnosceret. Nam senatui Marcus dixerat se filiam in Syriam deducturum. Confecto sane bello regna regibus, provincias vero comitibus suis regendas dedit. Romam inde ad triumphum invitus, quod Syriam quasi regnum suum relinqueret, redit et pariter cum fratre triumphavit susceptis a senatu nominibus, quae in exercitu acceperat. Fertur praeterea ad amicae vulgaris arbitrium in Syria posuisse barbam. Unde in eum a Syriis multa sunt dicta; ivi, 10,1: Fuit sermo, quod et socrum Faustinam incestasset. Et dicitur Faustinae socrus dolo aspersis ostreis veneno extinctus esse, idcirco quod consuetudinem, quam cum matre fuerat, filiae prodidisset [...]. Sulle altre caratteristiche, attribuite a Lucio Vero sempre dall’Historia Augusta, volte a connotarlo come dedito a ogni vizio e a ogni lussuria, vedi supra, p. 28.

8 Vedi supra, pp. 47-48 con nota 20.

9 P. Lambrecht, L’empereur Lucius Verus. Essai de réhabilitation cit., pp. 173 sgg.; S. Mazzarino, 1966, II 2, pp. 245-47; cfr. già Id., La «Historia Augusta» e la EKG cit., pp. 35-38.

10 Per la Britannia e i Catti vedi H.A., Marc. 8,7-8: Imminebat etiam Brittanicum bellum, et Catthi in Germaniam ac Raetiam inrumperant. Et adversus Brittannos quidem Calpurnius Agricola missus est, contra Catthos Aufidius Victorinus («Una guerra minacciava anche la Britannia e i Catti avevano fatto irruzione in Germania e nella Rezia. E quindi contro i Britanni fu mandato Calpurnio Agricola, contro i Catti Aufidio Vittorino»). Su Calpurnio Agricola vedi J.P. Gilliam, Calpurnius Agricola and the Northern Frontiers, in «Transactions of the Architectural and Archaeological Society of Durham and Northumberland», 10, 1953, pp. 359 sgg. Su C. Aufidius Victorinus vedi H.-G. Pflaum, La carrière de C. Aufidius Victorinus, condisciple de Marc-Aurèle, in «CRAI», 1956, pp. 189 sgg.; inoltre G. Alföldy, «Fasti Hispanienses», Wiesbaden 1969, pp. 38 sgg.; B. Lorencz, Zur Consulliste des Jahres 157, in «ArchSlov», 28, 1977, pp. 369-72.

11 Per la sconfitta di Attidio Corneliano vedi H.A., Marc. 8,6: Fuit eo tempore etiam Parthicum bellum, quod Vologessus paratum sub Pio Marci et Veri tempore indixit fugato Atidio Corneliano, qui Syriam tunc administrabat («In quel tempo scoppiò anche una guerra contro i Parti, che Vologese aveva preparato fin da [Antonino] Pio e dichiarò ai tempi di Marco e Lucio, dopo aver messo in fuga Atidio Corneliano, che era allora governatore della Siria»). Sulla guerra partica vedi il racconto più veritiero di Cassio Dione, LXXI 2 (per la citazione riportata nel testo), con l’aggiunta puntuale: «Sembra che infatti fu Vologese a dare inizio alla guerra circondando su ogni fianco tutte le legioni romane che erano comandate da Severiano ed erano di stanza a Elegeia, una località dell’Armenia; allora le mise a tacere con grida e distrusse l’intero esercito con i suoi comandanti; e avanzava poderoso, incutendo timore, contro le città della Siria. Lucio dunque giunse ad Antiochia e mise insieme quanti più soldati possibile; allora, guidando sotto di sé i migliori comandanti, pose il suo quartier generale nella città e, assemblati i rifornimenti per la guerra, dette tutte le disposizioni e affidò l’esercito ad [Avidio] Cassio. Costui resistette con valore agli attacchi di Vologese e infine, quando il re fu abbandonato dai suoi e cominciò a ritirarsi, lo inseguì fino a Seleucia e a Ctesifonte, dando fuoco a Seleucia e radendo al suolo il palazzo reale di Vologese a Ctesifonte». La versione di Cassio Dione deve naturalmente confrontarsi con quella di H.A., Ver. 4,4 sgg. (con una versione tanto malevola quanto di fatto opposta). Vedi su questa campagna già E. Napp, De rebus imperatore M. Aurelio Antonino in Oriente gestis, Bonn 1879; C.H. Dodds, Chronology of the Eastern Campaigns of the Emperor Lucius Verus, in «NC», n.s. IV, 11, 1911, pp. 209 sgg.; A. von Premerstein, Untersuchungen zur Geschichte des Kaisers Marcus, in «Klio», 11, 1911, pp. 355 sgg.; A. Gunther, Beiträge zur Geschichte der Kriege zwischen Römern und Parthern, Berlin 1922, pp. 114 sgg.; D.A. Magie, Roman Rule in Asia Minor, 2 voll., Princeton 1950, I, pp. 660 sgg.; Carrata Thomes, 1953, pp. 70 sgg.; S. Mazzarino, 1984, I, pp. 334 sgg. Sull’incarico per la guerra partica ricevuto dal senato da Lucio Vero per esplicita volontà di Marco Aurelio, H.A., Marc. 8,9: Ad Parthicum vero bellum senatu consentiente Verus frater est missus; ipse Romae remansit, quod res urbanae imperatoris praesentiam postularent («Invero, per consenso del senato il fratello Vero fu mandato alla guerra partica; egli [Marco Aurelio] restò a Roma dal momento che i problemi della città richiedevano la presenza di un imperatore», circostanza, quest’ultima, che ha tutte le caratteristiche di una «scusa», addotta da Mario Massimo, per giustificare il fatto che Marco Aurelio non prendesse parte, anch’egli, a quella campagna). Vedi del resto anche il giudizio, che potrebbe definirsi tanto importante quanto risolutivo, sulle attitudini diverse dei due Augusti in Cassio Dione, LXXI 1: «Marco Antonino, il filosofo, dopo aver preso il potere alla morte di Antonino Pio, dovette subito dividere il suo potere con Lucio Vero, il figlio di Lucio Commodo. Egli era di salute fragile e dedicava alle lettere la maggior parte del suo tempo. [...] Lucio d’altra parte era nel fiore degli anni e molto più adatto alle imprese militari. Per questo Marco lo fece suo genero, dandogli in sposa la figlia Lucilla, e lo inviò a condurre la guerra contro i Parti». Per le origini di Avidio Cassio vedi infra, p. 149 nota 1. Su Antiochia vedi, per esempio, G. Haddad, Aspects of Social Life in Antioch in the Ellenistic-Roman Period, Chicago 1949, in particolare pp. 122 sgg. e 177 sgg.

12 Luciano, Quomodo historia conscribenda sit 30; cfr. Astarita, 1983, pp. 40-41 nota 89. Sugli avvenimenti cfr. H.J.W. Drijvers, Hatra, Palmira und Edessa. Die Städte der Syrischmesopotamischen Wüste in politischer, kulturgeschichtlicher und religionsgeschichtlicher Beleuchtung, in «ANRW», II, 8, 1977, pp. 874 sgg. Diversamente D.A. Magie, Roman Rule in Asia Minor cit., II, p. 153 nota 5; Carrata Thomes, 1953, p. 78 e G. Alföldy-H. Halmann, Junius Maximus und die Victoria Parthica, in «ZPE», 35, 1979, p. 205. Astarita, 1983, p. 43, nega giustamente che la conquista di Edessa debba essere attribuita a Marco Claudio Frontone, allora ormai lontano dall’Oriente (vedi in proposito Birley, 1966, p. 194 con G. Alföldy, Konsulat und Senatorenstand unter den Antoninen. Prosopographische Untersuchungen zur senatorischen Führungsschicht, Bonn 1977, p. 179).

13 Sull’invio delle truppe D.A. Magie, Roman Rule in Asia Minor cit., II, p. 153; cfr. più in generale A. Betz, Zur Dislokation der Legionen in der Zeit vom Todes des Augustus bis zum Ende der Prinzipatsepoche, in E. Swoboda (a cura di), Carnuntina. Vorträge beim Internationalen Kongress für Altertumsforscher, Carnuntum, Graz-Köln 1956, pp. 17 sgg.

14 Sulla riconquista di Artaxata vedi H.A., Marc. 9,1: Gestae sunt res in Armenia prospere per Statium Priscum Artaxatis captis, delatumque Armeniacum nomen utrique principum («La campagna d’Armenia si svolse in modo favorevole grazie a Stazio Prisco che conquistò Artaxata, e fu dato a entrambi gli imperatori il titolo di Armeniaco»). Per la campagna armenica di Stazio Prisco, Cassio Dione, LXXI 3: «Marzio Vero inviò Tucidide a condurre Soemo in Armenia». Per l’imposizione sul trono di Soemo, Frontone, ad Verum Imp. 2, 15, p. 127 Naber: vel quod Sohaemo potius quam Vologaeso regnum Armeniae dedisset; aut quod Pacorum regno privasset («sia che [Lucio Vero] abbia dato il regno d’Armenia a Soemo piuttosto che a Vologese; oppure che abbia privato Pacoro del regno»).

15 Vedi Astarita, 1983, p. 42. Marco Annio Libone, che era cugino di Marco Aurelio, avrebbe trovato la morte a opera di Lucio Vero che sopportava di malanimo il controllo sul suo operato, almeno secondo la consueta versione malevola dell’Historia Augusta, o piuttosto di Mario Massimo, da cui la stessa Historia Augusta traeva a questo proposito ancora una volta le sue informazioni; vedi in effetti H.A., Ver. 9,2-3: verum illud praecipuum quod, cum Libonem quendam patruelem suum Marcus legatum in Syriam misisset, atque ille se insolentius quam verecundus senator efferret dicens ad fratrem suum se scripturum esse, si quid forte dubitaret, nec Verus praesens pati posset, subitoque morbo notis prope veneni exsistentibus interisset, visum est nonnullis, non tamen Marco, quod eius fraude putaretur occisus. Quae res simulatum auxit rumorem («Marco aveva inviato in Siria un certo Libone, suo cugino germano, che si comportava con più arroganza di quanto convenisse a un senatore riservato, dicendo che avrebbe scritto a suo cugino se per caso avesse dubitato di qualcosa; Vero, che era presente, non poteva sopportarlo. Ma un’improvvisa malattia, accompagnata da sintomi di avvelenamento, mise fine alla sua vita. Alcuni pensarono, ma non Marco, che la sua morte fosse dovuta alle trame di Vero e quanto accadde rese più forti le voci di un disaccordo»). Vedi al riguardo T.D. Barnes, Hadrian and Lucius Verus cit., pp. 65 sgg.; H.-G. Pflaum, Les personnages nommément cités dans la «Vita Veri» de l’«H.A.», in BHAC 1972/1974, Bonn 1976, pp. 183 sgg.

16 Su Avidio Cassio e le sue campagne in Partia, soprattutto Astarita, 1983, pp. 40 sgg.; quindi E. Klebs, Die Vita des Avidius Cassius, in «RhM», 43, 1888, pp. 321 sgg.; J. Schwartz, Avidius Cassius et les sources de l’«Histoire Auguste» cit., pp. 135 sgg.; Birley, 1966, passim; A. Chastagnol, Le supplice inventé par Avidius Cassius: remarques sur l’«H.A.» et la lettre 1 de saint Jérôme, in BHAC 1970, Bonn 1971, pp. 107 sgg.; H.-G. Pflaum, Les personnages nommément cités par les «Vita Aelii» et «Vita Avidii Cassii» de l’«H.A.» cit., pp. 193 sgg.; B. Baldwin, The «Vita Avidii», in «Klio», 58, 1976, pp. 119 sgg.; M.G. Angeli Bertinelli, I Romani oltre l’Eufrate nel II secolo d.C. (le province di Assiria, di Mesopotamia e di Osroene), in «ANRW», II, 9,1, 1979, pp. 23 sgg.; R. Syme, Avidius Cassius: His Rank, Age and Quality cit., pp. 207 sgg. Su Avidio Cassio e la sua persona si tornerà più diffusamente infra, cap. IX, a proposito del suo tentativo di usurpazione.

17 Per il distacco di Lucio Vero da Marco Aurelio successivo alla guerra partica vedi H.A., Ver. 8,6: Reversus e Parthico bello minore circa fratrem cultu fuit Verus; nam et libertis inhonestius indulsit et multa sine fratre disposuit («Di ritorno dalla guerra partica Vero ebbe minore rispetto nei confronti del fratello e indulse ai liberti in maniera indecorosa e decise molti affari senza [aver ascoltato il parere del] fratello»). Naturalmente la volontà di una maggiore indipendenza di Lucio nei confronti di Marco non può essere attribuita – com’è chiaro – sulla scia dell’Historia Augusta alla circostanza, peraltro tanto banale quanto malevola, che Lucio avrebbe in qualche modo ascoltato troppo il parere dei suoi liberti, ma piuttosto alla coscienza pienamente acquisita di aver portato a termine, mentre Marco rimaneva a Roma, con successo (un successo quasi insperato) una grande spedizione contro quell’impero partico che era nemico tradizionale dell’impero dei Romani.

18 Vedi rispettivamente H.A., Ver. 8,1-4: Fuit eius fati, ut in eas provincias, per quas redit, Romam usque luem secum deferre videretur. Et nata fertur pestilentia in Babylonia, ubi de templo Apollinis ex arcula aurea, quam miles forte inciderat, spiritus pestilens evasit, atque inde Parthos orbemque complesse, et hoc non Lucii Veri vitio sed Cassii, a quo contra fidem Seleucia, quae ut amicos milites nostros receperat, expugnata est. Quod quidem inter ceteros etiam Quadratus, belli Parthici scriptor, incusatis Seleucenis, qui fidem primi ruperant, purgat (sulla citazione di Asinio Quadrato vedi supra, p. 30 nota 12) e H.A., Marc. 13, 3-6: Tanta autem pestilentia fuit, ut cadavera vehiculis sint exportata sarracisque. Tunc autem Antonini leges sepeliendi sepulchrorumque asperrimas sanxerunt, quando quidem caverunt, ne quis <ubi> vellet fabricaretur sepulchrum. Quod hodie servatur. Et multa quidem milia pestilentia consumpsit multosque ex proceribus, quorum amplissimis Antoninus statuas conlocavit. Tantaque clementia fuit, ut et sumptu publico vulgaria funera iuberet [et] ecferri et vano cuidam, qui diripiendae urbis occasionem cum quibusdam consciis requirens de caprifici arbore in campo Martio contionabundus ignem de caelo lapsurum finemque mundi affore diceret, si ipse lapsus ex arbore in ciconiam verteretur, cum statuto tempore decidisset atque ex sinu ciconiam emisisset, perducto ad se atque confesso veniam daret.

19 H.A., Marc. 13,1-2: Tantus autem timor belli Marcomannici fuit, ut undique sacerdotes Antoninus acciperat, peregrinos ritus impleverit, Romam omni genere lustraverit; retardatusque bellica profectione sic celebravit et Romano ritu lectisternia per septem dies. Quanto ai «riti stranieri», cui avrebbe fatto ricorso lo stesso Marco Aurelio, vedi K.B. Angyal, «Peregrinus ritus» in «Vita Marci (SHA)» 13,1. Contribution à l’étude du rapport entre la politique religieuse impériale et la vie religieuse des provinces danubiennes, in «ACD», 8, 1971, pp. 77 sgg. Sul ricorso fatto a un «mago» straniero – sempre un amico di Marco – perché provocasse anche la «pioggia miracolosa», vedi infra, p. 86.

20 Cassio Dione, LXXI 2,3. A proposito della testimonianza di Crepereio Calpurniano, vedi S. Mazzarino, 1984, I, p. 337.

21 Per il calcolo della mortalità a Roma A.E.R. Boack, Manpower Shortage and the Fall of Roman Empire in the West, Ann Arbor 1955, pp. 15 sgg.; J.F. Gilliam, The Plague under Marcus Aurelius, in «AJPh», 82, 1961, pp. 225 sgg.; ora Id., Die Pest unter Mark Aurel, in R. Klein (a cura di), Mark Aurel cit., pp. 146 sgg. Vedi ora, sull’attendibilità dei calcoli demografici più in generale nel mondo antico, E. Lo Cascio, Il mondo romano e le indagini demografiche: dalla controversia Hune-Wallace alla «Biblioteca di storia economica» e oltre, in «QS», 64, 2006, pp. 245 sgg. Qui è anche importante rilevare, per dare la misura della gravità di mancanza di manodopera (sia servile che libera), come a Roma in genere la vita umana raggiungesse a stento, in media, i trent’anni: J. Szilagyi, Beiträge zur Statistik der Sterblichkeit in der westeuropäischen Provinzen des römischen Imperiums, in «AAntHung», 13, 1961, pp. 126 sgg. Per valutare in modo adeguato il pericolo, rappresentato da quella peste devastante, basti solo pensare che anche Galeno, il medico personale di Marco Aurelio, lasciò Roma per far ritorno in Asia Minore: a sua difesa per questo «abbandono» vedi già J. Walsh, Refutation of the Charges of Cowardice against Galen, in «Annals of Medical History», 3, 1931, pp. 195 sgg. Per la problematica più generale basti il rinvio a W.H. Mc Neill, Plagues and Peoples, Doubleday 1976 (trad. it., La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età moderna, Torino 1981). Sulle conseguenze della peste nella politica tanto economica quanto fiscale di Marco Aurelio, vedi infra, cap. XI.

22 Vedi Cassio Dione, LXXII 3,1: «Seimila Longobardi e Obii passarono il Danubio, ma furono respinti dalla cavalleria agli ordini di Vindice, mentre giungeva la fanteria comandata da Candido, in modo tale che i barbari furono completamente volti in fuga. Allora, costernati per questo esito che era capitato loro per la prima volta, i barbari mandarono ambasciatori a Iallius Bassus, governatore della Pannonia, scegliendo a questo scopo Bellomario, re dei Marcomanni, e altri dieci per ogni tribù. Questi ambasciatori stipularono la pace, sancita con giuramenti, e poi tornarono indietro».

23 Per gli avvenimenti del 166-7 vedi Carrata Thomes, 1953, pp. 91 sgg. e Birley, 1966, pp. 205-6.

24 H.A., Marc. 14,1-8: Profecti tamen sunt paludati ambo imperatores et Victualis et Marcomannis cuncta turbantibus, aliis etiam gentibus, quae pulsae a superioribus barbaris fugerant, nisi reciperentur, bellum inferentibus. Nec parum profuit ista profectio, cum Aquileiam usquam venissent. Nam plerique reges et cum populis suis se retraxerunt et tumultus auctores interemerunt. Quadi autem amisso rege suo non prius se confirmaturos eum, qui erat creatus, dicebant, quam id nostris placuisset imperatoribus. Lucius tamen invitus profectus est, cum plerique ad legatos imperatorum mitterent defectionis veniam postulantes. [...] Denique transcensis Alpibus longius processerunt composueruntque omnia quae ad munimen Italiae atque Illyrici pertinebant. Placuit autem urgente Lucio, ut praemissis ad senatum litteris, Lucius Romam rediret. Biduoque, postquam iter ingressi sunt, sedens cum fratre in vehiculo Lucius apoplexi arreptus periit. Con le misure prese a difesa dell’Italia si fa riferimento evidentemente alla praetentura Italiae, sulla quale Birley, 1966, pp. 324-25, che da parte sua la data al 168, a differenza di W. Zwikker, Studien zur Markussäule, I, Amsterdam 1941, pp. 162 sgg., che in precedenza aveva proposto una datazione intorno al 171.

25 Per Vero annoverato implicitamente dal senato tra i divi in base al luogo della sua sepoltura vedi H.A., Ver. 11,1: Inlatumque eius corpus est Hadriani sepulchro, in quo et Caesar pater eius naturalis sepultus est («Il suo corpo fu introdotto nel sepolcro di Adriano, dove era stato sepolto anche il suo padre naturale [Elio] Cesare»). In modo esplicito H.A., Marc. 20,1: Sed Marco Antonino haec sunt gesta post fratrem: primum corpus eius Romam devectum est et inlatum maiorum sepulchris. Divini ei honores decreti («Ecco quanto fece Marco Antonino [dopo la morte del] fratello: in primo luogo il suo corpo fu trasportato fino a Roma e sepolto nella tomba degli antenati. Gli furono decretati onori divini», evidentemente dal senato, che era l’unico organismo autorizzato a farlo).

26 Per i consigli di Augusto a Tiberio di non ampliare i confini dell’impero vedi A. Fraschetti, Augusto cit., p. 124. Per la politica estera di Adriano e Antonino Pio vedi supra, pp. 54 sgg.

27 Sugli spostamenti dei barbari del Nord negli anni già a partire dal 160, Carrata Thomes, 1953, pp. 91 sgg.; quindi H. Schoenberger, The Roman Frontier in Germany: An Archaeological Survey, in «JRS», 59, 1969, p. 172.

28 Per gli annali degli Han e per il passo che qui interessa vedi la traduzione di E. Chavannes, Le pays d’Occident d’après le Heou han chou, in «Toung-Pao», 8, 1907, pp. 185 (non vidi, ed è di fatto una rivista introvabile nelle biblioteche occidentali); cfr. comunque R. Hennig, Terrae incognitae, I, Leiden 19442, pp. 434-35. Sulla via della seta, per esempio, M.P. Charlesworth, Trade-Routes and Commerce in the Roman Empire, Cambridge 1926, pp. 88 sgg.; J. Filliozat, Les echanges de l’Inde et de l’Empire romain aux premiers siècles de l’ère chrétienne, in «RH», 102, 1949, pp. 1 sgg.; F. Altheim, Niedergang des alten Welt, I, Frankfurt 1952, soprattutto pp. 219 sgg.; E. Lamotte, Les premières relations entre l’Inde et l’Occident, in «Nouv. Clio», 5, 1953, pp. 83 sgg.; R.E.M. Wheeler, Rome beyond the Imperial Frontiers, London 1954, pp. 174-75 (trad. it., La civiltà romana oltre i confini dell’impero, Torino 1963, p. 181); E. Schwartz, L’Empire romain et le commerce oriental, in «AESC», 15, 1960, pp. 18 sgg.; S. Mazzarino, 1984, I, pp. 338-39. Su Palmira, da cui si dipartivano in tempi di pace le carovane alla volta della Cina, vedi J.G. Février, Essai sur l’histoire de Palmyre, Paris 1931; cfr. in genere J. Starcky, Palmyre, Paris 1952. Sulla scoperta del regime dei monsoni in epoca augustea F. De Romanis, Cassia, cinnamomo, ossidiana, Roma 1999, passim.