1.

NOTIZIE STORICHE

Questo primo capitolo è una cursoria rassegna di notizie elementari su alcune tappe di un cammino lungo due millenni e mezzo. Non si è tentato di tracciare un sia pure sommario profilo storico della retorica: non si poteva, in poche pagine, delinearne aspetti e movimenti in parallelo e in correlazione con gli sviluppi della filosofia e in particolare della dialettica, con le vicende dell’eloquenza politica e forense, e ancora, negli ambiti filosofico e letterario, con le elaborazioni dell’estetica, della poetica e delle teorie della letteratura.1 È sembrato opportuno, però, richiamare qualche indispensabile informazione preliminare sulla retorica greca e latina, e specialmente sulla sistemazione aristotelica, rimasta il fondamento principale della trattatistica posteriore. Su questa abbiamo scattato poche istantanee: appunti su antefatti a cui riferire sia la descrizione del corpus classico e le occasionali postille sulle neoretoriche contenuti nel secondo capitolo, sia i temi del terzo capitolo.

1.1. La retorica antica. Le origini

Siracusa, primi decenni del V secolo a.C. Due tiranni, Gelone e il suo successore Gerone I, fanno espropri massicci di terreni per distribuire lotti ai soldati mercenari. Quando, nel 467 a.C., un’insurrezione abbatte la tirannide, si apre una lunga serie di processi per la rivendicazione delle proprietà confiscate. Inclini per natura ai cavilli e alle contese giudiziarie (cum esset acuta illa gens et controversiae nata, scriverà Cicerone quattrocento anni dopo),2 i litiganti sapevano attaccare e difendersi con efficacia e precisione istintive. Bisognava solo provvederli di un metodo e di una tecnica codificati, ed è quanto avrebbero fatto Corace, attivo già al tempo dei tiranni, e il suo allievo Tisia, considerati perciò, secondo una tradizione largamente diffusa, come i fondatori della retorica. La loro precettistica poggiava sul seguente principio: il sembrare vero conta più dell’essere vero; donde la ricerca sistematica delle prove e lo studio delle tecniche atte a dimostrare la verosimiglianza di una tesi.

Elementari opposizioni scandiscono i primi passi della retorica: unita e contrapposta, come sistema di teorie, tecniche e precetti, all’eloquenza come virtù spontanea, essa si regge, al suo interno, sul confronto-contrasto tra l’essere e l’essere creduto vero.

Contemporaneamente, e sempre in Sicilia, prosperava un altro genere di retorica, detta psicagogica, cioè “trascinatrice degli animi”, che affondava le sue radici nei cosiddetti discorsi pitagorici, risalenti al periodo del primo pitagorismo. Essa mirava a convincere non col dimostrare in modo tecnicamente ineccepibile che un dato argomento era verosimile (eikós), ma sfruttando l’attrattiva che la parola sapientemente manipolata poteva esercitare sugli ascoltatori. L’effetto a cui puntare era la reazione emotiva, non l’adesione razionale; aspetti qualificanti di questa specie di magia della parola, il ragionamento per antitesi, collegato alla teoria pitagorica degli opposti, e la politropia, o capacità di trovare tipi diversi di discorso per i diversi tipi di ascoltatori (giovanetti, donne, magistrati, efebi...). Si stabilivano analogie con la medicina, dove la politropia consisteva nel trovare rimedi adatti alle svariate condizioni e predisposizioni dei pazienti; con la musica, a cui i pitagorici assegnavano un valore terapeutico; e con la magia, parente dell’una e dell’altra. Empedocle di Agrigento, filosofo in fama di mago, era ritenuto il vero fondatore della retorica, da una tradizione a cui darà credito lo stesso Aristotele.

Fu Aristotele ad attribuire all’ambiente pitagorico la definizione del concetto retorico di “opportuno” (kairós) in termini di proporzioni numeriche. L’idea dell’opportunità di un discorso secondo le circostanze e gli interlocutori era pur sempre connessa alla nozione di politropia e aveva implicazioni educative e sociali ricche di avvenire.

Nella Magna Grecia del V secolo a.C. dovrebbero ricercarsi dunque le origini della retorica occidentale. Se dalla precettistica, dai prontuari giuridici, dalle teorizzazioni dei mezzi e dei fini si passa all’eloquenza come ‘capacità naturale’ e come pratica, la questione delle origini si dilata a comprendere testimonianze antichissime: la presunta retorica dei consiglieri e maestri di bel parlare degli eroi omerici; l’obbligo, stabilito da Solone (VII-VI secolo a.C.) per tutti gli imputati, di perorare davanti ai giudici la propria causa, e l’incremento, che ne seguì, dell’attività dei logografi (gli incaricati di redigere i discorsi giudiziari per chi non sapesse comporli da sé).

Certamente l’affermarsi della retorica come arte e tecnica del discorso persuasivo, nel mondo greco, è collegata allo sviluppo della pólis e al costituirsi della democrazia: quando le contese politiche, la volontà di conquistare il favore delle assemblee per essere eletti alle cariche pubbliche, i dibattiti su questioni di comune interesse impongono che si sappia difendere le proprie tesi e demolire quelle degli avversari. All’esercizio autoritario del potere si contrappone dunque la retorica come espressione della libertà di parola.

La nascita della retorica si connette pure alla scoperta e al riconoscimento del valore conoscitivo ed educativo che ha la riflessione sulla lingua. Sia che si aderisse alla concezione, di ascendenza pitagorica, dell’arbitrarietà dei segni linguistici (i nomi sono assegnati ‘per convenzione’ alle cose), sia che si pensasse a un legame ‘per natura’ fra i nomi e le entità designate, si riteneva che per conoscere la realtà fosse essenziale conoscere i segni linguistici che la esprimevano. Di qui l’aspetto, precocemente palese, della retorica come scienza, oltre che come pratica, del linguaggio: l’aspetto che caratterizza il pensiero e l’attività di Protagora e di Gorgia.

1.2. La retorica dei sofisti

Dalla Sicilia ad Atene: metà del V secolo a.C., età di Pericle. A fare da tramite all’insegnamento dei leggendari Corace e Tisia e alle dottrine retoriche maturate nell’ambiente pitagorico sono i maestri della sofistica. Avverso a interpretare in senso moralistico, come facevano invece i pitagorici, ciò che sia “opportuno” in un discorso, Protagora di Abdera dà al kairós un’applicazione formalistica: opportuna può essere, secondo i casi, la concisione o l’abbondanza, e una stessa materia può diventare oggetto di un discorso stringato o di uno amplissimo. Formalistica, cioè stilistica, è pure la sua idea dell’orthoépeia come proprietà di espressione: la dote in cui egli gareggiava con Pericle. L’efficacia dimostrativa ottenuta con l’eccellenza del dire poteva così riuscire a “rendere più potente il discorso più debole”.

Protagora sviluppò originalmente e con grande successo la dottrina dell’antitesi quale idea-forza di un’argomentazione, mostrando come uno stesso argomento potesse essere trattato da punti di vista opposti.

Era la tecnica del contraddire, o antilogía: l’apporto più scandalosamente innovativo della retorica sofistica.

Numerose le testimonianze letterarie, da Euripide ad Aristofane a Platone, sugli “agoni retorici”, gare di virtuosismo eristico,3 condotte applicando la tecnica antilogica insegnata da Protagora. Nel relativismo spregiudicato che la ispirava e che tanto indignò i nemici dei sofisti (Platone, in prima fila, che riprovava nell’Eutidemo proprio la pratica dell’antilogia) sono da vedersi però intuizioni sorprendenti sia sull’organizzazione formale del discorso sia sulla facoltà probatoria, opposta a presunte verità assolute. Qualcosa che richiama, sia pure alla lontana, la moderna nozione del relativismo scientifico e, applicato alle vicende umane, vorrebbe semplicemente dire che, per i fatti opinabili (non piccola misura nell’insieme del reale e del possibile), ciò che conta è trovare la ragione più probante.

La retorica appare fusa inestricabilmente con la poetica nel primo autore (filosofo e retore) di cui possediamo una trattazione esplicita di temi retorici: Gorgia da Lentini, l’altro grande sofista, allievo di Empedocle e intriso di pitagorismo; venuto dalla Sicilia ad Atene nel 427 a.C., l’anno della nascita di Platone. Nell’Encomio di Elena, uno dei due discorsi rimastici di Gorgia, è esaltata la potenza psicagogica della persuasione (peith). Questa agisce attraverso l’“inganno” (apátē), illusione o fascinazione poetica, che il lógos (la parola, il discorso) è capace di provocare: “accostandosi all’opinione dell’anima, il suo potere incantatore la affascina, la persuade, la travia e modifica con magica illusione”.4

Per primo Gorgia distinse tipi di discorso: i lógoi dei filosofi naturalisti, l’oratoria giudiziaria e la dialettica filosofica. È pure di Gorgia una prima individuazione di ‘figure’: accorgimenti formali come l’isocolo (corrispondenza fra i membri di un periodo, dovuta al numero e alla disposizione delle parole) e l’omoteleuto (terminazione uguale di parole nelle varie parti dell’isocolo), ingredienti della prosa poetica, del “comporre alla maniera di Gorgia” (gorgiázein), e soprattutto l’antitesi, base della dialettica.

Cinque secoli più tardi Plutarco scriverà la definizione più complessa della retorica gorgiana, attribuendole anticipazioni di sviluppi futuri: “La retorica è l’arte del parlare, che ha la sua forza nell’essere artefice di persuasione nei discorsi politici intorno ad ogni soggetto; che è creatrice di convincimento e non di insegnamento; i suoi argomenti propri sono soprattutto intorno al giusto e all’ingiusto, al bene e al male, al bello e al brutto”.5

1.3. Contro i retori-sofisti: Platone

Enorme fu il successo dei retori-sofisti; Socrate stesso fu ritenuto uno di questi, tanto rappresentativo da poter essere messo in caricatura, come maestro di sofistica, nelle Nuvole di Aristofane.

Evidentemente Socrate era esperto di una sua specialissima téchnē rhētorik, se al suo discepolo ed esegeta Platone si presentò subito il problema del rapporto fra retorica e filosofia. Il risultato fu una condanna severissima della retorica praticata dai sofisti e l’affermazione della sua controparte filosofica: la dialettica. Alla prima, intesa – e respinta – come esercizio meramente formale della persuasione, indifferente ai temi a cui si applicava, volta a “distrarre” la moltitudine seducendola con eleganze incantatrici e vuote sonorità, Platone opponeva la dialettica come arte del discutere modellata sui propri contenuti specifici e diretta ad analizzare gli argomenti dei discorsi, a scomporli in elementi primi per riportarli a poche categorie essenziali.

Con Platone l’epist (la scienza) prevale sulla dóxa (l’opinione), la certezza della verità sulla mutevolezza dell’opinabile. È un rovesciamento di posizione rispetto ai sofisti. Nell’Eutidemo, uno dei dialoghi platonici del periodo giovanile o socratico, alla retorica, che appartiene al dominio della dóxa, è negato non solo il carattere di scienza, com’era ovvio anche per i sofisti, ma quello pure di téchnē, di “arte” o tecnica, che i sofisti le attribuivano. Come nell’Eutidemo così nel Gorgia, il dialogo giovanile in cui Platone sviluppa a fondo il problema dell’essenza della retorica, questa è definita come abilità empirica: “poiché non ha nessuna razionale comprensione della natura delle cose cui si riferisce [...]: ecco perché non sa di ciascuna cosa indicare la causa” (Gorgia, 465a).

Fra i dialoghi platonici, il Gorgia è il più violentemente antiretorico e antisofistico: come la sofistica è contraffazione dell’attività legislativa, così la retorica è contraffazione dell’arte di rendere giustizia; queste pseudotecniche appartengono entrambe a un’unica specie di abilità, l’adulazione (kolakéia) capace di persuadere.

La persuasione retorica è indifferente alla materia del contendere: “non c’è nessun bisogno che la retorica conosca i contenuti; le basta avere scoperto una certa qual tecnica di persuasione, sì da potere apparire ai non competenti di saperne di più dei competenti” (Gorgia, 459b-c). Ma tale affermazione non corrispondeva ai principi enunciati dal sofista Gorgia, che nella sua tipologia dei discorsi postulava per il retore una sicura conoscenza di argomenti sia “meteorologici” (cioè di scienze naturali), sia giudiziari, sia filosofici.

Nel Fedro, il dialogo che appartiene al periodo della maturità e dell’influenza pitagorica, Platone torna a occuparsi della retorica. Non per condannarla in blocco, ma per distinguere la vera dalla falsa retorica, in base all’antitesi tra l’essere e il sembrare. Falsa è la retorica che ostenta un’apparenza di verità, che segue e blandisce l’opinione di chi deve giudicare e non cerca di “apprendere ciò che è effettivamente giusto”. Vera è quella “specie di arte per dirigere le anime attraverso le parole, e non solo nei tribunali e nelle altre riunioni pubbliche, ma anche in conversazioni private [...] tanto nelle questioni minime come in quelle grandi” (Fedro, 261), che è “capace di condurre l’ascoltatore alla verità e di rendere la verità operante nell’ascoltatore” (Garin 1970:100). La componente psicagogica della retorica “vera” dovrebbe far sì che alla conoscenza delle “idee” corrisponda la conoscenza degli animi:

scoperte le rigorose corrispondenze, l’opinabile si dissiperebbe, e con esso le scelte, le probabilità, il contingente. Il proprio della retorica, ossia “l’ombra del vero”, non può non essere dissipato dalla luce del vero; e lo sarà, nella tesi di Platone, non appena una psicologia scientifica avrà cacciato il verosimile dall’ultimo rifugio. La “vera” retorica non è che la conoscenza del mondo ideale più la scienza delle anime.

(Garin 1970:101)

Un discorso persuasivo così fondato ha un metodo preciso, quello della dialettica. Senza la dialettica (risultato di una sintesi, che trae la definizione dell’argomento dalla rassegna delle varie nozioni riguardanti un’idea, e di una analisi, che scompone l’idea nei suoi elementi costitutivi) non può esistere alcun tipo di discorso che non sia futile, o riprovevole.6

L’atteggiamento antisofistico di Platone, irrigidito, come sempre accade, nelle sue punte più appariscenti, ha agito in profondità in ogni denigrazione successiva della retorica, nella sfiducia verso le teorie e la prassi dell’arte del dire, che ha informato una parte cospicua dei pregiudizi sedimentati nel corso dei secoli successivi: le ‘idee ricevute’ su cui si fondano le accezioni negative del termine retorica. Eccone un provvisorio catalogo: la retorica non è arte vera, ma insieme di artifici (di fallacie, di forme vuote), un imbroglio, dunque, l’opposto della spontaneità e della sincerità; la persuasione, manipolazione del consenso da parte di chi è più astuto e sa raggirare gli ingenui, si esercita su materie di dubbia consistenza, sulle quali l’accordo non è generale, e gioca spesso su effetti illusionistici; la folla ne è il naturale destinatario, mentre per la ricerca della verità e della conoscenza occorre uno scambio dialettico fra interlocutori; perciò la retorica è attività sterile dal punto di vista conoscitivo.

1.4. L’arte della prosa

Attica, IV secolo a.C., secolo della filosofia e dell’eloquenza. La forma letteraria dominante è la prosa. Platone, filosofo artista, ne dà prove insuperate; i grandi oratori politici (Isocrate, Demostene, Eschine) danno incremento all’eloquenza, a cui la retorica, soprattutto per opera di Gorgia, aveva fissato schemi per le tecniche argomentative e regole per l’espressione, tali da costituire una ‘prosa d’arte’ in grado di gareggiare con la poesia nell’armoniosa disposizione delle parti, nei ritmi e nelle sonorità.

Fra gli oratori, chi tenne scuola di eloquenza – una scuola famosa, frequentatissima – fu Isocrate, che era stato allievo di Gorgia e aveva seguito anche gli insegnamenti di Socrate. Isocrate conciliava l’addestramento al parlare forbito e persuasivo con l’educazione al vivere civile: la ricerca, teorica e pratica, della squisitezza formale e dell’efficacia dimostrativa con le istanze morali e filosofiche su cui fondare la direzione delle coscienze e della condotta sociale. Platone, di cui Isocrate era rivale nella formazione dei giovani, gli fu ostile; e gli fu critico severo anche Aristotele, che gli rimproverò di occuparsi esclusivamente di forme vuote.

Benché interessata a problemi di etica e di ‘cultura generale’, come si direbbe oggi (il buon oratore, secondo Isocrate, doveva avere eccellente reputazione e vasta cultura), la retorica isocratea non produceva filosofia; ma in compenso veniva rafforzando il bagaglio strumentale necessario alla teoria e alla pratica del discorso. Secondo un’opinione abbastanza diffusa, sarebbe stata proprio la concorrenza di un tale studio di accorgimenti stilistici a far sì che il maggior teorico della disciplina, Aristotele, dedicasse una parte della sua riflessione (il terzo libro della Retorica) alla léxis, cioè al ‘modo di esprimersi’.

1.5. La retorica aristotelica

La grande sistemazione aristotelica della retorica comprende: “una teoria dell’argomentazione, che ne costituisce l’asse principale e che fornisce, al tempo stesso, il nodo della sua articolazione con la logica dimostrativa e con la filosofia [...], una teoria dell’elocuzione e una teoria della composizione del discorso”.7

Scrive Aristotele dando inizio al suo trattato:

La retorica è analoga alla dialettica: entrambe riguardano oggetti che, in certo modo, è proprio di tutti gli uomini conoscere e non di una scienza specifica.

(Ret., I, 1, 1354a)

La sua funzione “non è il persuadere, ma il vedere i mezzi di persuasione che vi sono intorno a ciascun argomento”. Compito del teorico è occuparsi degli argomenti probanti, o probatori (písteis): non di quelli extratecnici (átechnoi), che si utilizzano come dati già pronti in partenza e sono le testimonianze, le confessioni estorte con la tortura, i documenti scritti ecc. (cfr. più avanti, 2.6), ma di quelli tecnici (éntechnoi), che bisogna trovare applicando un metodo. Una pístis è una dimostrazione, di cui esistono due tipi: l’esempio e l’entimema. Dialettica e retorica vengono messe in parallelo: ciò che nella prima è l’induzione, nella seconda è l’esempio:

il dimostrare partendo da molti casi simili che una cosa sta in un dato modo

(Ret., I, 2, 1356b)

ciò che nella prima è il sillogismo, nella seconda è l’entimema:

quando, date certe premesse, risulta per mezzo di esse qualcosa di altro e di ulteriore per il fatto che esse sono tali o universalmente o per lo più

(ivi)

Con la differenza che il sillogismo logico dà una verità inconfutabile, mentre l’entimema arriva a conclusioni probabili e confutabili.

Gli esempi possono essere o storici, o inventati (quelli che si chiamano ancor oggi, con denominazione latina, exempla ficta). Di questi ultimi Aristotele distingue due specie: le parabole:

Sono parabole i discorsi socratici. Ad esempio, se uno dice che non bisogna estrarre a sorte i magistrati; sarebbe infatti come se si estraessero a sorte gli atleti, cioè si nominassero atleti non quelli che sanno concorrere alle gare, ma quelli che la sorte designa

(Ret., II, 20, 1393b)

e le favole (come quelle esopiche), che vanno però composte come le parabole, in modo da rendere evidenti le analogie.

Agli esempi si deve ricorrere solo se si è a corto di entimemi. Ecco un entimema aristotelico:

se neppure gli dei sanno tutte le cose, ancor più difficilmente le sapranno gli uomini

(Ret., II, 23, 1397b)

basato sul luogo comune “del più e del meno”:

se non si può attribuire un predicato alla cosa a cui più apparterrebbe, è evidente che non lo si può attribuire alla cosa a cui meno apparterrebbe

(ivi)

dove una delle premesse è sottintesa, e cioè che gli dei sappiano più cose degli uomini.

L’espressione “concisa e sintetica” è il tratto stilistico che Aristotele assegna all’entimema; ed è uno dei tratti che caratterizzano le moderne tecniche della persuasione, quelle pubblicitarie in primo luogo, che abbondano di argomentazioni basate su premesse implicite. Omettere una premessa significa dare per scontato ciò che in essa si asserisce, e quindi non sottoporlo a dubbio o a discussione, col risultato di influire in maniera diretta e incisiva sulle decisioni dei destinatari. Molti messaggi pubblicitari potrebbero essere fatti corrispondere a ciò che Aristotele intendeva per “entimemi apparenti”, analoghi alle argomentazioni dialettiche che sembrano sillogismi, ma non lo sono. Ecco un caso appartenente a uno dei nove tipi elencati dal filosofo:

Dionigi è un ladro, perché è malvagio

che mostra l’assenza di sillogismo, perché “non ogni uomo malvagio è ladro, bensì ogni ladro è uomo malvagio” (Ret., II, 24, 1401b).

Un moderno smascheramento del falso sillogismo su cui è stato costruito un messaggio pubblicitario si trova in un articolo di Eco (1976:3). Una parte del messaggio in questione recitava: “Vuoi sapere come si distingue la Bic Cristal con ‘sferadiamante’ dalle comuni penne con sfera in lega di ferro? La penna con sfera di ferro si attacca alla calamita. Bic Cristal non si attacca perché il diamante non viene attratto dalla calamita”. Premessa del ragionamento: “solo Bic ha la punta di diamante” (e perciò scrive meglio). Eco argomenta:

Per provare le premesse si suggerisce una prova induttiva, e cioè la verifica sulla calamita. Bene, la Bic non è attirata dalla calamita (e sono disposto a crederlo). A questo punto però viene presentata una deduzione implicita di questo tipo: “I diamanti non sono calamitabili – Bic non è calamitabile – dunque Bic è diamante” che è manifestamente falso, primo perché non si deduce nessuna affermativa da due negative, e poi perché il fatto che i diamanti non siano calamitabili non esclude che ci siano altre cose non calamitabili, come i conigli, le pere, i laureati in giurisprudenza, Gina Lollobrigida [...].

Le premesse dei sillogismi, dialettici e retorici, si traggono dai tópoi, “luoghi” (cfr. pure quanto si dirà più avanti, in 2.6), che sono di due specie: comuni e propri. Un esempio dei primi è il già ricordato luogo “del più e del meno”:

infatti da esso sarà possibile sillogizzare o formulare un entimema indifferentemente intorno alla giustizia non più che intorno alla fisica o intorno a qualsiasi argomento: eppure questi argomenti differiscono per specie.

(Ret., I, 2, 1358a)

Le quali specie hanno i loro luoghi propri; conoscerli e saperli usare sarà prerogativa degli esperti nelle singole discipline.

Preliminare alla trattazione delle premesse da cui trarre gli entimemi è la descrizione dei generi del discorso persuasivo. Dei tre elementi di cui questo consta – chi parla, ciò di cui egli parla e colui al quale si rivolge – è il terzo quello che determina la classificazione (si noti che tale criterio manifesta di per sé il carattere pragmatico della tipologia che ne deriva). Poiché tre sono i tipi di ascoltatore (individuati secondo la prassi ateniese dell’epoca), altrettanti sono i tipi del discorso persuasivo, cioè i generi della retorica. Le prime due classi di ascoltatori hanno una prerogativa in comune: il loro giudizio è tale da mutare una situazione. Essi devono pronunciarsi o su azioni future o su azioni passate. L’ascoltatore che decide riguardo al futuro è il membro di un’assemblea politica; quello che decide riguardo al passato è il giudice nei processi. La terza classe è costituita dagli spettatori. Essi non influiscono sulla situazione, i cui mutamenti si danno come già avvenuti. Ciò su cui lo spettatore dà un giudizio è unicamente il talento dell’oratore. Al primo tipo di ascoltatore corrisponde il genere deliberativo; al secondo il genere giudiziario; al terzo il genere epidittico (o dimostrativo: da epidéiknymi, “mostro, faccio vedere, presento”). Nel discorso deliberativo l’oratore consiglia ciò che è utile e sconsiglia ciò che è nocivo. Il discorso giudiziale, di accusa e di difesa, verte sul giusto e sull’ingiusto. Il discorso epidittico, di lode e di biasimo, è centrato essenzialmente su ciò che è bello o, all’opposto, turpe.

La tripartizione dei generi retorici era già stata proposta da Anassimene di Lampsaco, nello stesso secolo, il IV a.C., ma fu Aristotele a organizzarla in sistema e a corredarla di una casistica che fu presa a modello dalla precettistica posteriore. Così l’esame del genere deliberativo è una sintetica trattazione degli argomenti sui quali un’assemblea deve decidere (redditi, guerra e pace, difesa del territorio, importazione ed esportazione, legislazione), degli scopi (il bene privato e pubblico) e dei molteplici mezzi per conseguirli, delle cause che producono i beni, dell’utile in ogni suo aspetto e gradazione e infine delle varie forme di governo. Il genere epidittico è illustrato da un sommario di etica, in cui si analizza che cosa sia e come si manifesti la virtù, oggetto di lode in quanto buona, e perciò anche bella. L’esame del genere giudiziario occupa una minuziosa rassegna psicologica sia dei motivi per cui si agisce e di ciò che soprattutto spinge l’uomo ad agire, cioè il provar piacere, sia dei tipi di uomini che sono inclini a delinquere e di quelli che sono propensi a essere vittime. Vi è poi un compendio di giurisprudenza, che distingue tra diritto naturale e diritto positivo, e di procedura oratoria riguardante l’uno e l’altro.

L’insegnamento retorico, nei secoli che seguirono, si concentrò ben presto sul genere giudiziario: chi sapeva dominare una situazione processuale sarebbe stato certamente in grado di destreggiarsi in qualsiasi altra occasione. Il deliberativo, come del resto il giudiziario, quando divenne esercizio scolastico, destituito, col tempo, anche del carattere propedeutico a una politica militante e ridotto a scopi di mera esibizione oratoria, si trovò a partecipare del carattere fittizio – di finzione letteraria – proprio del genere epidittico. La ‘retorica insegnata’ inglobava in quest’ultimo tutti i possibili discorsi, segnando vistosamente il progresso di quella “restrizione generalizzata” in cui consisterebbe, secondo Genette (1976), la storia della retorica da Corace a oggi. La trasposizione della nozione di ‘bello’ (coincidente con quella di ‘buono’) dall’oggetto del discorso al discorso stesso finì per assimilare il genere epidittico alla letteratura. Il risultato ultimo fu la cosiddetta “letterarizzazione della retorica”: di una retorica ormai disgregata, col genere deliberativo annesso alla riflessione filosofica e il giudiziario inglobato nella dialettica.

Il secondo libro della Retorica di Aristotele sistema concetti destinati ad alimentare la didattica e la pratica della disciplina nei secoli posteriori: l’éthos, cioè le doti di carattere, il modo di comportarsi nella professione e nella vita, quindi la moralità, dell’oratore;8 e il páthos, cioè l’insieme delle passioni da suscitare, la vita emotiva, che diviene oggetto di analisi e motivo dell’argomentare. Tale sviluppo psicologico della retorica (“poiché la retorica esiste in vista di un giudizio [...] è necessario non soltanto badare che il discorso sia dimostrativo e convincente, ma anche mostrare se stessi in un dato modo e porre il giudice in una data disposizione”, sia nelle deliberazioni sia nei processi) parte dalle qualità che rendono credibile, e perciò persuasivo, l’oratore (la saggezza, la virtù e la benevolenza) e fornisce all’autore l’occasione per un trattatello delle passioni (l’ira e il suo opposto, cioè la mitezza; l’amore e l’odio; il timore, la vergogna e l’impudenza, il favore e la riconoscenza, la pietà, l’indignazione, l’invidia, l’emulazione), con uno schizzo dei “caratteri” conseguenti all’età e ai beni di fortuna. L’aspetto psicagogico che aveva caratterizzato ben determinate manifestazioni dell’arte del dire fin dai primordi ha così un posto nel sistema aristotelico.

Ne ha uno ancora più importante per gli sviluppi futuri l’indagine su forme e artifici dell’espressione (sulla léxis), che occupa il terzo libro della Retorica, insieme con l’esame delle altre fasi di elaborazione del discorso oratorio: la “disposizione” delle parti (oikonomía), strettamente connessa alla ricerca degli argomenti (héuresis) e illustrata in relazione ai tre generi retorici; e infine la “declamazione”, hypokritik [téchnē]: il modo di esporre e di gestire (i valori fonici, mimici e gestuali, dunque) che il filosofo aveva già trattato nella Poetica, nella sezione riguardante la recitazione teatrale (hypókrisis). Nella trattatistica posteriore le parti del discorso oratorio divennero cinque, con l’aggiunta della “memoria”, importante per la buona riuscita del parlare in pubblico.

La teoria della léxis distingue l’espressione poetica (della poesia come della prosa), oggetto di studio nei libri della Poetica, dall’espressione discorsivo-oratoria. Di quest’ultima il teorico si occupa quasi venendo a patti con se stesso, cioè col logico e col dialettico delle “argomentazioni tecniche”. Se ne occupa

non perché ciò sia giusto, ma perché è necessario [...] Giusto sarebbe dibattere in base ai soli fatti, sì che le altre cose che sono estranee alla dimostrazione vengano considerate superflue.

(Ret., III, 1, 1404a)

Ma poiché queste “cose estranee” fanno presa sugli ascoltatori – sugli arbitri della situazione – che non sono degli esperti, è opportuno curarle, per le stesse ragioni per cui anche nella tecnica della dimostrazione, semplificando nell’entimema il procedimento sillogistico, si tiene conto dell’opportunità di non annoiare il pubblico e di non richiedergli operazioni mentali troppo complesse e astruse per i più.

Ad Aristotele si rifaranno le successive precettistiche riguardo alle ‘virtù dell’elocuzione’, di cui il filosofo cataloga le seguenti: la chiarezza, l’essere conveniente, cioè appropriata e adeguata alla situazione nella stringatezza come nell’abbondanza, la naturalezza e, condizione preliminare a tutte, la correttezza. A proposito della quale è delineato un prontuario grammaticale di ciò che occorre per esprimersi in buona lingua, e in modo che “ciò che si scrive” risulti “facile a leggersi e facile a pronunziarsi” (Ret., III, 5, 1407b). Debitrice di Aristotele sarà pure tutta la trattatistica riguardante la metafora, la similitudine e parecchi altri elementi dell’ornatus (la coordinazione, l’antitesi, la parisosi o isocolo, l’omoteleuto, le arguzie...). Alla metafora Aristotele assegna un posto centrale: addirittura la facoltà di conferire chiarezza all’elocuzione, oltre che piacevolezza ed eleganza, poiché la sua funzione principale sta nel cogliere i nessi di somiglianza (le analogie) tra cose distanti. L’abilità metaforizzante è comune al retore e al poeta: è qui che poetica e retorica si incontrano, come anche nella considerazione del metro, nella poesia, e del ritmo, nella prosa.

La capacità di stabilire collegamenti imprevisti (molla del parlare metaforico), di abbreviare l’espressione elidendone alcuni passaggi (meccanismo dell’entimema), di intessere paradossi e indovinelli, di giocare sui doppi sensi sono ingredienti dell’arguzia. Per esempio, era costruita sul doppio senso della parola greca arch (“dominio” e “principio”) la “frase spiritosa” di Isocrate, quando diceva agli Ateniesi di badare che il dominio [arch] del mare non diventasse principio [arch] dei mali (cfr. Ret., III, 11, 1412b). Nella teoria aristotelica del comico si avverte una risonanza del pensiero di Gorgia:

la maggior parte delle frasi spiritose derivano dalla metafora e dal sorprendere ingannando.

(Ret., III, 11, 1412a)

Per “sorprendere ingannando”, e produrre comicità, la léxis dispone pure di accorgimenti formali: oltre all’arguta formazione di parole composte, l’omonimia e l’omofonia, che generano effetti paronomastici (cfr. qui 2.17:[8]):

la sostituzione di una lettera in una parola può toglierle il suo significato originario e conferirle quello della parola che ne risulta

(Ret., III, 11, 1412a)

Questo è uno dei dispositivi caratteristici del motto di spirito, e infatti sarà attentamente analizzato da Freud.

Aristotele accenna appena ai connotati del comico; ma, anche in questo caso, egli ha prospettato uno degli sviluppi che diventeranno d’obbligo nei trattati posteriori dell’arte oratoria. Ed è interessante che il tema del “comico del discorso” sia stato ripreso, ai giorni nostri, anche da Olbrechts-Tyteca (1977), collaboratrice di Perelman nella costruzione della neoretorica di ascendenza aristotelica.

Il continuatore diretto di Aristotele nell’elaborare singoli aspetti della dottrina retorica fu Teofrasto, tra gli ultimi decenni del IV e i primi del III secolo a.C. Teofrasto, la cui opera è andata perduta (ne abbiamo notizia da citazioni frammentarie e specialmente dai commenti e dalle parafrasi di Cicerone), introdusse la divisione fra i tre stili (sublime, medio, umile), che ebbe enorme diffusione nelle età successive, ed era uno sviluppo del precetto aristotelico di attenersi al ‘conveniente’ (prépon), cioè di trovare per ogni materia e situazione (circostanze, destinatari) il modo di esprimersi più appropriato.

Nella scuola platonica si ha uno spostamento di prospettiva rispetto alla retorica. La Nuova Accademia, sostituendo al principio del vero quello del pithanón (“persuasivo”), si sposta verso l’ambito della dóxa. Un ragionamento persuasivo è tanto più credibile quante più sono le contraddizioni che esso riesce a superare. In questo clima si formeranno le concezioni epistemologiche di Cicerone.9

1.6. Dagli stoici all’esaurimento della retorica in Grecia

Sul finire del IV secolo a.C. Zenone, il fondatore della scuola stoica, si interroga a sua volta sul rapporto fra dialettica e retorica. La sua risposta, affidata a un gesto, è conforme alla stringatezza estrema a cui gli stoici miravano (chi vuole imparare a star zitto vada a scuola dagli stoici, commenterà più tardi Cicerone): chiudendo il pugno Zenone indicava il carattere serrato e conciso della dialettica; con la palma aperta e le dita distese, i modi spiegati e diffusi della retorica. Ancora (come in Platone e in Aristotele) contrapposizione di brachilogia e di macrologia, con la sostanziale differenza, rispetto a Platone, che la retorica veniva considerata non già un’empiria, ma una parte della logica (l’altra parte era la dialettica), e si vedeva attribuita la funzione di regolare l’esposizione del discorso scientifico mediante un tecnicismo rigoroso.

Nel solco della tradizione stoica, ma con elementi ricavati dalle altre dottrine a questa contemporanee, e in particolare dall’eclettismo dell’Accademia, si impose, alla metà del II secolo a.C., il sistema retorico di Ermagora di Temno; ed ebbe grande risonanza, specialmente sotto il profilo giuridico.

Ermagora divise il campo di competenza della retorica fra théseis (“tesi”), questioni generali, e hypothéseis (“ipotesi”), controversie su casi particolari. I latini, che furono pronti ad accogliere l’innovazione terminologica ermagorea, tradussero il primo termine con genus infinitum (o quaestio infinita / communis / generalis; o anche propositum), “questione indefinita / generale”, riferita a classi di individui, a situazioni tipiche; e il secondo termine con genus definitum (o quaestio finita / specialis; o anche causa), “questione delimitata”, cioè relativa a persone, circostanze, luoghi e momenti. Un esempio di quaestio communis nei tre generi oratori aristotelici: giudiziale: “Se è giusto che una madre uxoricida sia uccisa dal figlio”; deliberativo: “Se estrarre a sorte i magistrati”; epidittico: “Perché le belle arti sono di pubblica utilità”.

La bipartizione di “tesi” e “ipotesi” corrispondeva alla distinzione aristotelica fra luoghi comuni e luoghi propri o specifici; ed era destinata a riaccendere il dibattito tra filosofi e retori, dal momento che questi ultimi venivano a impegnarsi in argomenti di ambito generale, considerati dai filosofi come appannaggio esclusivo della loro speculazione.

Un’altra innovazione di Ermagora fu una classificazione dei discorsi, che interessò particolarmente il campo giudiziario, in quanto era basata sulla nozione di stásis (in latino, status causae: determinazione della questione su cui verte una causa). Una prima divisione era tracciata fra genere razionale (dipendente dal senso comune) e genere legale (dipendente dalla legislazione in materia), entrambi così suddivisi:

a)il genere razionale nei tipi:

1.congetturale: chi è l’autore dell’azione incriminata?

2.definitivo (cioè relativo alla definizione del fatto): l’azione data è o non è delittuosa?

3.qualitativo: con quali intenzioni si è agito?

4.traslativo: questo giudice è o non è competente a trattare questo caso?

b)il genere legale nei tipi riguardanti:

1.la lettera e lo spirito della legge, quando questi sembrano in contrasto reciproco;

2.le leggi contrarie, quando una legge ne contraddica un’altra;

3.l’ambiguità, quando siano possibili più interpretazioni di una norma;

4.il sillogismo, quando si vogliano inferire, da leggi esistenti, norme per casi non esplicitamente previsti.

La classificazione di Ermagora poté convivere, nella retorica greca e latina, con la tripartizione aristotelica dei generi, da cui differiva radicalmente nei criteri tipologici; poté affiancarsi a questa e inglobarla, ma non soppiantarla, rimanendo legata, col tecnicismo rigoroso della sua casistica, agli ambiti degli studi giuridici e della pratica giudiziaria.

Dagli inizi del I secolo a.C. la retorica è attestata anche a Roma, come precettistica di eloquenza e di stile.

Nel mondo greco, intanto, le due maniere alternative del parlare, l’ampiezza e la brevità, a cui si inframmise precocemente l’ampiezza moderata, erano state incanalate in indirizzi ben definiti, che presero il nome dalle rispettive scuole. Lo stile asiano, esuberante nella magniloquenza, si era affermato fin dal III secolo a.C., prodotto tipico e vivace dell’ellenizzazione dell’Oriente. Lo stile rodio (o rodiese), più temperato, caratterizzò la celebre scuola di eloquenza di cui era stato iniziatore Eschine, l’avversario di Demostene. Lo stile attico, della concisione lineare e schiva, nacque dalla reazione all’asianesimo, come controproposta puristica e conservatrice, verso la fine del periodo ellenistico, nel I secolo a.C. Nella precettistica e nella pratica oratoria si dilata sempre più il versante stilistico della retorica, e diventano anche più visibili i suoi rapporti con la grammatica.

Il purismo linguistico dell’atticismo coniuga il principio dell’imitazione degli autori canonici (indicati in un elenco o canone), depositari della “buona lingua”, col principio della “regolarità” dello scrivere, e si conforma alla teoria grammaticale dell’analogia (la lingua si sviluppa e si organizza secondo regole rigorosamente definite), opposta alla dottrina dell’anomalia (il mutamento incessante del sistema dipende dall’imprevedibilità degli usi) a cui si rifacevano i seguaci dell’asianesimo, assertori, sul piano stilistico e letterario, della “originalità” (cioè del comporre secondo l’impulso della passione), in polemica col criterio atticista dell’imitazione. Due maestri di retorica greca, Cecilio di Calatte (Sicilia) e Dionisio di Alicarnasso (Asia Minore), attivi a Roma al tempo di Augusto, si impegnavano in puntigliose stesure di norme grammaticali e stilistiche: tali furono gli studi di Dionisio (che fu famoso anche come storiografo) sullo stile di Demostene e di Tucidide. Lo stesso Dionisio ci ha lasciato un’opera, di straordinario interesse, sull’ordine delle parole nel discorso.

All’analisi e alla precettistica dell’elocuzione faceva riscontro, sempre sul fronte atticista, un irrigidimento tecnicistico della struttura argomentativa: il precettore di Augusto, Apollodoro di Pergamo, escludeva ogni elemento emotivo dalle dimostrazioni, che voleva condotte sui nudi fatti. Dal dibattito che sorse intorno a tali questioni scaturì l’ultima, in ordine di tempo, fra le opere più importanti della retorica greca: l’anonimo Perì hýpsous (Sul sublime, collocato, dopo lunga controversia, nella prima metà del I secolo d.C.), “l’unico trattato di retorica compatibile con l’insegnamento di Platone” (Barilli 1979:29).

Ha scritto Harold Bloom:

a rigor di termini, il Sublime o hypsos del titolo dovrebbe essere tradotto con “grandezza” o “punto più alto” o persino “alta scrittura”, oppure, come direi io, “poesia forte”.

(Bloom 1987:145)

L’“eroe” di quest’opera, cioè l’incarnazione esemplare dell’idea che la ispira, è infatti Omero, “l’Omero dell’Iliade, perché qui la potenza del poeta non conosce cedimenti” (ivi, 146). I caratteri della grandezza formale rientrano nell’idea del “sublime”, ma non ne costituiscono l’essenza: che è data invece dalla grandezza interiore, riflessa nei tratti dei personaggi, nel linguaggio, nell’azione; un modo d’essere, o di comportarsi, prima che uno stile di scrittura:

il sublime è l’eco di una grande anima. Donde talvolta un pensiero spoglio, privo di voce, è ammirato per se stesso, proprio per la sua grandezza: tale è il grande silenzio di Aiace nella Nekyia,10 più sublime di qualunque discorso.

(Sul sublime, 9, 2)

È la retorica del silenzio, che alimenterà i grandi momenti della creazione artistica: la poesia dell’ineffabile e la forza evocativa di un tacere che esprime assai più cose del parlare (“quel giorno più non vi leggemmo avante”).11

L’attitudine a concepire pensieri grandi è la prima e la più importante delle “fonti” del sublime. È una qualità congenita, come la seconda, che è “il pathos trascinante e ispirato”. Le rimanenti tre si ottengono invece con l’arte. E sono: la particolare composizione delle figure (di pensiero e di parola), la potenza espressiva nella scelta delle parole e dei traslati e infine, “quinta causa di grandezza e compendio di tutte quelle che la precedono”, il decoro e l’elevatezza della composizione (della sýnthesis, cioè dei procedimenti ritmico-eufonici e della sintassi poetica, come armonia e concordanza di ogni elemento dello stile).

Ciò che accomuna la poesia all’oratoria è il páthos, ma mentre la poesia ha come scopo lo straniamento, la prosa mira alla chiarezza e all’evidenza. Entrambe sono alimentate dalla fantasia, di cui è detto, suggestivamente:

si definisce comunemente fantasia tutto ciò che dà luogo a un’idea da cui nasca un discorso, ma ormai il nome si è imposto per quei discorsi nei quali le cose che dici nell’entusiasmo della passione sembri proprio vederle e le metti sotto gli occhi degli ascoltatori.

(Sul sublime, 15, 1)

L’analisi delle figure retoriche e, in genere, degli accorgimenti dello stile, fatta con la consapevolezza vigile di che cosa divida l’artificio dall’arte, sembra smentire in anticipo i furori antiretorici di epoche posteriori (si pensi al Romanticismo) in nome del prorompere della passione e dell’urgenza della fantasia:

Propriamente, l’accortezza delle figure è sospetta e genera il dubbio di un agguato, di un’insidia, di un raggiro [...]. Eccellente pertanto riesce la figura che sa nascondere d’essere quella che è. Ora, proprio il sublime e il pathos costituiscono un rimedio e un aiuto meraviglioso contro i pregiudizi sul linguaggio figurato: e l’abilità tecnica, circondata dalla bellezza e dalla grandezza, pervade tutto il resto e si sottrae ad ogni sospetto.

(Sul sublime, 17, 1-2)

1.7. Oratoria e retorica a Roma. I primi trattati in latino

La retorica romana, nelle sue principali produzioni (dalla Rhetorica ad Herennium a Quintiliano), è una rielaborazione della retorica greca, in particolare delle teorie aristoteliche e postaristoteliche. Originali sono la disposizione della materia, le interpretazioni giuridiche e le proposte procedurali, il ruolo educativo (di formazione culturale e morale, oltreché tecnico-specialistica) assegnato allo studio e alla pratica dell’eloquenza e la sistematicità delle relative formulazioni didattiche.

Un profilo dell’oratoria latina pre-ciceroniana si trova nel Brutus di Cicerone. Gli oratori ivi elencati solevano pubblicare i loro discorsi, con fini di propaganda politica e morale. Così aveva fatto, agli inizi del II secolo a.C., Catone il Censore, le cui Orationes, che non ci sono pervenute, dovevano dissimulare ogni traccia di studio per apparire quanto più possibile ‘naturali’ e aliene da qualsiasi compromissione con la tecnica retorica – e quindi con la cultura – greca. L’oratore, secondo un famoso precetto di Catone, doveva essere uomo probo e retto, abile nel parlare (vir bonus dicendi peritus); una simile abilità derivava dal possesso della materia (rem tene, verba sequentur).

Nella lunga rassegna che Cicerone fa dei suoi predecessori (quasi tutti i principali uomini politici della Roma repubblicana erano stati valenti oratori) spiccano Scipione Emiliano, Gaio Lelio, Servio Sulpicio Galba, Cecilio Metello Macedonico, Tiberio e Caio Gracco; poi Marco Antonio e Licinio Crasso, che saranno i principali interlocutori del ciceroniano De Oratore, e Caio Aurelio Cotta e il grande Ortensio. Un’oratoria fiorente, che conosciamo solo per via indiretta.

Gli oratori romani avevano conosciuto la téchnē rhētorik dei greci frequentandone le scuole più celebrate, specialmente l’asiana e la rodia; ma bisogna risalire al secondo decennio del I secolo (fra l’86 e l’82 a.C.), e non prima, per trovare un’opera retorica scritta in latino: la Rhetorica ad Herennium, attribuita ormai con forti ragioni a un retore di nome Cornificio, e non più a Cicerone, come aveva fatto erroneamente una tradizione tardiva. È un ampio manuale, in quattro libri, che alla tipologia aristotelica dei discorsi e alla divisione di questi in parti annette la classificazione di Ermagora e, nella descrizione delle figure, risente delle dottrine asiano-ellenistiche. La trattazione tecnica è ancorata a una preliminare definizione dei “doveri dell’oratore”: dell’impegno morale e civile della sua attività.

La Rhetorica ad Herennium ha assolto un compito importante: l’istituzione della nomenclatura retorica latina mediante traduzioni o calchi dal greco; minime saranno le varianti apportate dalla tradizione successiva. Notevole è pure l’aggiunta della memoria alle quattro parti organizzative dei discorsi (inventio o ritrovamento degli argomenti; dispositio o disposizione degli stessi; elocutio o espressione; pronuntiatio o declamazione e modo di porgere). La memoria è la capacità di ricordare, ottenuta e rinforzata con particolari accorgimenti tecnici, di cui l’autore del trattato dà una minuziosa casistica, antesignana delle mnemoniche medievali e rinascimentali.

Un lavoro giovanile di Cicerone, contemporaneo alla Rhetorica ad Herennium, a cui è molto simile nella trattazione dei temi in comune, è il De inventione, in due libri (cfr. più avanti 2.2). Insieme, queste opere ebbero la ventura di essere gli unici e incontrastati veicoli di trasmissione della retorica antica al Medioevo.12

1.8. Cicerone: il trionfo dell’arte oratoria

Dalla precettistica alla disputa filosofica: è il salto di qualità che la retorica romana compie con le opere di Cicerone nel periodo della maturità: il dialogo De Oratore in tre libri, il capolavoro della retorica ciceroniana; il Brutus, elegante profilo dell’oratoria latina; l’Orator, importante per la teoria della prosa e del ritmo; oltre ai trattati minori: De optimo genere oratorum; Partitiones oratoriae, chiara sintesi manualistica a domande e risposte; Topici, riformulazione dei Topici di Aristotele a profitto della prassi giuridica.

Nella secolare polemica, rinverdita dagli stoici, sul dominio della retorica rispetto alla filosofia, c’era chi svalutava la prima come nociva all’amministrazione dello stato e inutile alla stessa oratoria. L’eloquenza autentica, si sosteneva, non ha bisogno di precetti e di artifici a freddo, né questi abilitano alla conoscenza e alla pratica giuridiche; empiria o tecnica che dir si voglia, la retorica va confinata in un ambito specialistico ristretto, poiché non può pretendere di occuparsi di questioni teoriche, riservate all’indagine filosofica. Contro tali affermazioni Cicerone mise in atto una difesa vigorosa della retorica come “arte” (ars) storicamente determinata, cioè mutevole nel tempo e nei diversi luoghi, complementare alla filosofia, in particolare alla logica e alla dialettica.

Il dibattito inscenato nel De Oratore (interlocutori principali L. Licinio Crasso e M. Antonio, i dominatori del foro nella generazione antecedente a Cicerone) contrappone la tesi dell’interconnessione di scienza ed eloquenza (di sapĕre e dicĕre) alla pretesa di restringere le competenze dell’oratore al possesso e al maneggio dell’arte verbale. Crasso, portavoce di Cicerone, sostiene (nel primo e nel terzo libro) che l’oratore deve avere una preparazione enciclopedica, deve conoscere i fondamenti dottrinari delle principali arti (ma non sono comprese nel numero le discipline tecnico-scientifiche), se vuole davvero incidere sulla realtà del suo tempo. La separazione tra res (cose, fatti, argomenti, cioè “contenuti”) e verba (parole, “espressione”) non si addice a una retorica che si prefigga compiti pratici: non esercitazioni scolastiche ma battaglie processuali vere e responsabile azione politica.

Nel secondo libro è affidata a M. Antonio l’esposizione dell’inventio, della dispositio e della memoria. In conformità con l’indole di Antonio è assegnato all’ingenium (la disposizione nativa) e alla diligentia (l’attenzione scrupolosa alla causa e alle circostanze annesse) un peso prevalente rispetto all’applicazione meccanica dei precetti manualistici. Insegnare, commuovere, piacere (docēre, movēre, delectare) sono gli scopi l’uno dall’altro indissolubili che vanno perseguiti coerentemente in ogni parte dell’orazione (esordio, proposizione o narrazione, argomentazione, conclusione). Intercalata al monologo di Antonio, una disquisizione sul comico, per bocca di Cesare Vopisco, riprende i temi e le tecniche di cui aveva trattato Aristotele: a conferma dell’importanza che ha una teoria del comico nell’analisi dei meccanismi discorsuali.

Tocca a Crasso, nel terzo libro del De Oratore, trattare dell’elocutio e della pronuntiatio. La disquisizione tecnico-precettistica è però introdotta da un’energica ripresa del tema iniziale dell’opera: non si può separare il contenuto (res) dall’espressione (verba), come non si può scindere la ‘cultura generale’, il sapere nella sua globalità, dalla parola che lo manifesta e dall’arte del comunicare. La rassegna ciceroniana delle proprietà dell’elocuzione, degli elementi costitutivi dell’ornatus (tropi e figure) e delle qualità richieste al perfetto oratore (“l’acume del dialettico, la profondità dei filosofi, l’abilità verbale dei poeti, la memoria dei giureconsulti, la voce dei tragici, il gesto dei migliori attori”, De Oratore, I, 48) resterà fondamentale per gli sviluppi della retorica classica e per il costituirsi del modello educativo trasmesso dall’antichità al Medioevo, con la retorica al centro delle prime tre arti liberali (fra la grammatica e la dialettica).

1.9. La disputa sulla decadenza dell’oratoria. La pedagogia retorica di Quintiliano

Con la caduta della repubblica e il consolidarsi dell’assolutismo imperiale l’eloquenza, anche a Roma, si ritira nelle scuole: nell’esibizione artefatta delle declamazioni l’esercizio dei precetti retorici si allaccia al disimpegno politico e civile.

L’interesse per le declamazioni caratterizza il periodo compreso tra la prima metà del I secolo d.C. e il V, che va sotto il nome di Seconda Sofistica. La declamatio, esercizio scolastico di composizione e recitazione, comprendeva due specie: la suasoria, appartenente al genere deliberativo, era ritenuta la più semplice e perciò veniva per prima nel curriculum; la controversia, più impegnativa, era esercizio di oratoria forense nel genere giudiziale. Lucio Anneo Seneca il Vecchio, nel primo quarto del I secolo d.C., pubblicò dieci libri di controversie e uno di suasorie, dando un ricco campionario di argomenti e di metodi con cui trattarli.

Il disimpegno politico, le sue origini e le sue conseguenze sono temi di un’opera attribuita a Tacito trentenne, il Dialogus de oratoribus, in cui sono discusse le seguenti questioni: se sia meglio dedicarsi all’oratoria o alla poesia; se sia superiore l’oratoria antica o la moderna; risolta la querelle in favore della prima, quali siano le cause della decadenza della seconda. I tre interlocutori del dialogo danno voce a tesi diverse. La difesa della modernità si appoggia a una dilatazione cronologica dei suoi confini (il campione degli antichi, Cicerone, potrebbe, in realtà, essere stato ascoltato da persone ancora vive al momento della disputa); all’elogio della stringatezza atticista (contrapposta alle frange ampollose dello stile ciceroniano), per quanto riguarda lo stile; e ai benefici dell’otium letterario che consegue all’esclusione dall’esercizio attivo del potere politico (vantaggi dello studio tranquillo sulle turbolenze della lotta politica; del vivere nella quiete della campagna, nella solitudine meditativa, sull’essere frastornato dalla confusione rumorosa e competitiva della città). La preminenza degli antichi sui moderni (chi la sostiene è il portavoce dell’autore), stabilita in base a valori etici, ideologici e stilistici, induce a considerare come responsabili della decadenza attuale le deficienze del sistema educativo, la vuotaggine delle declamazioni scolastiche e, causa scatenante delle precedenti, la scomparsa della libertà politica.

Sul piano teorico, è importante la concezione dell’eloquentia (o “capacità di esprimersi”) come comprendente tutti i generi di discorso, prosastico e poetico. Rinnovata nella forma e nei fondamenti concettuali, ritorna la teoria del sofista Gorgia, secondo cui la poesia e la prosa erano entrambe lógos: émmetros la prima, “sottoposta alle leggi della metrica”, ámetros la seconda, “priva di metro”. Secondo Tacito, l’utilitas e perciò gli scopi sociali distinguono l’oratoria dalla poesia, che ha come caratteristiche la voluptas, cioè il “piacere”, il bello disinteressato, e il carattere individuale connesso alla sua qualità di operazione fantastica.

Contemporaneo a quest’opera, nel pieno del I secolo d.C., il grande trattato di Quintiliano, l’Institutio oratoria in 12 libri, compendia in forma didascalica, invidiabilmente chiara, tutte le principali tesi che hanno segnato lo sviluppo della retorica antica. Non una nuova teoria, dunque, ma una summa delle dottrine precedenti, pedagogicamente rielaborate e messe a confronto con precisione sistematica e col fondamentale intento di documentare i vari punti di vista, e di conciliarli, anche, ma senza che venga meno una vigile consapevolezza critica.

Col rinforzo di osservazioni psicologiche assai acute, Quintiliano espone nei particolari tutto ciò che coopera, sin dall’infanzia, alla formazione dell’oratore: la scelta delle persone che si occuperanno di lui nei primi anni, dalla nutrice al precettore (esaminando il pro e il contro di una istruzione domestica, impartita privatamente, rispetto alla scuola pubblica); l’attenzione alle disposizioni naturali del ragazzo; i metodi per insegnargli i rudimenti grammaticali, le nozioni di cultura generale, la pronuncia e il modo di gestire. Si passa poi alla vera e propria istruzione retorica (lettura e commento di oratori e storici, composizione e correzione, studio a memoria e declamazione). Poiché è indispensabile conoscere i precetti dell’arte, gli ultimi capitoli del II libro ne intraprendono la descrizione sistematica, a cominciare dalla delimitazione del campo e dalle partizioni. Nel III libro, dopo ragguagli storici sul nascere della disciplina e sui suoi cultori, sono trattati i generi, gli “stati” delle cause, le parti di queste, la questione, la ragione e il nodo della causa: elementi di procedura civile e penale, la cui esposizione prosegue nei quattro libri successivi. Il IV, il V e il VI trattano dell’inventio, descritta secondo le sezioni del discorso persuasivo (esordio, narrazione, argomentazione ecc.; cfr. qui 2.2-7) in cui la materia viene ripartita, con particolare riguardo alle specie e all’uso delle prove e ai tipi di ragionamento; nel VII, con quelle che attualmente il codice civile chiama “disposizioni sulla legge in generale”, viene esaminata la dispositio (cfr. qui 2.8). I libri VIII e IX sono dedicati all’elocutio: tropi, figure e compositio (cfr. qui 2.9-20). Il libro X (forse il più noto, col I e il XII) contiene una rassegna di poeti e prosatori greci e latini la cui lettura Quintiliano raccomanda al futuro oratore. Su ognuno sono dati giudizi sintetici, interessanti non solo oggettivamente, ma soprattutto perché sono una spia efficace della mentalità e della formazione culturale che li ha prodotti: ci mostrano in che consista il “punto di vista retorico” nella valutazione di autori e testi letterari. Segue la descrizione degli esercizi, fondati sull’imitazione dei modelli: ma è un’imitazione attiva, volta al superamento attraverso l’emulazione, la gara coi predecessori illustri; solo così potrà prendere corpo la figura dell’oratore perfetto (del vir bonus dicendi peritus, di catoniana e ciceroniana memoria) che Quintiliano delinea nell’ultimo libro, dopo avere trattato, nell’XI, delle rimanenti due parti dell’oratoria: la memorizzazione dei discorsi e la loro recitazione.

La trattatistica posteriore, dall’Umanesimo in poi, dovrà riconoscersi nel modello quintilianeo, che godrà di un prestigio straordinario e impronterà, nel bene e nel male, ciò che si definisce come ‘retorica classica’: nella perspicuità e nelle incoerenze delle partizioni, nel dominio equilibrato di materiali diversi (sofistici, aristotelici, ermagorei ecc.) e nella debolezza del pensiero, ad es. riguardo alla questione (dottrinale e deontologica) del comportamento dell’oratore quando si trova a difendere il falso; ancora, nella visione globale della cultura e nella concezione, pericolosamente riduttiva, della retorica come “scienza del parlar bene”.

1.10. Dall’antichità al Medioevo

Il Medioevo eredita in blocco i sistemi delle retoriche e delle poetiche greco-romane, senza avvertire stacchi, e tanto meno la fine di un’epoca, nell’ininterrotta trasmissione della cultura antica.

All’interno della cultura classica aveva preso corpo, a partire dal II secolo dell’era volgare, l’opposizione fra la tradizione pagana e la nascente teologia del cristianesimo. Principali motivi di rilievo: 1) sui piani giuridico e dialettico, l’eloquenza combattiva degli apologisti; 2) sul piano della comunicazione, l’antiretorica del sermo humilis evangelico.

1) Compito dei Padri apologisti, la difesa della religione cristiana dalle accuse e dalle incomprensioni dei pagani; genere retorico naturalmente consono all’apologetica, il genere giudiziario. L’Apologeticum di Tertulliano, scrittore fertile, di agguerrita preparazione retorica e giuridica, presenta, sul finire del II secolo, la più poderosa e appassionata requisitoria contro i metodi di inquisizione che conducono a persecuzioni inique e ripugnano al diritto sia naturale sia positivo, perché danno corso ad accuse stolte e assurde (di infanticidio, cannibalismo, pratiche incestuose ecc.) senza alcuna prova né fondamento. Le argomentazioni in difesa dei perseguitati sono rinforzate dalla confutazione dei principi e delle pratiche rituali del paganesimo: da queste, notava Tertulliano, la migliore tradizione filosofica greca e romana si era pure discostata, senza però venir meno all’ossequio formale e opportunistico verso le tradizionali credenze religiose.

Accanto alle posizioni più intransigenti dell’apologetica oltranzista, si delineavano atteggiamenti più conciliativi nei confronti dei pensatori precristiani: è la linea moderata che si dirama da Minucio Felice, avvocato in Roma, contemporaneo di Tertulliano, ciceroniano nella scrittura e nello stile delle argomentazioni filosofiche, a Lattanzio (“il Cicerone cristiano”). Testimone dell’ultima persecuzione dioclezianea (303-311) e dell’editto costantiniano di conciliazione (313), Lattanzio mira a un reciproco potenziamento di sapienza umana e fede. Tra il IV e il V secolo le culture classica e cristiana fioriscono senza escludersi a vicenda.

2) Nella trasmissione del messaggio cristiano, la parola della verità manifestata dalle Sacre Scritture viene contrapposta nella sua nuda efficacia ai tecnicismi dell’antica arte del dire cresciuta al di fuori della rivelazione divina e perciò non illuminata dal Vero. Sull’opposto fronte, la maggior parte dei pagani colti (si cita dall’autorevolissimo Auerbach 19832:48-49)

considerava ridicola, confusa e scostante la produzione cristiana primitiva nelle sue forme greche e soprattutto nelle sue prime forme latine. Non soltanto il contenuto appariva loro come una superstizione puerile e assurda, ma anche la forma era un’offesa per il loro gusto: lessico e sintassi erano maldestri, popolari a un basso livello e per giunta infarciti spesso di ebraismi; parecchi elementi sembravano addirittura buffoneschi e grotteschi. Alcuni passi che innegabilmente trascinavano per la loro forza apparivano come una mescolanza torbida, come il prodotto di una semicultura fanatica e settaria. Essi reagivano quindi con decisione, disprezzo e disgustato rifiuto. Sembrava loro inconcepibile e intollerabile che in scritti di quel genere fossero trattati i problemi più profondi, che in essi fossero contenuti l’illuminazione e il riscatto degli uomini.

Alla reazione della mentalità e del gusto classici e delle relative abitudini retoriche non corrispose da parte cristiana alcun tentativo di ‘correggere’ la lingua e lo stile biblici secondo le forme letterarie colte, greche o latine, tanto forti erano l’autorità e l’efficacia formativa dei testi sacri.

Esemplare a tale riguardo, come ha insegnato Auerbach, è la testimonianza di Agostino (354-430). Uomo di alta cultura e retore di professione (come lo furono Cipriano, Arnobio e Lattanzio), prima della conversione aveva provato una repulsione totale per lo stile delle Scritture; in seguito, sotto l’influenza di Ambrogio, egli comprende che l’umiltà dello stile biblico ha lo scopo di far capire a tutti la parola di Dio, mentre la profondità dei contenuti e dei sensi reconditi è tale da “mettere alla prova il vigore intellettuale di coloro che non sono superficiali”.13

La dialettica di “umile” e “sublime” nel rapporto tra forme e contenuti, tra stile e sensi del messaggio, scaturisce dall’essenza stessa della rivelazione: l’incarnazione del Verbo divino come grado estremo di sublimità nell’umiltà.

Formatisi alle teorie e alla pratica dell’arte retorica classica, i Padri della Chiesa assorbono per intero gli ingredienti biblico-cristiani dell’espressione: la nuova “vivente retorica”, la vitale oratoria del sermo humilis che via via si afferma, può così vedere nella Bibbia l’archetipo di tutte le retoriche pagane. Nella sostanza permeerà dei contenuti nuovi e della nuova loro organizzazione ed espressione linguistica tutta la cultura che ne seguirà, vivificando forme in via di esaurimento nel mondo classico.

Nello scritto De doctrina christiana, Agostino si chiede come possa essere impiegata nella predica la retorica di scuola, dal momento che non è giusto lasciare i difensori della verità privi delle munizioni oratorie più efficaci ai fini della persuasione educativa e dell’esortazione al bene. Seguendo Cicerone nel concepire tre livelli di stile, Agostino raccomanda lo stile umile, disadorno ma non incolto, per l’esegesi di testi biblici e in genere per la spiegazione della dottrina cristiana (scopo: docēre); il medio, ornato di figure, per il discorso epidittico (scopo: vituperare sive laudare; esempio: l’elogio della verginità); l’elevato, per indurre gli animi all’azione (scopo: flectĕre) con o senza il supporto di figure, ma sempre con un’alta tensione emotiva. I tre livelli devono avvicendarsi nella stessa predica (già Quintiliano aveva raccomandato l’alternanza degli stili nella stessa orazione), ma il tono elevato non deve prevaricare sugli altri, anzi è il sermo humilis quello che deve improntare sia l’andamento didascalico, sia la vivacità drammatica che mima l’uso quotidiano della lingua, mette davanti agli occhi degli ascoltatori l’oggetto del discorso, simula l’azione; e da cui la predica acquista nerbo e potere cattivante e persuasivo.

Ciò che riguarda la partizione degli stili non vale per gli argomenti: le gradazioni pagane di questi ultimi non possono essere applicate ai contenuti della catechesi: “l’oggetto dell’oratore cristiano è sempre la rivelazione cristiana, e questa non è mai un oggetto di grado medio o umile” (Auerbach 1983:50). Tutti gli argomenti sono grandi, quando, come avviene nella predicazione, si tratta della salvezza eterna degli uomini, e a tutti si addice lo stile elevato; viceversa, “i più alti misteri della fede possono essere espressi con le semplici parole dello stile umile, accessibili ad ogni intelligenza” (ivi). È un sovvertimento del principio in forza del quale si prescriveva la consonanza degli stili alla natura dei vari tipi di argomenti; principio vivo in tutta la tradizione retorica e poetica della classicità e destinato a persistere durante il Medioevo per rinverdire poi nel classicismo rinascimentale. Per Agostino, invece, la gradazione stilistica si accorda unicamente agli scopi (insegnare, lodare o biasimare, piegare all’azione): va mantenuta per il suo valore pedagogico, ma esclusivamente in rapporto all’espressione.

Una visione schematica della retorica in questo periodo fa registrare l’ormai cronico distacco tra l’arte oratoria come insieme dei mezzi coi quali si può persuadere all’azione e la precettistica dell’esprimersi. Quest’ultima non fa ancora posto a poetiche autonome: ingloba in sé la poetica come arte del comporre in prosa e in poesia, e contemporaneamente invade il campo della grammatica, o si lascia parzialmente assorbire da questa, secondo le circostanze pedagogiche e il prestigio dei vari cultori.14

Nel IV secolo l’Ars grammatica del principe di questa disciplina, Elio Donato, riserva una sezione (il terzo libro, noto come Barbarismus, dalla sua parola iniziale) alle figure retoriche: come dire che la normativa dello scrivere corretto comprende anche i precetti del parlare e dello scrivere ornato. L’Ars grammatica costituisce l’Ars maior, occupata, nella parte rimanente, da un approfondimento delle otto parti grammaticali del discorso, mentre l’Ars minor, un manualetto dal titolo De partibus orationis, ne contiene una descrizione elementare; questa divenne così popolare che il termine Donatus, o Donet, fu il sinonimo medievale di “primo libro di testo”. Quintiliano aveva separato le competenze del grammatico da quelle del retore; Donato inserisce l’analisi delle figure nel programma di formazione linguistico-grammaticale, “come un mezzo per assuefare l’intelligenza dello studente alle sottigliezze del linguaggio” (Murphy 1983:42).

Nei primi decenni del V secolo il trattato allegorico De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella segna l’introduzione delle sette arti liberali nel Medioevo.

Sebbene i Disciplinarum libri novem di Varrone,15 assegnassero nove discipline al curriculum completo dei Romani, la medicina e l’architettura erano state lasciate cadere a partire dal V secolo, mentre furono conservate sette discipline, che Capella presenta nell’ordine seguente: grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia, musica.16 Le enciclopedie di Isidoro e di Cassiodoro confermano questa successione generale nel secolo seguente, stabilizzando, così, saldamente il modello tipico del trivium e del quadrivium. Le prime tre discipline concernono le parole, e le ultime quattro i concetti matematici, cosicché tutte insieme possono essere considerate come un curriculum completo.

(Murphy 1983:52)

Nel De nuptiis, il III libro è dedicato alla grammatica (“che insegna a leggere e a scrivere”), il IV alla dialettica e il V alla retorica, raffigurata come

una donna di eccelsa statura e di grande portamento, con il volto contornato di luminoso splendore. Cinta di un elmo e incoronata con maestà regale, avendo in mano le armi con le quali è solita difendersi o ferire gli avversari, risplendeva con bagliori simili a fulmini. La veste che portava sotto l’armatura era ricoperta, secondo la foggia romana, da un peplo avvolto intorno alle spalle, che brillava variamente delle luci di tutte le figurae e di tutti gli schemata

(De nuptiis, V, 425; trad. Murphy 1983:53)

L’opera, un prontuario enciclopedico delle nozioni basilari delle sette arti liberali, ebbe diffusione e fama grandi nel Medioevo; ma il compendio di retorica (derivato per la parte giuridica da Cicerone e per la teoria dell’ornatus da Aquila Romano),17 del tutto privo di originalità, non ha alcun peso dottrinale.

Il sincretismo nozionistico nell’elaborazione del sapere classico trionfa nell’attività enciclopedica di Boezio (480-524). Le sue traduzioni dell’Organon aristotelico costituirono la cosiddetta logica vetus (affiancata poi, nel XIII secolo, dalla logica nova). I quattro libri di commento ai Topica di Cicerone ebbero una straordinaria diffusione in tutto il Medioevo, col nome di Topica Boetii. Il quarto libro affronta le differenze tra la dialettica, che si occupa della thesis (“una questione senza circostanze”), e la retorica, che verte sull’hypothesis (“una questione che include una grande quantità di circostanze”). La prima ha un andamento dialogico, per domanda e risposta, si serve di sillogismi perfetti, si propone di battere, col ragionamento, l’interlocutore-avversario; la seconda produce discorsi distesi e ininterrotti, si contenta di entimemi, cioè di sillogismi abbreviati, e ha lo scopo di commuovere uno o più giudici. La trattazione boeziana dell’ars rhetorica comprende principalmente la dottrina degli status causae e cenni sommari ai generi e alle partizioni del discorso; non tratta né dell’elocutio, né della memoria e della pronuntiatio.

Cassiodoro (480-575), “il primo enciclopedista cristiano”, attinge, per la dialettica, a Boezio e ad Aristotele; per la retorica a Fortunaziano e a Vittorino,18 oltre che a Cicerone; per la grammatica a Donato. La poderosa opera che ne risulta, le Institutiones divinarum et secularium litterarum, destinata all’educazione dei monaci, ebbe larga influenza sugli autori posteriori, in particolare su Isidoro e Rabano Mauro.

Contemporaneo di Boezio e di Cassiodoro fu il grammatico Prisciano, il cui nome divenne l’equivalente dell’istruzione (grammaticale) superiore, come Donato lo era dell’istruzione elementare. Enorme risonanza ebbe la sua Institutio de arte grammatica, e altrettanta influenza esercitarono le sue esemplificazioni metriche da Terenzio, da Plauto e da altri poeti latini e greci, la traduzione latina di una parte dei Progymnasmata di Ermogene19 e infine l’analisi di dodici versi virgiliani, che contribuì alla conoscenza e al culto di Virgilio nel Medioevo.

Un secolo dopo, il vescovo Isidoro di Siviglia (570-636) componeva l’ultimo compendio enciclopedico dell’età della patristica: le Origines, ben presto denominate Etymologiae per il puntiglioso lavorio etimologico che le distingueva. L’opera presenta, in nuce, l’impostazione del curriculum degli studi universitari medievali, ponendo le sette arti liberali (nel seguente ordine: grammatica, retorica, dialettica; aritmetica, musica, geometria e astronomia) come propedeutiche a ogni studio approfondito di argomenti sia profani sia religiosi. Fonti principali: per la grammatica e la retorica, Donato (con spunti dalla Rhetorica ad Herennium e da Quintiliano, ed esempi da Cicerone e da Virgilio); per la dialettica, Cassiodoro. Per concludere con un’osservazione di Murphy (1983:89):

le Etymologiae sono [...] un punto di riferimento nel passaggio dal pensiero antico a quello medievale in relazione alle arti del discorso. Anzitutto, esse conservano la struttura dell’antica tradizione. Sotto questo riguardo, si trovano associate alle Institutiones di Cassiodoro e al De nuptiis di Marziano, ma furono di gran lunga più popolari nel Medioevo [...], e [...] esercitarono un più grande o più largo influsso.

1.11. Qualche annotazione sulle vicende successive

Le frammentarie notizie messe insieme nei paragrafi precedenti avevano una loro giustificazione utilitaristica: si trattava di dire (sommariamente, per attenerci all’economia del presente volume) donde provenissero gli elementi fondanti dell’impalcatura che tenteremo di descrivere per sommi capi nel capitolo 2. Ma per le vicende della retorica dal Medioevo in poi non avrebbe senso né utilità pratica persistere su un tracciato simile.

Per le età greca e romana, incluso il periodo della patristica, lo sfoltimento dei problemi e l’impoverimento del quadro generale potevano illudere di lasciar filtrare notizie essenziali alla presentazione analitica successiva di quel corpus imponente di analisi del discorso che va sotto il nome di retorica classica. La giustificazione – o l’illusione – non reggerebbe più per un eventuale racconto schematico di vicende sviluppatesi nei secoli che videro l’attestarsi di tale corpus su posizioni dipendenti (ma questo era vero anche per la retorica antica) dall’universo della cultura coeva. La giustificazione non reggerebbe se non altro perché dal Medioevo in poi abbiamo a che fare con un insieme ormai definito nella sua consistenza materiale; le cui eventuali fluttuazioni interessano ambiti e problemi particolari (i generi e la relativa collocazione dei testi), attribuzioni e sottrazioni di competenze: dall’inclusione della retorica entro la grammatica generale nel Medioevo, alla spaccatura rinascimentale tra le prime due e le ultime tre parti dell’arte del parlare fino alle moderne “restrizioni” della retorica nel quadro della teoria della letteratura. Come si dirà per sommi capi nelle tre seguenti sezioni.

(i) Rapporti fra le discipline del trivium. Nel XIII secolo la retorica si cristallizza nelle varie artes: della versificazione (ars poetriae), dell’epistolografia (ars dictaminis), della predicazione (ars praedicandi). Fondamento di ogni altra diviene l’ars grammatica: non più subordinata, come ars recte loquendi (“arte di parlare correttamente”) e con funzione propedeutica, all’oratoria (ars bene loquendi), ma a questa sovraordinata in quanto sede di ogni dottrina riguardante il linguaggio e i modi di servirsene. In posizione di preminenza assoluta, la grammatica ha il monopolio dell’arte verbale, e in particolare dello studio delle exornationes, dette anche flores, o colores rhetorici, cioè delle figure, mentre conserva le sue antiche incombenze, fra cui il classico esercizio della enarratio poetarum (analisi e interpretazione delle opere letterarie). Nel Doctrinale (1199) di Alessandro di Villedieu la grammatica è definita

logicae ministra, rhetoricae magistra, theologiae interpres, medicinae refrigerium et totius quadrivii laudabile fundamentum.20

La classica controparte della retorica, la dialettica, a cominciare dal XII secolo fino a tutto il XIV ebbe uno sviluppo rigoglioso, autonomo rispetto alla logica: fu la tecnica della discussione, diretta a raggiungere non la verità, ma una conclusione su posizioni contrastanti ed entrambe plausibili. Un impulso decisivo alla dialettica venne dalla traduzione, a opera di Jacopo di Venezia (1128), delle quattro opere aristoteliche che costituirono la “Nuova Logica”: Analytica priora, Analitica posteriora, Topica e De sophisticis elenchis. Nel terzo libro del suo Metalogicon (1159) Giovanni di Salisbury intesse l’elogio dei Topica: “Senza quest’opera si discute non secondo l’arte, ma a caso.”

Antecedente della disputatio scolastica nel XII secolo può essere considerata la declamatio delle scuole romane di retorica (a sua volta preceduta dalle tecniche pedagogiche di Protagora, di Isocrate e dalle dispute documentate nei dialoghi di Platone). La didattica oratoria della controversia, appartenente al genere giudiziale, e lo studio del metodo dialettico di Aristotele influirono sul sorgere e sull’affermarsi del genere disputatio, la cui struttura fu formalizzata rigorosamente: 1. problema; 2. proposta di soluzione; 3. obiezioni alla proposta; 4. soluzione del maestro; 5. risposte alle eventuali obiezioni.

La tecnica della disputatio imperò nelle scuole medievali: nell’interpretazione dei testi, nelle dimostrazioni di tesi, nelle prove di esame degli studenti. Trasferita nella trattatistica scritta, improntò non solo le argomentazioni tecniche, ma anche testi poetici: diede origine, fra il XIII e il XIV secolo, al genere letterario romanzo della disputatio o débat o contrasto (cfr. Corti 1973).

(ii) Ruolo umanistico della retorica. La scissione cinquecentesca fra argomentazione ed espressione e le frammentazioni sette-ottocentesche. Nel periodo umanistico la retorica, per il suo carattere pragmatico, “scavalca” la dialettica (cfr. Orvieto 1981:100): Lorenzo Valla caratterizza il sillogismo retorico rispetto a quello dialettico in quanto applicabile, il primo, alle situazioni pratiche e attraente nell’aspetto (“adornato di porpora e gemme”). Il ricco epistolario di Coluccio Salutati informa sulle principali ragioni che hanno determinato il fiorire della retorica alla fine del Trecento; come nota Orvieto (1981:103):

il vero bene dell’uomo è la verità; la verità non consiste in una serie di dogmi e di precetti imposti dall’alto, ma in una faticosa conquista personale; tale conquista implica in primo luogo il dominio dell’eloquenza e, più ancora, la riconquista della poesia. [...] Solo attraverso la rivalutazione dell’elocutio, la rilettura dei testi e la riappropriazione della grande tradizione poetica, si ricostituirà per l’uomo il disciolto nesso tra res e verba.

Nel programma educativo dei più famosi pedagoghi quattrocenteschi (Pier Paolo Vergerio, Guarino Veronese, Vittorino da Feltre) la retorica rappresenta il compimento della formazione integrale dell’uomo:

dall’etica noi impariamo quello che conviene fare, mentre dalla storia si traggono gli esempi che dobbiamo seguire. L’una espone i doveri di tutti gli uomini, e quanto convenga fare a ciascuno; l’altra, narrandoci quello che è stato detto e fatto, c’insegna quello che dovremo fare e dire nelle varie occasioni. A queste due discipline, una terza tiene dietro, l’eloquenza, ch’è parte anch’essa della scienza civile

(Vergerio, in Garin 1976:120)

La formazione integrale dell’uomo era l’ideale della sintesi tra arti, scienze naturali e filosofia perseguita dall’Alberti (i cui tre libri della Famiglia sono una prova esemplare di “retorica civile”, compenetrazione di teoria e pratica).

Una data importante per la storia della retorica è il 1416, l’anno in cui l’umanista Poggio Bracciolini scopre in un monastero di San Gallo, in Svizzera, una copia completa della Institutio oratoria di Quintiliano. L’opera, subito ricopiata e diffusa, divenne un punto di riferimento vitale per l’educazione umanistica, da parte di quegli studiosi, ed erano i più, che avevano abbattuto “la parete divisoria fra retorica e logica, fra retorica e speculazione scientifica o filosofica” e restaurato la “centralità dell’inventio” e la “dignità delle forme” (Orvieto 1981:105).

Sarà il “recupero della dialettica” da parte di altri umanisti (notevole il De inventione dialectica di Rodolfo Agricola, nella seconda metà del Quattrocento) ad anticipare nei suoi punti essenziali il ramismo del secolo successivo. Per Pierre de la Ramée (Pietro Ramo, 1515-1572) le artes logicae comprendono la dialectica (o logica) e la rhetorica. Parti della dialettica sono l’inventio e la dispositio; parti della retorica, l’elocutio e la pronuntiatio;

alla memoria spetta, secondo Ramo, un compito preciso: essa costituisce un indispensabile strumento per introdurre ordine nella conoscenza e nel discorso. Come tale essa non può essere omessa o trascurata.

(Rossi 1960:139)

La scissione compiuta da Ramo fra dialettica e retorica spaccava in due il classico dominio della seconda. Era la prima grande ‘restrizione’ della retorica a teoria dell’elocuzione, sottratto all’antica arte del discorso il possesso e il controllo dell’argomentazione. La retorica si avviava così a frantumarsi specializzandosi ossessivamente nella normativa del linguaggio figurato. A metà del Cinquecento viene riscoperta e tradotta la Poetica di Aristotele. La sua lettura “settoriale”, in quanto mirata prevalentemente a ricavarne una precettistica della “verosimiglianza” dei personaggi, distoglie gli espositori dalla compiutezza del rapporto istituito da Aristotele fra la retorica e i vari aspetti del comporre e li porta a sottovalutare i compiti della retorica a vantaggio di una poetica a cui si assegna peraltro un ruolo del tutto strumentale. Il criterio della verosimiglianza nei comportamenti e nelle parole da attribuire ai personaggi è quello che muove Ludovico Castelvetro (1505-1571), il grande espositore della Poetica aristotelica, a rimproverare al Boccaccio d’aver fatto pronunciare (Decameron, IV, 1) alla Ghismonda suicida un eloquente discorso di condanna dei pregiudizi nobiliari del padre che le ha ucciso l'amante. Appellandosi al criterio della verosimiglianza psicologica, Castelvetro sostiene che il páthos nelle sue punte estreme si avvale del silenzio meglio che delle parole ornate; non c'è posto per la retorica, se non per quella che sappia tacere o parlare con misura.

La svalutazione della retorica intesa ormai prevalentemente come dottrina dell’ornatus riempie le pagine della Esaminazione sopra la ritorica a Caio Erennio di Castelvetro, che sostiene la preminenza delle “parole assolute” (dei termini propri) sulle espressioni figurate: il parlare chiaro, ‘scientificamente’ esatto, che va diritto allo scopo, è preferibile ai traslati, agli ornamenti, alle circonlocuzioni. Sembra un preannuncio, a un secolo di distanza, del razionalismo di Port-Royal e di Cartesio.

Al rifiuto della retorica approda, sull’opposta sponda del platonismo e del neoplatonismo, Francesco Patrizi, figura rappresentativa del tardo Rinascimento italiano. L’idea del furor divino del poeta lo porta ad affermare la potenza della fantasia e dello slancio emotivo: quasi un’anticipazione della moderna fortuna del Sublime.

Con la teoria barocca dell’“ingegno” (Emanuele Tesauro, Matteo Sforza Pallavicino, Matteo Peregrini) le arti della parola tornano in auge, poiché è di queste che si vale la capacità “ingegnosa” di penetrare “le più lontane e minute circostanze di ogni suggetto” (Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, 1654). Le tecniche della classica inventio sono chiamate a raccolta per estrarre dalle cose le loro proprietà nascoste, in modo che la “versabilità” dell’ingegno possa raffrontarle, congiungerle e dividerle, aumentarle o diminuirle e porle “con meravigliosa destrezza [...] l’una in luogo dell’altra, come i giocolieri i lor calcoli”. Il concettismo barocco capovolge la massima aristotelica ispirata al senso della misura, secondo la quale il lavorio metaforico non doveva esercitarsi su entità troppo lontane: sarà tanto più ingegnoso chi saprà accoppiare le circostanze più distanti, connettere qualità e oggetti estranei l’uno all’altro: è il grande “ossimoro permanente” nell’ideologia e nelle produzioni barocche. In questo consiste l’“acutezza” teorizzata dallo spagnolo Baltasar Gracián (prima metà del Seicento) nel trattato Agudeza y arte del ingenio, e messa in pratica negli aforismi dell’Oraculo manual y arte de prudencia ove le regule del saper vivere sono impostate sull’estro e sulla destrezza.

La storia della retorica dal Seicento in poi può essere ripercorsa nell’ottica del conflitto fra le due culture, umanistica e scientifica, a partire da Vico, sostenitore della ragione retorica che egli scorpora dalla logica, nel tentativo di assicurare ai discorsi della dóxa, alle questioni opinabili, una fondazione metodologica pari a quella della matematica. Come già aveva proposto Bacone, Vico fa corrispondere le due fasi di sviluppo (lo stadio retorico e quello dialettico) a due momenti educativi diversi, posti in successione temporale. La retorica viene così ‘abbassata’ a momento preliminare; ma nello stesso tempo elevata alla funzione di ammaestramento dei popoli.

Divenuta, la retorica di scuola, studio e culto delle forme e dei modelli letterari, l’attenzione si concentrò sull’elocutio, sulla ‘forma dell’espressione’ (trascurando le ‘forme del contenuto’, l’organizzazione dei nuclei tematici e delle strutture narrative, che la più recente narratologia riconoscerà come componenti di una moderna dispositio) per concentrarsi sulle figure. I grandi retori, da Du Marsais (1730) a Fontanier (1827-30) specialmente,21 inseguono il miraggio di imbrigliare la varietà fenomenica del discorso, classificandone gli aspetti più svariati e minuziosamente sottili con puntigliose distinzioni e suddivisioni. La finezza delle analisi (si pensi a Fontanier) non rimedia all’assenza di basi teoriche attendibili.

Il discredito in cui cadde nell’Ottocento l’antica arte del persuadere ridotta a cosmesi e ad alchimia è un fatto che ha segnato la comune percezione dei fatti qualificati come retorici. Contribuirono certo a seppellire le tecniche retoriche, e la loro didattica, sotto cumuli di riprovazioni le poetiche del Romanticismo, le illusioni della ‘spontaneità’ creativa, del páthos che non tollera costrizioni (interpretazione ottocentesca del Sublime), del ‘genio sregolato’ e via discorrendo. Il motto di Victor Hugo “Guerra alla retorica e pace alla sintassi!” aveva proclamato, in piena febbre romantica, una netta separazione tra le leggi del parlare e le leggi del ‘parlare ornato’. Le regole della grammatica erano accettate come necessarie al buon funzionamento (all’uso corretto) della lingua; ai canoni della retorica era negata ogni legittimità, come a vincoli imposti per forza di sopruso alla libertà espressiva. In nome della “naturalezza”, “le teorie, le poetiche e i sistemi” erano messi al bando: “Basta con le regole e i modelli!”

Ma il rifiuto della precettistica, che col tempo doveva dirigersi anche alla grammatica (alla grammatica dei puristi) nel suo aspetto normativo, impediva di discernere il valore descrittivo degli schemi di una codificazione adibita, da secoli, ai fini della persuasione palese e occulta. Retorica divenne “sinonimo di artificio, d’insincerità, di decadenza” (si cita da Marrou 1950:82), quando ai moderni non rimase che un’immagine travisata dell’antica scienza del discorso. L’immagine di “futilità”, di “formalismo” oscurò il carattere, ben più sostanziale, di “denominatore comune di tutti gli spiriti della nostra civiltà”; che permette di “paragonare la retorica a sistemi convenzionali conosciuti da altre arti in altri periodi classici [...]; alle leggi della prospettiva nella pittura, a quelle dell’armonia nella musica [...] e anche a quelle della versificazione”. Il che equivale a riconoscere il ruolo storico ricoperto, nel formarsi dell’intera cultura occidentale, dalla retorica come codice ideologico e metalinguistico (cfr. Barthes 1972): magazzino di nozioni ermeneutiche ed elaboratissimo ‘discorso sul discorso’.

Nonostante i furori antiretorici di fine Ottocento, (prend l’éloquence et tordlui le cou) e le obiettive constatazioni del formalismo e della futilità (per riprendere i termini usati da Marrou nella sua apologia), risultati di un’eloquenza degenerata, la retorica, anche quando ne fu soppresso l’insegnamento ufficiale, non scomparve mai del tutto dalla manualistica letteraria, ove sopravvisse come catalogo di figure, accoppiata o assimilata alla stilistica. E fu un bene, se essa riuscì a funzionare come, sia pure modesto e occasionale, antidoto alle degustazioni impressionistiche dei testi letterari, al culto di una pretesa ineffabilità dell’emozione “estetica”: come strumento per un’analisi di meccanismi discorsivi.

(iii) La rhétorique restreinte del nostro tempo. “Retorica ristretta” è la definizione polemica che Genette (1976 [1972]) ha dato della disciplina quale si presentava (e a grandi linee si presenta tuttora) all’inizio degli anni Settanta, con la pubblicazione di studi che si fregiavano di etichette di senso opposto; in primo luogo, per importanza, la Rhétorique générale del Gruppo µ di Liegi (1970) [cfr. 3.2], poi due studi che applicavano la qualifica di généralisée rispettivamente a una teoria della “figura” e alla metafora. Dalla retorica alla figura alla metafora:

ecco profilarsi nelle sue tappe principali il percorso (approssimativamente) storico di una disciplina che, nel corso dei secoli, non ha mai smesso di vedere restringersi (come la pelle di zigrino) il campo della sua competenza, o almeno della sua azione.

(Genette 1976:17)

Pare di essere all’ultimo stadio di uno slittamento progressivo, dopo la dissociazione rinascimentale dell’elocutio dall’inventio, aggregate la prima alla poetica e la seconda alla dialettica. Nel Settecento, in Francia, la dottrina dell’elocuzione si concentra sulle figure. Con Fontanier, nella prima metà dell’Ottocento, l’analisi degli effetti figurali ha come fulcro i tropi: la retorica diventa una tropologia; solo in un secondo momento, e per simmetria, Fontanier completa il suo trattato con la classificazione e lo studio delle “figure diverse dai tropi”.22

Come teoria letteraria, la retorica recente è diventata una ‘metaforica’. Secondo Genette, la restrizione estrema è rappresentata dall’operazione jakobsoniana che riduce al “polo metonimico” le figure di relazione (sineddochi e metonimie, per cui cfr. qui 2.16:[2], in particolare gli ultimi capoversi) e al “polo metaforico” le figure d’analogia (metafora; varie specie di paragone: motivato e immotivato, l’uno e l’altro rispettivamente senza primo o secondo termine; “identificazione” motivata e immotivata, del tipo: “Il mio amore è una fiamma ardente” – “Il mio amore è una fiamma”, con o senza primo termine; e in quest’ultimo caso abbiamo a che fare con una metafora: “La mia fiamma”).

Metafora, secondo Genette (1976:30), è “uno dei rari termini che sopravvivono al grande naufragio della retorica”. Certamente per effetto della costituzionale metaforicità del linguaggio poetico, ma anche per l’inflazione del termine immagine nel lessico della critica letteraria, “per designare non solo le figure di somiglianza, ma ogni tipo di figura o di anomalia semantica”; e infine per lo spostamento riduttivo del senso di simbolo (a proposito del quale si rinvia, oltre che alle pagine di Genette, a Todorov 1984).

Al desiderium di una neoretorica che fosse una “semiotica del discorso, di tutti i discorsi” con cui Genette concludeva il suo saggio hanno corrisposto, sia pure parzialmente, gli studi successivi, in particolare quelli di impostazione pragmatica.

1.12. La retorica come teoria generale dell’argomentazione

Si semplifica la questione, ma non si sbaglia, affermando che, se fu la preminenza assegnata all’elocutio (e alla teoria dell’ornatus) a determinare lo scadimento dell’antica arte del parlare, fu il ritorno alla concezione della retorica come teoria del discorso persuasivo, che ha nell’argomentazione il suo fulcro e la sua ragion d’essere, a determinare la grande rinascita della disciplina alla metà del Novecento. Sentiamo Preti:

Gli studi di Perelman hanno profondamente rinnovato nella cultura contemporanea l’antico e da tempo screditato concetto di ‘retorica’, cercando di coglierne, al di là delle degenerazioni e dello scadimento di tono che questa nobile arte ha subito per secoli, il profondo significato culturale, la funzione, determinando le strutture del discorso retorico e indagandone i rapporti con il discorso logico (in senso stretto).

(Preti 1974:148)

La nouvelle rhétorique di Perelman e Olbrechts-Tyteca, autori del Traité de l’argumentation, Paris, PUF, 1958 (qui citato nell’edizione italiana del 1966, con la sigla TA), è un moderno ritorno (sotto il segno della derivazione, ma anche di una consapevole e ben visibile distanza: tale è il senso dell’attributo nouvelle) alle teorie classiche, e alla loro matrice aristotelica, per costruire una teoria del discorso “non-dimostrativo”, organizzando in sistema schemi argomentativi di antica origine.

Da Cartesio in poi (con una decisa accentuazione da quando la logica “è stata limitata alla logica formale, cioè allo studio dei mezzi di prova utilizzati nelle scienze matematiche”, TA 4) si è ritenuto che tutto ciò che sfugge allo studio delle prove dette da Aristotele analitiche esuli dal campo delle dimostrazioni “razionali”. Il verosimile verrebbe, così, inteso come falso o come non verificabile. Mentre Aristotele

aveva analizzato le prove dialettiche a lato delle analitiche, quelle concernenti il verosimile a lato delle necessarie, quelle utilizzate nella deliberazione e argomentazione a lato delle dimostrative, la concezione post-cartesiana della ragione ci obbliga a far intervenire degli elementi irrazionali ogni volta che l’oggetto della conoscenza non sia evidente.

(TA 5)

E questo non corrisponde al reale procedere della mente umana.23 Oggetto di studio saranno dunque le “tecniche discorsive atte a provocare o accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono presentate al loro assenso” (TA 6). Questa teoria è una dialettica, perché analizza le prove dialettiche, trattate da Aristotele nei Topici e descritte, nelle loro applicazioni, nella Retorica. Come nella retorica di Aristotele, il fulcro è l’uditorio, la cui conoscenza (il più possibile realistica e precisa, sul fondamento, soprattutto, di nozioni di psicologia sociale) è condizione preliminare alla buona riuscita dell’argomentazione.24

Il problema dell’uditorio è legato sia a quello del suo “condizionamento” sia a quello dell’“adattamento” del discorso (come già Vico aveva sottolineato) alle opinioni degli ascoltatori e al loro grado di cultura. Un pragmatico riguardo alle circostanze del parlare, agli elementi e ai fattori della situazione comunicativa: è un buon motivo per assegnare agli studi perelmaniani un posto di tutto rilievo nelle odierne analisi del discorso.

In funzione di una tipologia dell’uditorio (universale: scelto o specialistico, ma considerato ‘universale’ da parte di chi, specialista, si rivolge ai suoi pari / interlocutore unico / il parlante come interlocutore di se stesso) viene ripresa e discussa la tradizionale distinzione fra persuadere e convincere. Kant aveva distinto le due azioni opponendo il giudizio soggettivo, su cui si fonda la persuasione come opinione personale, alla verità oggettiva delle credenze ‘razionali’ che possono essere considerate convinzioni. Perelman e Olbrechts-Tyteca si rifiutano di attribuire alla persuasione una validità puramente soggettiva; non accettano di fondare i criteri per distinguere i due concetti “su una decisione che pretende di isolare da un insieme – insieme di procedimenti, insieme di facoltà – alcuni elementi che si considerano razionali”. Essi chiamano

persuasiva una argomentazione che pretende di valere soltanto per un uditorio particolare e [...] convincente quella che si ritiene possa ottenere l’adesione di qualunque essere ragionevole.

(TA 30)

Come si vede, è l’orientamento sull’uditorio quello che determina i criteri di giudizio. La “base dell’argomentazione”, che occupa la seconda parte del trattato, comprende i temi dell’accordo, della scelta dei dati, della loro presentazione e perciò della “forma del discorso”. Oggetti dell’accordo sono: i fatti e le verità, da un lato, e le presunzioni, dall’altro; i valori, le gerarchie e i “luoghi”. La nozione di fatto è relativa alle situazioni. I fatti ammessi in un’argomentazione possono essere o osservabili, o supposti, o convenuti, possibili o probabili. Le verità sono

sistemi più complessi, relativi a legami tra i fatti, si tratti di teorie scientifiche o di concezioni filosofiche o religiose che trascendono l’esperienza.

(TA 73)

Le presunzioni particolari (ad es. “la presunzione che la qualità di un atto manifesti quella della persona che l’ha compiuto”; la presunzione di innocenza finché non sia stata accertata la colpevolezza ecc.) sono legate a “ciò che è normale e verosimile”. Ritenere che esista tale connessione (tra presunzioni e normalità) costituisce “una presunzione generale ammessa da tutti gli uditorî”. Più generale di tutte è la presunzione che esistano fatti o comportamenti da considerare ‘normali’ e da prendere come base di riferimento per valutare gli altri fatti o comportamenti. La concezione dei valori quali oggetti di accordo che non possono pretendere l’adesione universale è stata fonte di discussioni (filosofiche, giuridiche, moralistiche in genere) e di chiarimenti (cfr. da ultimo, per una comoda messa a punto sintetica della nozione, Perelman 1981 [1977]; ma per alcuni motivi del dibattito si vedano almeno Preti 1968 e Gianformaggio 1981). Importante la distinzione tra valori astratti (ad es. la giustizia e la sincerità) e valori concreti (ad es. la Francia o la Chiesa). Il valore concreto (quello che si attribuisce a un individuo, gruppo, istituzione o oggetto considerato nella sua “unicità”) è connesso al riconoscimento dell’unicità:

rivelare il carattere unico di una cosa significa valorizzarla.

(TA 82)

Legate concettualmente ai valori sono le gerarchie, astratte (la superiorità del giusto sull’utile) e concrete (la persona è più importante della cosa); la valutazione delle seconde dipende generalmente dalle prime. Per stabilire valori e gerarchie ci si basa su premesse molto generali: i luoghi (tópoi, loci; per cui si rimanda alle indicazioni che daremo in 2.6:[4]).

La scelta, l’interpretazione e la presentazione dei dati pongono problemi di grande interesse non solo per gli scopi della teoria perelmaniana, ma in genere per le analisi testuali di qualsiasi provenienza e fine (interessanti i rimandi, per quanto riguarda l’interpretazione, a Richards [1936] e a Paulhan [1949], per i quali, in prospettiva diversa da quella di Perelman, la retorica “dovrebbe essere lo studio del malinteso e dei modi di porvi rimedio”, TA 131). Rientra in questi capitoli la trattazione delle figure, di cui si dà notizia qui, sparsamente, nel capitolo 2 (e in particolare in 2.19).

La terza parte del trattato è occupata dalle “tecniche argomentative” (cfr. qui 2.6:[6] e, per l’ordine degli argomenti, 2.8). Riguardo agli argomenti basati sulla dissociazione delle nozioni (di cui non si dà un sommario in 2.6:[6], dove si riassumono solo gli argomenti che si valgono di legami “associativi”), l’ampia trattazione verte sulle coppie che costituiscono l’oggetto proprio delle ricerche filosofiche. Quale prototipo della dissociazione nozionale viene scelta la coppia ‘apparenza-realtà’. Essa “esprime una visione del mondo, stabilisce delle gerarchie, di cui si sforza di fornire i criteri, il che non avviene senza il concorso di altri settori del pensiero” (TA 442). Ecco allora discusse altre coppie, quali ‘mezzo-fine’, ‘atto-persona’, ‘individuo-gruppo’, ‘atto-essenza’, ‘simbolo-cosa’, ‘particolare-generale’, che, “con le loro varianti e connessioni, ci forniscono i termini dei legami più abituali, che sono alla base dei legami di solidarietà argomentativa” (TA 445). Le dissociazioni riguardano anche il discorso stesso: sulla coppia ‘espediente-realtà’ si è giocata, per esempio, la svalutazione della retorica, quando l’artificiale è stato opposto al naturale (la forma al fondamento), il verbale al reale. I miti dello spontaneismo in letteratura, della passione dirompente che trascina alla creazione artistica, dell’oratore e del poeta in preda all’ispirazione che “detta” argomenti e parole, hanno confuso l’inadeguatezza del discorso all’oggetto e alla situazione con l’artificio:

tale visione romantica traduce per mezzo di un cliché ormai trito ciò che i maestri dello stile e i grandi oratori, dallo pseudo-Longino [l’autore del Sublime] al Bossuet, hanno sempre sottolineato: l’eloquenza più efficace è quella che sembra conseguenza normale di una situazione.

(TA 472)

La dissociazione ‘espediente-realtà’ nel campo delle congetture permette di spiegare l’antichissima tecnica argomentativa detta corax (dal nome del retore greco di Siracusa, Corace), classificata da Aristotele fra gli entimemi apparenti. In TA 479 essa è illustrata dal seguente esempio:

Un corrispondente [del “New York Herald Tribune”, nel 1948] aveva scritto al giornale una lettera, di intonazione filofascista, insultante nei confronti degli Stati Uniti. Parecchi lettori la commentarono, e uno di loro vi vide una sottile forma di propaganda comunista. Ma, si domandano altri lettori, non potrebbe essere un fascista che scrive una lettera che spera venga attribuita alla propaganda comunista per eccitare l’opinione contro di essa?

Quando si pratica ciò che oggi si chiama ‘dietrologia’, capita spesso di veder muovere le pedine del gioco interpretativo secondo le regole del corax.

Per concludere richiamando spunti già intravisti ci serviremo di due osservazioni tolte dalla prefazione di Bobbio all’edizione italiana del Trattato (la nostra sarà una ‘petizione di autorità’; e l’ultima frase di Bobbio sarà un bell’esempio di epifonema):

Il Trattato si muove entro la tendenza che mira ad attenuare la separazione, di cui ogni forma di irrazionalismo si è sempre fatta forte, tra sfera dell’essere e sfera del dover essere, tra giudizi di fatto e giudizi di valore. [...]

La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta e la non-verità c’è posto per le verità da sottoporsi a continua revisione mercé la tecnica dell’addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza.