2.8. La dispositio

  come a chi innalza una costruzione non basta accumulare pietre e materiali ed altri arnesi utili all’edilizia, se non vi si aggiunga la valentia nel disporli e nel collocarli, così nell’eloquenza la provvista degli argomenti, per quanto piena sia, si ridurrà a un cumulo informe, se analogamente la disposizione non li legherà in un tutto armonioso e organico.
  (Quintiliano)

La seconda delle operazioni retoriche (cfr. 2.1), detta in greco oikonomía, “amministrazione, ordinamento”, fu definita da Quintiliano come “l’utile distribuzione di argomenti [rerum] e parti nei luoghi opportuni” (Inst. orat., VII, 1, 1). Essa riguardava le seguenti operazioni (coi relativi effetti):

1)la partizione dell’intero discorso e di singole sezioni;

2)l’ordinamento dei contenuti all’interno di ciascuna parte;

3)l’ordine delle parole nella formulazione delle idee.

Per ognuno di questi punti si proponevano due “generi della disposizione”:

uno derivato dai principi della retorica, l’altro adattato all’occasione particolare.

(Rhet. Her., III, 9, 16)

Il primo genere è emanazione dell’ordine “naturale” (ordo naturalis), che si scorge nel susseguirsi degli eventi nel tempo e nella loro concatenazione logica; il secondo, suggerito da opportunità pragmatiche o da esigenze estetiche, segue l’ordine “artificiale” (ordo artificialis o artificiosus): sovvertimento regolato dell’ordine naturale, ai fini dell’efficacia argomentativa o artistica.

1) La partizione del discorso “secondo i principi della retorica” (e perciò secondo l’ordine naturale) era quella teorizzata nell’inventio, con la divisione del discorso persuasivo in esordio, narrazione, argomentazione, epilogo (con le varianti e le sezioni qui indicate in 2.3).

Anche alle singole parti si applicava il principio valevole per l’intero discorso persuasivo, e in particolare all’argomentazione, che di quest’ultimo è la fase insopprimibile:

Parimenti secondo i principi della retorica non solo disporremo il piano generale della causa nel discorso, ma anche le singole argomentazioni [...]: dividendole in esposizione, prova, conferma della prova, ornamento e conclusione.

(Rhet. Her., III, 9, 16)

2) L’ordinamento dei contenuti concerneva innanzi tutto (e concerne tuttora, nella teoria dell’argomentazione di Perelman) la disposizione degli argomenti probatori. Si riteneva che fossero tre i modelli possibili: in ordine di forza o crescente, o decrescente, o nell’ordine detto omerico o nestoriano.

Ordine crescente: si incomincia con gli argomenti più deboli per lasciare per ultimi quelli più forti (si pensa che l’ultima impressione sia quella che rimane più salda nella memoria). Questa procedura corre il rischio di far partire l’oratore col piede sbagliato, perché gli ascoltatori possono essere sfavorevolmente disposti fin dall’inizio, se subito si presentano loro ragioni poco convincenti.

Ordine decrescente: si adducono per primi gli argomenti più forti per attirare subito l’attenzione su questi e mettere in secondo piano le prove meno convincenti. L’inconveniente corrisponde al presumibile punto di forza dell’ordine opposto: se le ultime cose ascoltate possono essere le sole a restare nella memoria, si produrrà un’impressione sfavorevole, terminando un’argomentazione con le prove più deboli.

Ordine omerico o nestoriano, così chiamato dallo schieramento fatto assumere da Nestore alle truppe greche, ponendo al centro quelle meno sicure, nel racconto omerico del quarto libro dell’Iliade. Esso consiste nel collocare le argomentazioni più solide al principio e alla fine, distribuendo nel mezzo del discorso le ragioni meno forti:

Perché, subito dopo la narrazione del fatto, l’ascoltatore aspetta in cuor suo una qualche prova della causa – motivo per cui bisogna introdurre, subito dopo, una qualche solida argomentazione – e, per il resto, poiché rimane facilmente affidato alla memoria quello che è stato detto da pochissimo tempo, è utile, quando cessiamo di parlare, lasciare una qualche ben solida prova nell’animo degli ascoltatori. Questa disposizione della topica, come l’ordinamento dei soldati, potrà procurare molto facilmente la vittoria nel discorso, come quella nella battaglia.

(Rhet. Her., III, 10, 18)

Tali considerazioni, come osservano giustamente Perelman e Olbrechs-Tyteca, “presuppongono che la forza degli argomenti resti la stessa, quale che sia il posto che occupano nel discorso. Ora, molto spesso un argomento sembrerà forte solo grazie alla preparazione per mezzo di argomenti preliminari” (TA 522-523). E fanno l’esempio del discorso di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare: la rivelazione finale del testamento di Cesare in favore del popolo diventa l’argomento risolutivo, preparato com’è da un contesto teso a dirigere le emozioni degli uditori nel senso voluto dall’oratore. Il “condizionamento dell’uditorio” è una variabile di gran peso nella collocazione degli argomenti. È importante inoltre la correlazione che viene stabilita tra ordine e consistenza delle prove:

L’ordine degli argomenti dovrà dunque essere tale da dar loro il massimo della forza: si inizierà generalmente con quello la cui forza è indipendente da quella degli altri. Nella difesa duplice, vertente contemporaneamente sul fatto e sul diritto, l’ordine non è indifferente: si incomincia sempre dalla difesa più forte, sperando che la convinzione stabilita dal primo punto contribuisca a far accettare il secondo.

(TA 523)

L’ordine stesso in cui gli argomenti sono collocati può stabilire, o manifestare, una graduatoria di importanza.

Si pensi agli “ordini del giorno” delle riunioni dove non si debbano semplicemente trattare temi eterogenei, ma dove invece le questioni da esaminare siano connesse in modo che la preminenza data all’una ne possa fare una premessa per la successiva. Anche in questo il discorso persuasivo differisce dalla dimostrazione nei sistemi ipotetico-deduttivi, ove “tutto è dato” e le premesse non sono labili.

L’importanza del posto occupato da ciascun argomento, quando è la sua posizione a determinare un impegno da parte di un partecipante a una controversia, è chiarita dal seguente esempio:

nel corso delle interminabili sedute del dopoguerra fra i rappresentanti degli Stati Uniti, della Francia, della Gran Bretagna e dell’URSS, questi discussero interminabilmente sulla stesura dell’ordine del giorno delle loro negoziazioni. Normalmente “negoziare” non vuol dire discutere e persuadere; vuol dire fare mutue concessioni, e l’ordine dei problemi non avrebbe dovuto esercitare una tale influenza in questo senso se, considerando legati i vari punti, si fosse negoziato col desiderio di riuscire. Invece la mancanza di concordia faceva sì che le condizioni fossero quelle di una discussione piuttosto che quelle di una negoziazione. Di qui la preminenza data all’ordine, perché ogni presa di posizione costituiva un impegno senza contropartita.

(TA 515)

L’ordine adottato da un oratore o scrittore nella disposizione della materia diventa oggetto di riflessione da parte dell’ascoltatore / lettore, quando è legato a categorie esterne al discorso. Un esempio caratteristico è l’ordine cronologico, “la forma più semplice di quell’ordine naturale che ha tanto preoccupato i teorici” (TA 526). Come altre specie di ordine, esso serve da schema di riferimento nella comprensione di un testo, orale o scritto, e consolidandosi crea delle attese, tanto che le infrazioni devono essere giustificate.

Nel quadro delle perelmaniane “tecniche argomentative” i classici temi della dispositio passano attraverso una riformulazione che sfocia nel rifiuto sia di “ricercare un metodo conforme alla natura delle cose”, sia di “considerare il discorso come un’opera che trova in se stessa la sua struttura”. Se la premessa (fondamentalmente aristotelica) di tutta la teoria è che “l’argomentazione è un tutto destinato a un particolare uditorio”, allora bisogna ammettere che “devono essere le esigenze dell’adattamento all’uditorio a guidare nello studio dell’ordine del discorso” (TA 531): perciò anche le attese degli uditori riguardo a ciò che viene da loro concepito come “ordine naturale”, le analogie tradizionalmente riscontrate con la vita degli organismi (il crescere, il declinare ecc.), con la struttura delle opere d’arte (l’inizio e la fine come ‘punti caldi’, la suspense, il piacere dell’imprevisto ecc.), i giudizi del pubblico e altro ancora, dovranno essere tenuti in considerazione al pari degli altri mezzi coi quali si cerca di influenzare il destinatario di una comunicazione persuasiva.

Ciò che negli antichi trattati di retorica era fatto valere per le tecniche argomentative poteva valere, almeno in qualche misura, anche per gli altri procedimenti discorsivi (in ogni genere e forma della comunicazione orale e scritta): ad es. l’ordo naturalis, attuato, nel racconto, col disporre i fatti secondo la progressione temporale.

Come esempio di ordo artificialis può servire il seguente passo (intitolato programmaticamente: Retrogrado) dalla traduzione italiana degli Exercices de style di Queneau:

Dovresti aggiungere un bottone al soprabito, gli disse l’amico. L’incontrai in mezzo alla Cour de Rome, dopo averlo lasciato mentre si precipitava avidamente su di un posto a sedere. Aveva appena finito di protestare per la spinta di un altro viaggiatore [...]. Avveniva sulla piattaforma di un S sovraffollato, di mezzogiorno.

(Queneau, ES 11; trad. Eco)

Se si volesse azzardare un’analogia con temi dei moderni studi narratologici, si direbbe che, di fronte all’ordine “artificiale” esibito dall’intreccio (o intrigo) di un racconto, la fabula come costruzione dell’analista segue sempre l’ordine naturale, in quanto riordina le unità narrative secondo i rapporti di successione logica e cronologica dei fatti narrati. Sull’intreccio nella narrativa si rinvia a 2.5.

3) Nella formulazione delle idee, sul piano dell’espressione, un modo dell’ordine naturale è l’incremento o crescita, per cui vale la cosiddetta “legge del progressivo aumento delle parti”, da intendersi in riferimento sia alla dimensione di queste, sia alla “intensità” semantica dei componenti:

a) per quanto riguarda la dimensione, il membro più breve viene posto prima del membro più lungo. A questo si riferiva Jakobson (1966:190), quando scriveva:

“Perché dici sempre Gianna e Margherita, e mai Margherita e Gianna? Preferisci Gianna alla sua sorella gemella?” – “Niente affatto, ma così suona più gradevolmente.” – In una successione di due nomi coordinati, e quando non interferisca un problema di gerarchia, il parlante sente inconsciamente, nella precedenza data al nome più corto, la miglior configurazione possibile del messaggio.

Tale norma è osservata nel parlare comune (forte e sicuro; carta, penna e calamaio) e nel discorso letterariamente atteggiato (a meno che non prevalgano ragioni di rima, di eufonia, oppure una struttura di cursus: cfr. 2.20); esempi caratteristici nella disposizione dei membri di un’enumerazione:

e chi fu serva, chi straziata, chi uccise i suoi figli, chi stentò giorno e notte, chi non toccò più terraferma e divenne una cosa, una belva del mare.

(Pavese, DL 52)

e all’interno del verso, nei singoli cola (cfr. 2.20):

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese...

nelle frasi fatte e proverbiali, in titoli ecc.:

tra Scilla e Cariddi

prendere armi e bagagli / far su baracca e burattini

brutti, sporchi e cattivi

b) per quanto riguarda l’intensificazione del significato si ha una progressione o del tipo della climax ascendente (cfr. 2.17:[3] e [14]):

Come se tutte queste cose avvenissero ai grandi, agli Olimpici

(Pavese, DL 123)

o nel senso di una maggiore estensione del significato (il termine successivo si applica a un maggior numero di entità), come nelle seguenti espressioni:

Verrà Dioniso, e ti parrà di esser rapita da un gran vento, come quei turbini che passano sulle aie e nei vigneti.

(Pavese, DL 151)

vasetti, ninnoli, ogni sorta di cianfrusaglie.

L’ordine artificiale, nell’elocutio, è rappresentato dalle figure di parola e di pensiero, che appartengono appunto alla categoria dell’ordine attuato secondo le procedure della permutazione (cfr. 2.17:[24]-[27] e 2.18:[20]-[22]).

Nella funzione basilare della dispositio retorica, cioè nella partizione, Lausberg (19732:241-247) vede il gioco di due forze opposte e complementari: la tensione rappresentata dal dualismo, e il raggiungimento della compiutezza rappresentato dalla composizione degli opposti in un terzo momento, risolutivo e conclusivo. Le due forze corrispondono alle organizzazioni, rispettivamente, binaria e ternaria.

La divisione binaria delle parti comporta una polarità, che si configura tipicamente nello schema oppositivo dell’antitesi (dove si fronteggiano due elementi, o opposti o contrari): ad es. nella compositio scandita su una protasi e un’apodosi (cfr. 2.20), o nelle figure di parola e di pensiero a struttura bipartita, quali sono lo zeugma (2.17:[22]), l’antitesi, il chiasmo (2.18:[8] e [11]) e altre ancora.

Lo schema tripartito, nell’organizzazione dei discorsi, è quello che distingue l’inizio (gr. arch, lat. initium), la parte mediana (gr. méson, lat. medium) e la fine (gr. teleut, lat. finis). Figura modello, l’enumerazione (2.17:[16]).

Fra i procedimenti che, secondo Lausberg, manifestano l’atteggiamento dell’oratore di fronte alla materia del discorso e alla sua elaborazione (“la dispositio esterna all’opera”, Lausberg 1969:49) noteremo qui soltanto l’amplificazione (lat. amplificatio o exaggeratio; gr. áuxesis, da auxáno “accresco”): l’insieme delle procedure, e dei corrispettivi effetti retorici, che consistono nel dilatare in ampiezza e in intensità sia la materia di un discorso (dati, argomenti, opinioni ecc.) sia l’espressione. Secondo i retori antichi, incentivi e risultati dell’amplificazione erano l’arricchimento delle idee e l’intensificarsi delle emozioni. Quattro erano i tipi (genera) principali (cfr. Lausberg 1969:55-57): l’incrementum, cioè l’accrescimento graduale o sviluppo della materia (a questo aspetto si collega l’esercizio scolastico dello “svolgimento di un tema”: in franc. amplification, in ingl. amplification); la comparatio o confronto tra il proprio argomento e un altro analogo per mostrare quanto il primo sopravanzi il secondo; la ratiocinatio, con cui si fa dedurre, senza descriverla, la grandezza dell’oggetto di cui si tratta; la congeries (cfr. 2.17a2). I tropi dedicati all’amplificazione sono la perifrasi, l’enfasi, la litote, l’iperbole (cfr. 2.16:[5], [7], [8] e [9]). I procedimenti amplificanti sono l’accumulazione (2.17 a2) e la ripetizione (2.17 a1), attuate negli schemi che vanno sotto il nome delle rispettive figure. L’amplificazione e il suo opposto, che è l’attenuazione o riduzione (lat. minutio; gr. méiōsis), rappresentano i poli ideali dell’attività retorica (cfr. Ravazzoli 1991); l’uno o l’altro di questi due esiti può essere ottenuto con una stessa figura: per esempio con la litote. Come dispositivo della comunicazione letteraria dall’antichità a oggi l’amplificazione è ornamento e sigillo di stile (si pensi all’asianesimo e al barocco); strumento per la mozione degli affetti nell’eloquenza civile e religiosa, si identifica idealmente con l’abbondanza di efficacia persuasiva.

Come fatto strumentale, la ‘disposizione’ degli elementi del discorso a ogni livello dell’organizzazione di quest’ultimo riguarda tutte le parti tradizionali della retorica: anche la memoria, dunque, negli espedienti delle mnemotecniche, e la pronuntiatio, come coordinamento dei gesti e del modo di parlare (nella Rhetorica ad Herennium si raccomandava di procedere con forza crescente, anche nel tono di voce, da un inizio pacato al finale più concitato). Così si spiegano le sovrapposizioni della materia nelle classiche trattazioni delle due prime parti della retorica e le differenze nella distribuzione della materia stessa, se si confrontano tra loro i vari trattati.26

  All’argomento trovato, alle parti disposte vien dietro il comporre, che è impolpare l’ossa, e farne d’uno scheletro un corpo
  (Daniello Bartoli)

2.9. L’elocutio

Elocuzione o ‘espressione’ è l’atto di dare forma linguistica alle idee. La scissione fra i concetti e le parole che li manifestano, fra i contenuti e il loro rivestimento verbale (in latino, fra res e verba), produsse, fin dagli albori della retorica, la possibilità di costruire teorie dell’espressione, cioè di considerare il discorso stesso come oggetto di riflessione e di discorso, ma sul presupposto che i ‘modi di esprimersi’, cioè le risorse della lingua, fossero abbellimenti da aggiungere a ciò che si voleva comunicare. Forma, dunque, come veste e ornamento di un contenuto. Questa concezione, dominante nella cultura classica e accolta dogmaticamente nella trattatistica tardo-antica, si è poi sclerotizzata nella minuta precettistica delle scuole, riciclata con variazioni di superficie attraverso secoli di insegnamento retorico.

Il dominio dell’elocutio è stato luogo di incontro della retorica e della poetica. Lo studio delle qualità che rendono appropriata e decorosa l’espressione e in particolare l’analisi degli artifici che si addicono a ciascuno degli stili e dei generi letterari hanno aperto alla dottrina dell’elocuzione le porte della stilistica.

Come già detto, Aristotele non aveva potuto sottrarsi alla trattazione della léxis, riconosciuta la necessità pragmatica di catturare l’attenzione degli ascoltatori: non gli ascoltatori privilegiati della ‘retorica-come-dialettica’ platonica atta a persuadere persino gli dei, ma i non-tecnici, l’uditorio eterogeneo e tipologicamente vario come sono varie le circostanze del parlare in pubblico. Su questa scia Perelman e Olbrechts-Tyteca attribuiscono la dovuta importanza alla “presentazione dei dati”:

Una presentazione efficace, capace di impressionare la coscienza degli ascoltatori, è essenziale non soltanto in ogni argomentazione che miri all’azione immediata, ma anche in quella che voglia orientare lo spirito in un certo modo, che voglia far prevalere alcuni schemi interpretativi, inserire gli elementi di accordo in un sistema che li renda significativi e gli attribuisca il posto che loro spetta in un insieme.

(TA 150)

E reagiscono con energia all’impostazione tradizionale degli studi retorici, che ha ridotto tutta l’antica scienza del discorso alle “tecniche della presentazione” sviluppate in modo ossessivamente capillare: reagiscono al predominio accordato all’elocutio, che è stato fonte di verbalismo sterile e di disprezzo per l’intera disciplina. “Le strutture e le figure stilistiche” vanno studiate in relazione allo “scopo cui esse soddisfano nell’argomentazione”, avendo ben presente che “uno stesso contenuto [...] non è identico a se stesso quando è presentato diversamente”; la “scelta di una forma determinata” è rilevante per l’analisi solo quando riveli la particolare funzionalità argomentativa che l’ha provocata.

Non è facile orientarsi tra le svariate classificazioni manualistiche relative all’elocutio, oggetto privilegiato di una tradizione di studi e di applicazioni scolastiche lunga e disomogenea. Non è facile, anche perché nessuna delle più e meno illustri trattazioni manifesta un modello unitario e coerente. Donde le dispersioni e le sovrapposizioni all’interno di uno stesso ordinamento, le incongruenze tra ordinamenti diversi di entità denominate allo stesso modo ma catalogate in schemi e rubriche non coincidenti nelle varie descrizioni, che pure usano la medesima terminologia e si rifanno a un bagaglio concettuale comune.

La ben nota sistemazione di Lausberg (19732 e 1969) ha sulle altre il vantaggio di essere compatta e di esibire il massimo dell’organicità consentita dai fondamenti dottrinari della retorica classica. Per questo sembra opportuno tenerla come modello di descrizione, almeno nelle sue linee essenziali, volendo dare un resoconto manualistico delle partizioni tradizionali. Per favorire un orientamento elementare, si rinuncerà qui a riprodurre il reticolo delle interconnessioni e dei rinvii che Lausberg infaticabilmente ha intrecciato fra l’uno e l’altro elemento della sua costruzione. Perciò la mappa che tracceremo, se confrontata col disegno tanto più minuziosamente particolareggiato del modello originale, apparirà drasticamente semplificata; e l’insieme impoverito, com’era inevitabile. Ai principali riquadri di questa nostra mappa sovrapporremo tracciati diversi: riformulazioni in termini attuali di temi della trattatistica tradizionale, con rimandi a teorie recenti, correttive o sostitutive delle dottrine classiche; e ancora, ridistribuzioni di argomenti, che furono di competenza della retorica, ad ambiti svariati delle odierne scienze del linguaggio.

In questa parte il nostro manuale avrà accentuato l’aspetto di un prontuario e sempre meno assomiglierà a un trattato. Si è infatti ritenuto opportuno mirare a un catalogo il più possibile ricco, benché inevitabilmente incompleto, degli ‘individui’ (metaplasmi, tropi, figure, procedimenti stilistici e ritmici) che in una distribuzione di tipo linneano sarebbero preceduti, nell’ordine, da specie e loro varietà, generi, classi più generali. Ma un simile disegno (che Genette attribuisce a merito esclusivo di Fontanier, almeno per quanto riguarda la tradizione francese)27 non si presta a contenere tutto il materiale della tradizione classica; né le partizioni di quest’ultima possono essere sempre riformulate nei termini di una tassonomia coerente. Non è senza ragione che nel sistema lausberghiano la classificazione poggi su categorie (le quattro categorie stoiche del mutamento) e sulle relative procedure di attuazione, lasciando un ruolo subordinato e complementare ai rapporti ‘generale / specifico’.

Oggi il compito della retorica nel campo ricoperto dall’antica elocutio non è più (soltanto) tassonomico: non si tratta più di trovare un nome e una collocazione a fatti discorsivi infittendo ed estendendo all’infinito la rete della classificazione. Semmai, l’ambizione odierna è di spiegare e di semplificare; ma per questo occorrerebbero modelli predittivi,28 e l’impresa non è da poco, né è stata compiuta, finora. Oggi a chi fa retorica con intenti descrittivi, nei campi della teoria, dell’analisi e della storia delle istituzioni letterarie, magari con gli strumenti della semiotica della cultura, o nei campi della teoria dell’argomentazione, in filosofia, in giurisprudenza, nell’analisi del linguaggio ecc., la nomenclatura classica serve ancora. Gli esempi ci mostrano le occorrenze dei singoli fenomeni (una o più apocopi, una o più metafore, una o più paronomasie ecc.) che noi riconosciamo e denominiamo in base al tipo di cui possediamo una definizione preliminare.

Ma una definizione, una qualsiasi definizione di un’entità qualsiasi, non nasce per generazione spontanea: è sempre il risultato di (o è connessa a) un particolare punto di vista, un modo di vedere una realtà o di costruirla: una teoria, nella ricerca scientifica.

Mirare, come si è fatto qui, a un catalogo non poteva limitare l’esposizione manualistica all’elenco (magari in ordine alfabetico, per comodità di consultazione) dei fatti retorici: bisognava dare almeno una traccia dell’elaborazione dottrinaria della quale gli ‘individui’ di cui sopra costituiscono il punto di arrivo, la fase terminale nelle ramificazioni di un sistema retorico. Ai motivi per cui si è favorito il modello lausberghiano, moderna summa della retorica classica, si è già accennato poco fa. Il confronto con altri modelli, antichi, meno antichi e recentissimi, non è stato solo un cedimento all’eclettismo a cui pare si senta autorizzato il compilatore di un manuale: è stato richiesto dalla inesauribilità della materia stessa, oltre che dal desiderio di un’informazione non settoriale; come si spera dimostrato da quel che segue.

2.10. Il materiale linguistico

Il materiale linguistico oggetto di elaborazione nell’elocutio è stato sottoposto tradizionalmente alla bipartizione tra “parole singole” (verba singula) e “connessioni (o gruppi connessi) di parole” (verba coniuncta). Tale divisione, stabilita con criteri puramente quantitativi, è continuamente messa in forse dall’analisi dei fatti retorici. Come base di classificazione è servita a dividere, tanto per fare un esempio, i tropi dalle figure di parola e di pensiero (cfr. fig. 1), facendo da supporto a un’intuizione importante: che i tropi, intesi come ‘licenze’, cioè deviazioni consentite dall’uso ‘proprio’ delle singole parole, fossero essenzialmente fenomeni di significazione; e che le modificazioni del significato dovessero essere analizzate su un piano distinto da quello delle ‘configurazioni’ o ‘schemi’ espressivi (schin163-1ma è il termine greco per “figura”). Se non che proprio questa distinzione ha opposto un pregiudizio insormontabile al trattamento unitario di quello che è stato considerato il tropo dei tropi, cioè la metafora; e, in generale, è stato origine di incongruenze e di sovrapposizioni all’interno dei singoli modelli.

Dal materiale al deposito del medesimo: si è distinta la copia verborum, cioè la “provvista di parole” affidata alla memoria di chi parla o scrive, dalla copia figurarum, che è la “provvista degli schemi”, dei modi di combinare il materiale lessicale. Ciò che l’oratore o scrittore sceglie e mette in opera in questo duplice repertorio di possibilità enunciative costituisce il suo vocabolario o lessico (l’insieme delle parole da lui effettivamente usate) e il corpus degli accorgimenti espressivi che caratterizzano il suo stile.

2.11. Le virtù dell’espressione

Sulla traccia di Teofrasto, Cicerone enumera quattro principali qualità o “virtù” dell’espressione (virtutes elocutionis) a cui si possono ricondurre, volendo, tutti i requisiti dello stile diversamente suddivisi nei vari trattati di retorica.

Il requisito fondamentale di un discorso è che esso si addica (si convenga, sia conforme, cioè congruente e appropriato) a quanto è richiesto dalle circostanze e dagli scopi del parlare, e dalle caratteristiche del tipo o genere a cui il discorso appartiene. Questa è la qualità che i greci chiamarono prépon e i romani aptum: l’appropriatezza, la “convenienza” o congruenza coi fattori esterni e interni alla produzione del discorso, l’essere adatto, quest’ultimo, al raggiungimento dei fini prefissi e, in generale, alla situazione, oltre che conforme alle regole. Tale virtù, essenzialmente pragmatica, sembra essere il punto di partenza e di arrivo delle altre.

La prima delle quali, la correttezza lessicale e grammaticale, cioè il rispetto di un’ideale integrità della lingua, fu detta dai greci hellēnismós (“grecità”) e dai romani latinitas, “latinità”, sermo purus o puritas, “purezza di lingua”.

La seconda, la chiarezza o perspicuità (perspicuitas), è necessaria perché il discorso sia comprensibile.

La terza, l’ornatus, cioè la bellezza derivante da un lusso sapientemente regolato di mezzi e ornamenti, è di per sé la meno necessaria; ma, poiché la bellezza di un’espressione è fattore non trascurabile della sua accettabilità formale (dominio della puritas) e anzi può trasformare un errore in una licenza, cioè in una deviazione consentita (cfr. qui appresso), mentre produce o aumenta nel discorso la capacità di fare presa e di imprimersi nella mente (scopi della perspicuitas), può irradiarsi – e di fatto si irradia – anche sulle applicazioni delle altre virtù.

Tutte quante si esercitano sia su parole singole sia sulle combinazioni (sui gruppi) di parole. Il venir meno a una virtù è una deviazione: errore (vitium) o per difetto o per eccesso, se la deviazione è ingiustificata; licenza (licentia), cioè permesso, quando l’infrazione è giustificata da un dovere più forte di quello al quale si contravviene.

La concezione retorica della virtus è fondamentalmente aristotelica. Risponde all’ideale classico dell’equilibrata distanza dagli estremi. L’uno dei quali, relativamente all’esprimersi, consiste nella penuria o nella mancanza (il ‘difetto’ parziale o totale) dovute sia al ‘non potere’ (al non essere intellettualmente capace), sia al ‘non volere’ (al non porre sufficiente impegno). L’altro estremo, l’eccesso, è la sovrabbondanza non guidata dal discernimento (dal “buon giudizio”) che è oculatezza, misura, equilibrio ecc. Tali princìpi hanno avuto lunga vita nella precettistica pedagogica, fino alle banalizzazioni della didattica spicciola, all’assegnamento che si fa sul binomio ‘intelligenza-volontà’; e nell’estetica del classicismo, come nella pratica stilistica dei moderati, dei cultori del ‘giusto mezzo’ e della temperanza come veicolo di perfezione.

Per la tradizione retorica la virtus oratoria significa “successo”, nelle accezioni interconnesse di riuscita della comunicazione, di conseguimento dei risultati voluti e di affermazione personale. Riformulata velocemente nei termini dell’odierna analisi del discorso, la nozione di virtus verrebbe a coincidere con quella di ‘esito felice di azioni linguistiche’. Ove confluiscono la perspicuità, la pertinenza, l’appropriatezza ecc.: la misura dell’aptum, insomma, del ‘parlare come si conviene’. Oggi tale tematica si ritrova nelle teorie dell’azione comunicativa, nelle varie semiotiche della produzione e della ricezione di testi e nelle relative applicazioni sui versanti sia descrittivo sia didattico: analisi di generi e forme della comunicazione orale e scritta, ed elaborazioni (moderna precettistica di artes o rationes dicendi et scribendi) di tecniche svariate del parlare e dello scrivere ‘funzionali’ ai singoli tipi di discorso (conformi all’emittente e al destinatario propri di una data situazione, agli scopi del comunicare e all’orizzonte di attese di coloro ai quali ci si rivolge, alle convenzioni dei generi e dei tipi di testo ecc.).

La dottrina delle virtutes elocutionis merita oggi un interesse puramente storico, non disgiunto dal piacere del confronto con i punti di vista più recenti. Sempre che nello scoprire analogie e nello stabilire differenze non si dimentichi la radicale diversità dei fondamenti dottrinari, degli ambiti e dei procedimenti di indagine delle attuali scienze del linguaggio rispetto agli antichi schemi retorici.

Le crepe più larghe e profonde (ma anche le propaggini più insidiose, perché persistenti nel limbo delle idee ricevute) si percepiscono là dove più diretto è il collegamento coi principi informatori. Per esempio, nella nozione di licenza, eretta a tutela della nozione correlativa di errore.

L’idea di un permesso, di una deroga (lecita) dalle norme stabilite risponde a ragioni di logica giuridica: se si contravviene a una legge per ottemperare a un dovere più forte dell’obbligo o del divieto sancito dalla stessa, l’infrazione non è considerata una colpa. Applicato all’uso della lingua, il conflitto tra doveri si configurava come contrasto fra grammatica e retorica, fra parlare corretto e parlar bene (efficacemente), secondo la definizione quintilianea dominante nelle scuole. Nell’esempio di Lausberg (1969:65): “per l’oratore, il dovere di persuadere il giudice è più forte del dovere di mantenere la precisione linguistico-idiomatica: il dovere retorico supera il dovere grammaticale”. Le leggi della grammatica potevano cedere anche di fronte alle esigenze della poesia: di qui l’idea che ai fatti di stile fosse consentito di essere grammaticalmente anomali. A giudizio dei retori le collisioni tra virtù (la chiarezza contro la concisione o brevità, che fa parte dell’ornatus; le eleganze di quest’ ultimo contro le varie manifestazioni delle altre virtù ecc.) si risolvevano secondo il prevalere dei fini (pragmatici) e del valore intrinseco dei mezzi (stilistici).

Nei confronti della virtù soccombente si godeva dunque di un esonero. Fu questo il criterio che servì, nell’insegnamento tradizionale della retorica letteraria, o meglio, della letteratura nelle scuole di retorica, per giustificare gli usi ‘devianti’, rispetto alla grammatica normativa, da parte degli autori proposti come modelli da imitare. Si salvava il principio di autorità e nello stesso tempo si arginava l’errore, riservando il privilegio di infrangere le prescrizioni grammaticali solo a chi aveva l’autorità, e quindi le buone ragioni, per fare ciò che agli altri, ai comuni parlanti e scriventi, non sarebbe stato concesso: “i barbarismi e i solecismi, considerati come errori se commessi dallo scolaro, alla lettura di autori noti dovevano essere riconosciuti come metaplasmi, tropi e figure grammaticali, giustificati, addirittura ammirati come virtus” (Lausberg 1969:72).

Quest’ultima osservazione ci riporta al campo della puritas, virtù grammaticale basilare. Un sicuro possesso della lingua appariva infatti come preliminare e indispensabile all’esercizio dell’eloquenza; e a tale proposito Aristotele aveva dato prescrizioni chiare, passando in rassegna le parti grammaticali del discorso, relativamente al greco. Ben presto, nel fissare i requisiti della correttezza linguistica subentrano le tendenze alla conservazione: destinato a ripetute sconfitte, ma non alla morte, nasce il purismo, come tutela della puritas, sospettoso delle innovazioni, che vengono avversate come minacce o attentati all’integrità della lingua.

Il tema delle virtutes elocutionis obbliga a continui rimandi, da un lato all’efficacia argomentativa, dall’altro alla funzione ornamentale dei mezzi per cui il discorso diventa corretto, nitido, elegante. Nella prospettiva di Perelman questa specie di polarità prenderà corpo, chiaramente, nella duplice funzione che una figura può ricoprire: “argomentativa” e “di stile” (cfr. 2.19).

Per quanto riguarda la cosiddetta “letterarizzazione della retorica”, il discorso dovrebbe spostarsi alla poetica, anzi alle poetiche; e alle tipologie della comunicazione letteraria.29 Qui ci limiteremo a un’osservazione marginale, suggerita immediatamente dai tentativi degli antichi di recuperare come licenza l’anomalia creativa, l’originalità innovatrice che adopera le cariche dirompenti della trasgressione letteraria e linguistica. La nozione di ‘scarto’ che ha dominato una parte considerevole della moderna stilistica letteraria (ed è categoria di difficile fondazione teorica, dal momento che il suo parametro è una ‘norma’ mai ben definita e sempre relativa a settori e livelli di lingua diversi)30 ha avuto vita travagliata, anche perché le è rimasto estraneo – e giustamente – il non più proponibile carattere di giustificazione dall’esterno: per ammissione di un’autorità o per il riconoscimento di un dovere necessitante perché ‘più forte’ in un conflitto di doveri. Ciò che rassicurava sul conto dello ‘scarto consentito’ impedisce oggi qualsiasi comparazione tra l’antica idea della licenza e i criteri che consentono di spiegare le trasgressioni linguistiche: siano queste gli sperimentalismi delle avanguardie letterarie o il plurilinguismo degli scrittori macaronici, mistilingui (ciò che Contini ha denominato “l’eterna funzione Gadda nella letteratura italiana”);31 siano anche le innovazioni nell’uso comune, dovute all’azione della neologia (cfr. più avanti 2.12), ai prestiti e ai calchi da altri sistemi linguistici (lingue nazionali o dialetti).

Diamo una sommaria rassegna (con l’appoggio di uno schema) delle deviazioni dalle virtutes elocutionis secondo il modello lausberghiano. Sono escluse dallo schema le indicazioni riguardanti la virtù pragmatica dell’aptum, rispetto alla quale i vizi principali corrispondevano alle offese che un parlare osceno o volgare poteva arrecare ai “valori etici e sociali” consolidati in una comunità. Al buon oratore si raccomandavano “rimedi” opportuni, quando gli occorresse derogare alle regole del ‘conveniente’: richiesta preliminare di scuse (l’usanza è tuttora viva come buona norma di galateo linguistico), uso di figure come la correctio, la perifrasi ecc.

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Figura 1 - Errori e licenze riguardo alle virtutes elocutionis.

Rispetto all’ornatus, la oratio inornata, cioè il “discorso disadorno” (non sufficientemente abbellito) è errore per difetto; la mala affectatio, “affettazione” (l’artificio gratuito, privo di misura, la sovrabbondanza), è l’errore per eccesso. I sinonimi e i tropi sono licenze in quanto sostituzioni del significato letterale e deviazioni dall’“uso proprio” delle parole; le figure di parola e di pensiero sono modificazioni legittime delle costruzioni sintattiche abituali e della relativa organizzazione delle idee.

2.12. Il dominio della puritas

A) Barbarismi e arcaismi

Rispetto alla purezza linguistica (puritas o sermo purus), il barbarismo è il vizio per difetto; l’arcaismo il vizio per eccesso.

Il termine greco barbarismós, traducibile con “forestierismo” per il suo etimo (“barbaro” è “uno che balbetta”: tale sembrava ai greci chi parlasse una lingua diversa dalla loro), indicava complessivamente qualsiasi cambiamento nella costituzione delle singole parole, oltre all’uso di vocaboli non appartenenti alla lingua greca, o meglio a una delle varietà regionali (dialetti) del greco. Passato al latino, il termine mantenne le sue connotazioni negative: se il barbarismós era una violazione della virtù detta hellēnismós, il barbarismus era altrettanto per la latinitas.

Nella tradizione retorico-grammaticale-stilistica furono dunque denominati barbarismi:

(i) le parole malformate rispetto alle regole morfologiche e fonologiche di una data lingua;

(ii) i forestierismi, cioè i prestiti lessicali da lingue straniere;

(iii) i dialettalismi (o dialettismi): vocaboli appartenenti a uno dei dialetti parlati entro il territorio di una lingua nazionale e aventi in comune con questa l’origine;

(iv) i neologismi o parole nuove.32

Oggi il termine “barbarismo” (o barbarolessi), che implica di per sé un giudizio negativo, è per lo più limitato al gruppo (i).

Dei rimanenti gruppi di fenomeni si occupano a vario titolo la storia della lingua, la grammatica storica e descrittiva e la lessicologia. Per esempio, nello studio delle varietà dell’italiano la descrizione delle ‘varietà geografiche’ riguarda i vari tipi di italiano regionale (l’italiano parlato nelle diverse regioni del territorio nazionale),33 che si caratterizzano riguardo alla fonologia (ad es. persistenza o meno del valore distintivo di vocali aperte e chiuse; raddoppiamenti consonantici ecc.), alla morfologia e alla sintassi (ad es. uso del passato remoto, fra i tempi verbali; del congiuntivo e del condizionale, fra i modi) e al lessico. In quest’ultimo settore i regionalismi, vocaboli provenienti da regioni diverse ed entrati nella lingua comune, conservano talvolta un certo ‘colore locale’ che induce a usarli “con valore allusivo, quasi come blasoni regionali: per esempio, il ligure mugugno, il veneziano ostrega, ostregheta, il romano pennichella, il napoletano sfizio, il siciliano intrallazzo” (Lepschy/Lepschy 1993:37).

Tema di indagine lessicologica è la neologia,34 cioè il processo per cui si formano nuove unità lessicali: si introducono in una lingua parole o di nuova coniazione (ad es. i tecnicismi) o già esistenti in altre lingue (forestierismi e regionalismi), oppure, per il fenomeno della ‘neologia semantica’, attribuendo un significato nuovo a termini già esistenti nella lingua stessa (ad es. transatlantico “sala del palazzo di Montecitorio”). L’introduzione di parole straniere avviene mediante prestiti integrali (sport, hobby, computer) e prestiti adattati (dollaro, bistecca, mocassino), calchi morfologici e sintattici (arrampicatore sociale, testa d’uovo, che traducono le voci inglesi social climber, egg-head; colpo di fulmine, traduzione del francese coup de foudre), calchi semantici, che cambiano il significato di una parola già esistente nella lingua (parlamento, presente in italiano come “discorso”, ha assunto il significato di “assemblea politica” sul modello dell’inglese parliament). La categoria dei tecnicismi si sovrappone alle precedenti, in quanto i termini specifici dei cosiddetti linguaggi settoriali possono avere origine e natura varie: gran parte del lessico dell’informatica consta di tecnicismi che sono prestiti integrali o adattati o, più raramente, calchi dall’inglese; i tecnicismi della medicina, com’è noto, sono in massima parte neoformazioni dal greco antico.

Gli arcaismi, vocaboli antiquati, non più abituali, furono censurati da retori e grammatici antichi quando apparivano come ostentazione e degenerazione di un purismo contrastante senza giustificati motivi con le consuetudini linguistiche legittimate dalla norma e dall’uso.

B) Solecismi

Solecismi erano gli errori di morfologia (formazione delle parole e flessione, cioè declinazione dei nomi e coniugazione dei verbi, concordanze ecc.) e di sintassi. Il termine latino soloecismus riproduce il greco soloikismós, “modo di parlare degli abitanti di Soli”, una città della Cilicia dove si parlava greco scorrettamente. Il termine ha ancora il senso generale di sgrammaticatura.

Come solecismi sintattici la retorica classica censì le improprietà di costruzione dovute alla dismisura per eccesso o per difetto. Solecismi per aggiunzione, soppressione, permutazione e sostituzione erano gli usi scorretti dei meccanismi che producevano le corrispondenti figure grammaticali e anche molte delle figure di parola e di pensiero, nel dominio dell’ornatus. Qui accenneremo soltanto ai solecismi prodotti dall’aggiunzione, che non saranno registrati nei cataloghi delle figure: pleonasmo, perissologia e macrologia.

Il pleonasmo, osservava Quintiliano, “ha luogo quando la frase viene sovraccaricata di parole inutili”:

con molto spirito Cicerone fece rilevare questa menda di Irzio: poiché costui, declamando in presenza di Asinio, aveva detto che “un figlio era stato portato in grembo [in utero latum esse] da sua madre per dieci mesi”, “E che?” disse “le altre lo portano forse nella bisaccia?”

(Inst. orat., VIII, 3, 54)

Sul pleonasmo come figura sintattica cfr. qui 3.2:B2.

Analoga al pleonasmo è la perissologia: l’enunciazione sovrabbondante e superflua di informazioni già espresse o implicate dal senso di ciò che si sta dicendo. È una perifrasi che fa zavorra: è una forma di ridondanza che disturba la comunicazione invece di favorirla (contravviene al precetto classico di dire “quanto basta” e alla seconda “massima della quantità” di Grice, cit. in 2.5), distrae l’attenzione e complica il discorso, col rischio di renderlo equivoco.

Un esempio dal linguaggio televisivo (cit. in Manacorda 1980:23):

Puccini mandava delle poesie che non depongono molto a favore dell’estro poetico del maestro di Lucca.

(Vita di Puccini, ore 22 del 3/3/79)

Come amplificazione stilisticamente e semanticamente giustificata, la perissologia si manifesta in figure della sinonimia (cfr. 2.17:[11]) e dell’accumulazione (2.17:[14]-[20]).

Come difetto da evitare, la perissologia era tutt’uno con la macrología (in greco makrología, nel latino tardo longiloquium), che è la prolissità: “il parlare più a lungo del necessario”. Nell’accezione positiva la macrologia (che è, all’incirca, l’opposto della brachilogia: cfr. 2.18:B) corrisponde alla perifrasi (cfr. 2.16:[5]).

Il campo delle ‘licenze’ rappresenta il vero e proprio dominio retorico, nell’ambito dell’elocutio. L’antica scienza del linguaggio con la censura degli errori assolveva la sua funzione didascalica di guida al parlare bene, inconcepibile senza il requisito della correttezza grammaticale, e nello stesso tempo stabiliva (o accettava) i parametri sui quali misurare il tipo e l’entità delle deviazioni consentite. Su queste ultime, pagato il contributo alla grammatica, la retorica aveva piena e indiscussa giurisdizione. Ed è anche questo il terreno di incontro e di scontro delle moderne ‘neoretoriche’ con la tradizione classica.

Empiricamente, sembra possibile far coincidere ciò che si trova nel catalogo degli errori con altrettanti fenomeni descritti dalle varie branche della linguistica contemporanea; e identificare tutto ciò che le sistemazioni classiche ci mostrano come ‘licenza’ con possibili oggetti di studio sul livello retorico. Corrispondenza, come si diceva, solo empirica; che si può cogliere confrontando i singoli oggetti dell’indagine: ad es. i neologismi censurati come errori coi neologismi descritti dalla storia della lingua e dalla lessicologia; un tipo di barbarismi con le espressioni che non si possono generare (cioè descrivere) secondo il sistema delle regole di una data lingua e che sono perciò non-grammaticali; e sull’altro versante gli stessi fenomeni giustificati come licenze (cfr. qui appresso) dalla dottrina classica, con le loro attuali ricezioni e interpretazioni quali elementi del sistema (semiotico) di un testo o quali marche espressive, contrassegno di stili ecc. Ciò non equivale certo a credere che le delimitazioni dei campi (grammaticale, da un lato, retorico dall’altro), se mai fossero state definite, si siano mantenute stabili attraverso i tempi. Piuttosto, si può dire che la stessa materia linguistica e discorsiva è divenuta oggetto di diversi tipi di indagine (grammatica storica, fonetica, analisi del discorso, linguistica testuale ecc., analisi retoriche, stilistiche, tipologiche ecc.) secondo il punto di vista assunto. Ciascuno dei vari punti di vista ammette poi diversi metodi di ricerca e diverse ipotesi teoriche.

A1) I metaplasmi

Metaplasmo, per gli antichi, era ogni cambiamento nella forma di singole parole accolto nel sistema linguistico per forza di consuetudine, oppure giustificato dall’autorità degli scrittori ‘approvati’ come modelli (auctoritates). A ciò si aggiungeva la deroga occasionale (con la conseguente qualifica di metaplasmo) per quelle scorrettezze che di volta in volta la situazione imponesse come ‘dovere più forte’, scorciatoia per una comunicazione veramente persuasiva.

Oltre ai mutamenti per aggiunzione, soppressione e permutazione (vedi qui appresso), che sono oggetto di studio della fonetica, della grammatica storica e della storia della lingua, la retorica classica considera come metaplasmi per sostituzione (o sostituzioni metaplastiche) gli stessi fatti lessicali già descritti come attentati all’integrità di una lingua: neologismi, arcaismi (sulla funzione attribuita all’arcaismo e al neologismo dai teorici latini fra il I secolo a.C. e il II d.C. cfr. Pennacini 1974), forestierismi, dialettalismi. Tutti quanti legittimati o dalla necessità di introdurre parole nuove per nuovi oggetti e nozioni, tecnicismi nelle lingue speciali (esempi antichi, i grecismi introdotti nella lingua latina dalle nomenclature della filosofia e della retorica), o da esigenze letterarie (ad es. di rima, dal Medioevo in poi: è il caso di nui, sicilianismo per noi, adoperato da Dante in rima con fui, e arcaismo della lingua letteraria nell’uso che il Manzoni ne fa in rima con lui nell’ode Il 5 maggio).

I vizi per difetto e per eccesso non erano dunque più tali se intervenivano la legge della consuetudo o il prestigio dell’auctoritas, o l’una e l’altro insieme, a provare la necessitas. Era il riconoscimento (in termini lontani dalle linguistiche e dalle poetiche odierne, ma non dal ‘senso comune’ e dalle scappatoie volgarizzanti della precettistica minuta di ogni tempo) della vitalità di cui sono espressione i cambiamenti all’interno di una lingua. Che può conservare la sua integrità, può rimanere ‘tale e quale’ solo se è già morta. Per quanto indietro nel tempo si risalga nel farne la storia, il suo lessico risulta sempre impinguato con apporti di origini disparate. E ancora, non poteva sfuggire l’effetto innovativo delle creazioni artistiche originali, la loro più o meno scoperta capacità di rottura, nei confronti delle abitudini consolidate.

Diamo qui un elenco dei principali metaplasmi descritti in linguistica come mutamenti fonetici che consistono nell’alterazione di una parola mediante l’aggiunzione, la soppressione, la permutazione di suoni.

A questi Fontanier riserva una classe, nel suo sistema (cfr. fig. 4): la classe delle “figure di dizione”, osservando però che i metaplasmi “possono solo raramente meritare il nome di figure, dal momento che essi non servono ad altro che alla formazione delle parole o al travaso di queste dall’una all’altra lingua; da cui, una volta attecchite, non si distaccano più” (FD 222). Così il retore ottocentesco mostrava di percepire nettamente lo stacco fra livello linguistico-grammaticale e livello retorico.

Aggiunte di elementi non etimologici, introdotti per ragioni fonetiche, sono:

all’inizio di parola, la pròstesi (“aggiunta”): in italiano, la i- detta prostetica in parole che cominciano con s- seguita da consonante: “in ispirito”, “per iscritto”. Oggi, particolarmente nella scrittura, si tende a eliminare questa prostesi;

all’interno, l’epèntesi (“inserzione”) o anaptissi: in Genova si ha epentesi di -v- rispetto al latino Genua; e così in Mantova rispetto al latino Mantua;

alla fine di una parola, l’epìtesi (“addizione”) o paragòge: ad es. in pronunce centromeridionali italiane di vocaboli terminanti in consonante: filme per film; ìcchese (in varianti popolari toscane: ìccase, ìccasse) per ics (dove si ha pure un’epentesi).

Le soppressioni comprendono:

l’afèresi: soppressione di una vocale o sillaba al principio di una parola (rena dal latino arenam; scuro < oscuro);

la sìncope: eliminazione di uno o più suoni all’interno di parola (spirto < spirito; comprare < comperare; soldo dal latino solidum);

l’apòcope: caduta di uno o più elementi terminali (signor < signore; gran < grande; po’ < poco; cine < cinema).

L’apocope di -de in voci come città, bontà, pietà e simili (originariamente: cittade, bontade, pietade) è un’aplologia, perché si produsse davanti alla preposizione di (“cittade di Roma”).

Per l’apocope si veda l’ampia trattazione di Serianni (1988:25-30), da consultare anche riguardo agli altri metaplasmi qui enumerati.

La fusione di due vocali contigue e appartenenti a parole diverse è detta sinalèfe; l’eliminazione di una di esse è l’elisione, indicata graficamente dall’apostrofo (l’orto, un’erba). Metricamente, cioè nella costruzione del verso, la sinalefe inserisce in un’unica posizione due sillabe (l’ultima di una parola terminante per vocale e la prima della parola successiva se questa comincia con una vocale):

si  ͜  esauriscono  ͜  i corpi  ͜  in un fluire

(Montale, Portami il girasole..., 6)

L’opposto della sinalefe è la dialèfe (metaplasmo per aggiunzione, dunque), che permette di calcolare separatamente due vocali contigue, di parole diverse, che potrebbero stare in un’unica posizione:

che da ogne creata vista è scisso

(Par., XXI, 96)

La fusione di due vocali adiacenti nella stessa parola (con eliminazione dello iato per cui esse costituivano due sillabe distinte) è detta sinèresi. Come fatto di pronuncia, regionale o individuale, si può citare per esempio la realizzazione delle due ultime vocali della parola continuo come un dittongo /wo/ anziché come due vocali separate /uo/. Come licenza metrica, la sineresi consente di trattare due vocali, che potrebbero occupare due posizioni distinte, come una sillaba sola e perciò come un’unica posizione metrica. Nel seguente verso:

morte bella parea nel suo bel viso.

(Petrarca, Trionfo della morte, 172)

le parole parea e suo diventano, per sineresi, la prima bisillaba (da trisillaba quale sarebbe) e la seconda monosillaba (da bisillaba), conferendo al verso le undici posizioni metriche proprie dell’endecasillabo. Altro esempio di sineresi è il monosillabismo di io, normale in Petrarca, occasionale in altri poeti. Per esempio, Dante tratta la parola io ora come monosillabo:

ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini

(Par., XVI, 86)

ora come bisillabo:

tal era io a quella vista nova

(Par., XXXIII, 136)

(si notino, in quest’ultimo verso, anche la dialefe: “era-io” e la sinalefe: “io  ͜  a”).

Il contrario della sineresi è la dièresi (da censire fra i metaplasmi per aggiunzione), che può essere indicata graficamente dal segno diacritico dallo stesso nome posto sulla semivocale del dittongo da scindere:

Dolce color d’orïental zaffiro

(Purg., I, 13)

Altri metaplasmi metrici sono la sìstole e il suo opposto, la diàstole, indicanti, nella metrica latina, la prima l’abbreviamento di una vocale normalmente lunga, la seconda l’allungamento di una vocale normalmente breve. Nella metrica italiana la diastole è lo spostamento dell’accento verso la fine della parola per ragioni di ritmo e/o di rima:

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi

(Par., VI, 49)

(in decima posizione e in rima con Fabi e labi).

Un metaplasmo dovuto a permutazione è la metàtesi, che consiste nell’invertire l’ordine di successione dei suoni in una parola: areoplano per ‘aeroplano’; stroppiare per ‘storpiare’; interpetrare per ‘interpretare’ ecc.

Permutazione non come scambio, ma come spostamento di una parte di lessema (suffisso, secondo elemento di una parola composta) dovuto a taglio e interposizione di altre parole è la tmesi, testimonianza di “uno stadio linguistico in cui la composizione di parole era meno stretta” (Lausberg 1969:182). Un esempio latino: “septem subiecta trioni” (“posta sotto il settentrione”).

La tmesi è comune nella costruzione avverbiale spagnola (clara y concisamente), dove il fenomeno può pure essere interpretato come “omissione” o cancellazione di -mente (ablativo latino di mens, usato come suffisso) che vede così sottolineati il suo significato e la sua funzione originari. La stessa costruzione si trova, ma rara e censurata dai grammatici, nell’italiano antico (nel Novellino: umile e dolcemente; villana ed aspramente).35

La tmesi compare nella poesia italiana di ogni epoca come spezzatura di parole in fin di verso (cfr. gli esempi novecenteschi commentati in Beccaria 1975:253):

Suonano a onde le campane treme- / bonde sopra i villaggi e le città.

(Pascoli, Primi poemetti: Le armi, VII, 19-20)

Altre osservazioni in 3.2:B4.

Trattandosi di suoni, il metaplasmo è ‘rivelato’ dalla parola che lo contiene e ne risulta modificata; ma il suo sfruttamento retorico-stilistico è valutabile solo nei testi e in relazione ai contesti d’uso.

Un esempio di metatesi si trova nel proverbio

Il troppo stroppia

ove la ragion d’essere del metaplasmo (stroppia per ‘storpia’) è l’effetto allitterante di ‘stroppia’ con ‘troppo.

Un caso di apocope, commentato dall’autore stesso, si trova in un passo di Gadda citato dal Gruppo μ (1976:78):

“Puzzoni pure loro, li possino buggerà.” L’imprecazione si smarrì sottovoce nell’apocope dell’infinito.

Un esempio di sistole come resa al vivo dell’oralità:

La prima volta che il papà vide uno che si lavava i denti fu a Torino quando andò soldato.

Mària Vergine, cos’è che fa quello lì?”

Si lavava i denti.

(Meneghello, LNM 147)

La -i- da lunga diventa breve per effetto di una pronuncia che l’autore stesso non manca di sottolineare in un’apposita nota al testo: “Pr. Mària fortemente accentato sulla prima sillaba” (LNM 307).

La definizione del metaplasmo dovrebbe, a rigore, far comprendere in questa classe anche la paronomasia, l’allitterazione, l’assonanza ecc., catalogate, nelle principali sistemazioni classiche, la prima tra le figure di parola, le altre come figure di parola e come fenomeni della compositio. Nella Retorica generale (d’ora in poi, RG) del Gruppo μ sono annoverate, giustamente, fra i metaplasmi, con altri fenomeni ignorati dai modelli tradizionali.

In RG i metaplasmi costituiscono una delle quattro categorie delle metabole o figure retoriche (cfr. lo schema riprodotto qui in fig. 2). Appartengono al livello morfologico dell’espressione e sono definiti secondo le quattro procedure (con le relative varianti) contemplate dalla classificazione di tutte le metabole (vedi oltre):

I.soppressione (parziale e totale);

II.aggiunzione (semplice e ripetitiva);

III.soppressione-aggiunzione (parziale, completa, negativa);

IV.permutazione (generica, per inversione).

Soppressioni parziali sono i metaplasmi che già conosciamo (aferesi, apocope, sineresi). Le soppressioni totali sono cancellazioni coincidenti coi fatti sintattici dell’ellissi (cfr. qui 2.17:[21]) e logico-semantici dell’aposiopesi (2.18:[19]). Sono, per meglio dire, assenze, denunciate a volte, in poesia, dal ‘bianco’ e/o dai puntini di sospensione in sequenze di parole e versi:

Ecco queste sono le pretese dell’insonnia

anche questo pretendere di darne interpretazioni

  ithos pathos
  bestemmiarono   i  cespugli sommessamente
  cippi hypnos        pretendere
       

(Zanzotto, Verso il 25 Aprile, I, 24)

È appena il caso di ricordare lo sfruttamento massiccio della cancellazione nei componimenti delle avanguardie poetiche vecchie e nuove, dai futuristi ai Novissimi e oltre.

Tra le aggiunzioni “semplici” (protesi, paragoge, epentesi e dieresi) la RG comprende le parole-macedonia (mot-valise, “parola-valigia”, nell’uso introdotto da Lewis Carroll, Alice dietro lo specchio, cap. VI, per bocca di Humpty Dumpty: “È un po’ come una valigia, capisci... ci sono due significati in una parola sola”): abbreviazioni formate di parti di parole (Confindustria, Minculpop) e le parole-sandwich composte introducendo una parola, intatta, all’interno di un’altra parola (ad es. cefalnebbialgia). Terreno fertile per la creazione individuale, specialmente nella “comunicazione spiritosa”, la formazione di parole-macedonia usa liberamente il meccanismo della crasi (che, in greco, è la contrazione della vocale o del dittongo terminale di una parola con la vocale o il dittongo iniziale della parola successiva). Esempio: il famillionnaire di Heine citato da Freud fra i motti di spirito e riproposto, con un calco, nel seguente enunciato:

La figlia di Onassis ha ricevuto i suoi ospiti in modo molto familiardario.

(Ravazzoli 1981:161)

Anziché di crasi si dovrebbe parlare di aferesi del secondo componente in formazioni del tipo diffuso in inglese ed esemplificato da vocaboli come Reaganomics (“politica economica reaganiana”) e di apocope del primo componente in parole come socialdemocratico.

L’aggiunzione “ripetitiva” di RG comprende (cfr. lo schema di fig. 2) alcuni fatti retorici che qui esamineremo tra le figure di parola. Fra i rimanenti, notiamo i metaplasmi che alterano come aggiunte ripetitive la composizione delle parole.

Un esempio futurista:

La pittura dei suoni, dei rumori e degli odori vuole: 1. I rossi, rooooosssssi roooooosssissssimi che griiiiiidano. 2. I verdi i non mai abbastanza verdi, veeeeeerdiiiiiisssssssimi, che striiiiiidono...

(Carrà, MF)

La terza classe dei metaplasmi nel modello di RG presenta, fra i casi di soppressione-aggiunzione “parziale”, le sostituzioni di fonemi sia nel linguaggio infantile, sia nelle (imitazioni / contraffazioni di) pronunce che eliminano, ad es. la consonante vibrante /r/ per sostituirla con la laterale /l/ (“una clavatta, tle lile”) o che sonorizzano le consonanti sorde, come nella riproduzione parodistica della pronuncia avellinese, in chiave di satira politica odierna.

Hanno le carte in regola per entrare nella sottoclasse dei metaplasmi per sostituzione parziale molti calembour, poetici, enigmistici, o confezionati per alimentare motti di spirito, barzellette, equivoci e doppi sensi satirici ecc.

Ma il dominio dei ‘giochi di parole’ sembra essere, almeno secondo RG, la quarta classe, definita dalle procedure della “permutazione”: manifestazione tipica, la metatesi (a cui si è già accennato). Permutazione totale di suoni (e delle lettere che li trascrivono) o di sillabe e gruppi di sillabe si ha nell’anagramma. Esempio: Neri Tanfucio, pseudonimo anagrammatico dello scrittore Renato Fucini.

L’anagramma come onomanzia (“presagio tratto dai nomi”) venne alla luce nel III secolo a.C., quando il poeta Licofrone anagrammò il nome greco del suo re, Ptolemâios, in apò mélitos, “di miele”. Tale esercizio, che ricava da un nome l’enunciazione di una qualità del suo possessore, una definizione del medesimo, un elogio o un’ingiuria, ha vita rigogliosa come scherzo, passatempo, ingrediente satirico ecc. Qualche esempio recente: antico romano è anagramma di Marco Antonio; alto vicario è anagramma di Carol Voitila, con un adattamento della trascrizione; santo morto fra pietre è Stefano protomartire.36

Le ricerche di Ferdinand de Saussure (cfr. Starobinski 1982) sugli anagrammi estraibili dai versi di Omero e di alcuni autori latini e coincidenti con parole-tema delle poesie che li contengono, hanno influito notevolmente su certe procedure dell’analisi letteraria, attenta alle figure ‘nascoste’ nella conformazione, nei suoni, nei timbri e nel ritmo dei versi (si sono notate corrispondenze anagrammatiche significative: ad es. Silvia / salivi, in Leopardi).37

Se si permutano sillabe o loro gruppi nella stessa parola o in parole diverse, si ha l’antistrofe, in francese contre-petterie, praticata riccamente da Rabelais. In RG 92 è citata una poesia di Leiris: un tessuto di antistrofi:

Alerte de Laërte / Ophélie est folie / et faux lys; / aime-la / Hamlet.

Da permutazioni per inversione si genera la tecnica del palindromo: un vocabolo o una sequenza che presenta sempre la stessa successione di lettere, letta da sinistra a destra o da destra a sinistra. Voci palindrome: ingegni, anilina, oro e il cognome Asor Rosa. Tra le sequenze, è famoso il verso di Sidonio Apollinare (V secolo)

Roma tibi subito motibus ibit amor.

Delle parole che lo compongono, considerate singolarmente, Roma / amor, tibi / ibit sono bifronti, poiché la lettura retrograda dà, per ognuna, una parola di senso diverso. Il maggior studioso attuale della “poesia artificiosa” cita inoltre il rovesciamento Ave / Eva “breve nella formula ma denso di significato [...], che, svolto nel celebre inno mariano l’Ave maris stella, sarà poi ripreso in mille variazioni innodiche” (Pozzi 1984a:138). Poiché, come nota Pozzi (ivi, 136-137), “il nome di palindromo è stato esteso a tutte le figure di percorrimento all’indietro, la figura che riguarda i soli fonemi è talora chiamata diaulos: si usa anche il termine di sotadico, dal nome del presunto inventore, Sotade, vissuto nel III secolo a.C.”. Ancora Pozzi cita i palindromi scherzosi di Arrigo Boito:

È dolce cosa poter dire: recai piacer, si potrà dire di quest’inverno: era clima d’Amilcare

da collegare alla consuetudine della tecnica musicale, che abbonda di procedimenti “retrogradi”. Più difficili da confezionare sono i palindromi sillabici, come l’esempio arguto di Góngora: dotor / tordo, o il verso di Giovanni Caramuel (XVII secolo):

Divino miseras horto horas semino. Vidi.

Le inversioni comprendono anche il verlen, specie di gergo diffuso nell’area francese, che consiste nell’invertire l’ordine delle sillabe. Tra i non pochi linguaggi ‘costruiti’ che si valgono di questo procedimento c’è il larpa iudre (cfr. Lurà 1988), gergo usato a Mendrisio (Canton Ticino). Il nome risulta dall’anagramma di parlà (parlare) e dalla sostituzione, nel termine dialettale indrè (indietro), della lettera u alla n, che è simile alla u nella scrittura veloce. Parole in larpa iudre: ntinaca (cantina), dèlfra (fradel “fratello”).

Le svariate manifestazioni della poesia figurata (per cui basta rimandare qui a Pozzi 1981) sono terreno di ciò che in RG sono i metagrafi, o “metaplasmi del piano grafico”: dai calligrammi (di alta tradizione letteraria, da Rabano Mauro ad Apollinaire) alle inserzioni di grafemi allusivi: lettere dell’alfabeto (makkina, Amerika), o segni (emblemi) leggibili come lettere (Niin187-1on).

f186-1

Figura 2 - Tavola generale delle metabole o figure retoriche.

Come s’è visto, tra i metaplasmi secondo il Gruppo μ, e (come si vedrà) tra le figure di parola e i fatti su cui verte la compositio, secondo le sistemazioni classiche, sono distribuiti fenomeni dell’espressione che riguardano la sostanza fonico-acustica: l’allitterazione e la rima, per esempio, ma anche fatti visti con sospetto dagli antichi retori e trascurati dai moderni linguisti. Sono le varie manifestazioni del simbolismo fonico. Esse hanno indotto alcuni linguisti da Grammont in poi, e specialmente studiosi di letteratura (di formazione linguistica o psicoanalitica), a riconsiderare i legami tra la natura fisica dei suoni e le reazioni psichiche provocate dalla loro percezione (auspice Platone, che nel Cratilo aveva teorizzato la “naturalezza”, phýsis, della lingua, opposta all’arbitrarietà o “convenzionalità”, thésis, che di solito le viene riconosciuta). È più facile motivare il valore simbolico attribuito ai suoni (/u/ associato a impressioni di buio, le sibilanti al fruscio o alla velocità: “Corda non pinse mai da sé saetta / che sì corresse via per l’aere snella”: Inf., VIII, 13-14) quando alle loro combinazioni corrispondono significati congruenti con il supposto simbolismo. Per esemplificazioni si rimanda all’abbondante materiale analizzato da Orelli 1978 e ai rilievi di Segre 1985:54-68 sull’“uso iconico della sostanza” in letteratura.

Questo è il campo dell’onomatopea o imitazione dei suoni naturali in espressioni del linguaggio articolato: non la semplice imitazione di rumori o voci fatta, ad es. da un attore, ma la composizione di parole (tale è il senso del termine greco onomatopoïía) che riproducono suoni, rumori, voci di animali ecc. e li trascrivono secondo le convenzioni fonologiche e grafematiche delle singole lingue (in italiano il gallo fa chicchirichì, in francese cocorico o coquerico, in tedesco kikeriki, in inglese cockadoodledoo). Il lessico italiano ha numerosi vocaboli onomatopeici (miagolare, ululare, tintinnare, sussurro, rimbombo, gorgoglio, tonfo...). Esclusa dagli antichi maestri di retorica come disdicevole all’oratoria (per gli stessi motivi Quintiliano biasimava la tmesi), ma praticata specialmente dai poeti, in forme che vanno dall’introduzione di onomatopee ‘pure’ come i danteschi “tin tin sonando” (Par., X, 143) e “non avria pur da l’orlo fatto cricchi” (Inf., XXXII, 30) alla cosiddetta armonia imitativa nei timbri (“e cigola per vento che va via”, Inf., XIII, 42) e nel ritmo: si ricorderanno il virgiliano quádrupedánte putrém sonitú quatit úngula cámpum: Eneide, VIII, 595 (si segnano gli accenti ritmici per facilitare la lettura) e il foscoliano “E un incalzar di cavalli accorrenti / Scalpitanti sugli elmi ai moribondi” (Dei Sepolcri, 210-211): ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi, fino alla poesia (e alla prosa) dei nostri giorni. La corrispondenza del senso negli effetti imitativi è essenziale per evitare dilettantismi e arbitrii nell’interpretazione, come è ampiamente dimostrato in Beccaria 1975.

B1) Le figure grammaticali

Le figure grammaticali furono considerate come pertinenti alla correttezza linguistica, rappresentando la deviazione consentita, al contrario del solecismo che era la sgrammaticatura da riprovare e da evitare. Esse sconfinano nelle ‘figure di parola’ (cfr. 2.17), che appartengono all’ornatus e sono classificate anche come ipallagi o enallagi (cfr. 2.17:[20]): fenomeni grammaticali e stilistici di “scambio” tra categorie (parti del discorso, genere, numero, caso, tempo, modo; cfr. Morier 19813:407-409 e 516-517). Tra le principali si elencano:

(i) l’uso di un aggettivo in funzione avverbiale (“camminava lento”); (ii) la concordanza di un singolare con un plurale (“la maggior parte di noi ritengono...”; “si rilevano, infatti, un numero relativamente limitato di eventi”;38

(iii) l’antiptòsi o scambio di casi: per esempio l’uso dell’accusativo di relazione (“sparsa le trecce...” anziché “con le trecce sparse”);

(iv) l’uso di tempi come il presente storico (cioè riferito al passato: “nel 1940 entra in guerra l’Italia”) e il presente con valore di futuro (“domani si parte”);

(v) l’uso dei modi: l’indicativo per il congiuntivo (“se venivi” anziché “se fossi venuto” ecc.);

(vi) rapporti sintattici incongruenti (“siete partiti e noi pure”, dove il verbo sottinteso da noi pure richiederebbe la prima persona plurale, in contrasto quindi con la seconda persona di siete partiti);

(vii) anomalie sintattico-semantiche: nomi impiegati come verbi (“chi vespa mangia le mele”), verbi intransitivi come transitivi (“B. frizza la digestione”); cambi arbitrari di genere; strutture ormai assorbite nella norma linguistica (“brindare + nome”; “votare + aggettivo”) ed espressioni idiomatiche quali “mettersi i guanti nelle mani”, ecc.

Gli schemi dei gruppi (ii), (iv) e (vi) sono tipi di sillepsi (cfr. 2.17:[22] e 3.2:B3).

Non sovrapponibile e solo parzialmente alternativa (nel senso e nei limiti in cui lo sono le rispettive teorie) a una classificazione di “figure grammaticali” è la descrizione perelmaniana delle “modalità nell’espressione del pensiero” (TA 162-172), centrata sul “ruolo argomentativo” di forme grammaticali e schemi sintattici (negazione, connettivi, subordinazione, interrogazione, uso di tempi e modi, pronomi ecc.) che manifestano l’atteggiamento del parlante di fronte alla realtà e ai “dati del discorso”.

Della negazione si sottolinea la natura dialettica (“la negazione è una reazione ad una affermazione reale o virtuale di altri”) (TA 163). La funzione dei connettivi, limitatamente ad alcune congiunzioni coordinanti (e, o, , dunque), è inserita nel quadro dei rapporti di coordinazione e di subordinazione, che esprimono la “gerarchia dei valori” attribuita agli oggetti del discorso. Sulla scorta di Auerbach, è rilevato il “carattere strategico della costruzione che stabilisce relazioni precise fra gli elementi del discorso e che è stata qualificata ipotattica” (TA 166); a questa si contrappone la paratassi, che rinuncia a gerarchizzare le parti del discorso:

La costruzione ipotattica è la costruzione argomentativa per eccellenza [...]. L’ipotassi crea dei quadri, costituisce una presa di posizione; essa impone al lettore l’obbligo di vedere alcune relazioni, limita le interpretazioni che egli potrebbe prendere in considerazione, si ispira al ragionamento giuridico ben costruito. La paratassi lascia maggior libertà, non sembra voler imporre alcun punto di vista; è proprio perché paratattica, che la frase composta, bilanciata, degli scrittori inglesi del XVIII secolo dà [l’impressione di essere] descrittiva, contemplativa, imparziale.

(TA 166-167)

L’interrogazione è considerata come tecnica dialettica sia nel ragionamento filosofico (ad es. nei dialoghi socratici), sia nella prassi giudiziaria:

Talvolta l’uso dell’interrogazione suppone una confessione su un fatto reale, sconosciuto a chi rivolge la domanda, ma del quale si presume l’esistenza unitamente a quella delle sue condizioni. “Che avete fatto quel giorno in quel luogo?”, implica che l’interpellato si trovasse in un certo momento nel luogo indicato; rispondendo, egli ammette di essere concorde su questo punto.

(TA 167)

La domanda che si suol dire ‘retorica’ non è una richiesta di informazioni: è un invito a scartare tutte le possibili risposte discordanti dall’asserzione implicita nella domanda (“Chi oserà sostenere l’utilità di una guerra nucleare?” = “Nessuno oserà sostenere...”). Da questo punto di vista l’interrogazione è un giudizio. Ci sono poi domande in risposta ad altre domande (e a questo proposito esistono tipologie più variegate di quanto non appaia dai cenni perelmaniani).39

Le osservazioni (che si trovano in TA 169-172) sull’uso argomentativo di tempi verbali (ad es. sui molteplici valori del presente), di articoli e dimostrativi, di pronomi (del si impersonale come ostentazione di obiettività, di distacco, e con l’effetto di diminuire, in un giudizio, la responsabilità del soggetto enunciante) anticipano, in parte, acquisizioni recenti degli studi grammaticali e pragmatici sugli elementi detti ‘orientativi’ o ‘deittici’: che fanno diretto riferimento alla situazione del discorso (parlante, interlocutore presente o assente, coordinate spazio-temporali) e possono essere interpretati solo in riferimento a questa (ad es.: io designa la persona del parlante, di colui che dice “io”; questo indica vicinanza a chi parla; qui, oggi, ieri, domani ecc. possono essere interpretati solo in relazione o al luogo o al momento dell’enunciazione).

2.13. Il dominio della perspicuitas

L’essere chiaro e comprensibile, per il discorso indirizzato a un uditorio particolare, è una qualità soggetta alla valutazione di chi ascolta: si è o non si è chiari per, si è o non si è comprensibili a, coloro a cui si parla. Diversamente dalla puritas, per cui esisteva una base grammaticale obiettiva per riconoscere ciò che era vietato e ciò che era permesso, la perspicuitas e i suoi contrari venivano definiti, dalla precettistica dell’arte oratoria, in base al criterio principe dell’adattamento all’uditorio. L’oscurità totale era considerata il massimo “errore per difetto” contro la perspicuitas. Era “totalmente oscuro” il discorso che risultava incomprensibile, o perché composto in una lingua ignota agli ascoltatori, o perché pronunciato con insufficiente volume di voce, con una dizione confusa ecc. Un giudizio, come si vede, relativo alla situazione contingente del parlare. Se dall’oratoria si passava alla poesia, e dalla retorica alla poetica (o meglio, dalla teoria e dalla precettistica dell’argomentazione alla retorica sottesa alla poetica), intervenivano criteri più legati alla costituzione interna dei testi. Più facilmente si era disposti a riconoscere lecita l’oscurità indotta da ragioni letterarie o da convenzioni proprie di generi testuali (religiosi, profetici, magici ecc.) o anche dagli scopi della comunicazione. Come esempio di oscurità totale si cita il dantesco “Pape Satàn pape Satàn aleppe”.

Nella sintassi l’oscurità totale era detta sìnchisi (mixtura verborum, “mescolanza di parole”) o ‘costruzione caotica’: l’ordine normale è sovvertito con anticipazioni, posposizioni o interpolazioni di membri (uso dell’anastrofe e dell’iperbato: cfr. 2.17:[24] e [25]). Biasimata come errore nella prosa espositiva, la sinchisi diventava un ingrediente prezioso della poesia.

“Parziale” era giudicata l’oscurità prodotta dall’anfibolìa, “ambiguità di senso” (come errore e come licenza), da cui l’anfibologìa: discorso reso ambiguo dalla presenza di termini o di costrutti grammaticali che si possono interpretare in modi diversi e contrastanti. L’equivoco può nascere dall’uso sia di parole polisemiche (con più significati differenti), sia di omonimi (cfr. più avanti). Pur avendo lo stesso etimo, sono lessemi diversi, per esempio porta come voce verbale e porta come nome comune; la articolo femminile e la pronome; sbarra, sostantivo e verbo. La frase: “Una vecchia porta la sbarra” ha due letture possibili, secondo i valori assegnati ai tre vocaboli; e secondo che si consideri vecchia come sostantivo o come aggettivo (ambiguità di costruzione grammaticale). Uno sfruttamento sistematico di questo tipo di equivocità si ha nei crittogrammi sinonimici; da Manetti e Violi 1977 si prendono i seguenti esempi:

lacrimata salma > pianta spoglia

redditi netti > entrate pure

Più comunemente l’anfibologia è intesa come collocazione equivoca di parole nelle frasi:

Ero allibito nel vedere come picchiavano quei ragazzi (“come quei ragazzi picchiavano” o “come qualcuno li picchiava”?).

In quanto all’ambiguità sintattica come causa ed effetto di oscurità, si cita di solito come esempio classico la tattica di quei responsi oracolari ove il doppio accusativo latino, del soggetto e dell’oggetto, nelle frasi infinitive consente due letture opposte: aio te Romanos vincere posse può significare alternativamente: “dico che tu vincerai i romani” / “dico che i romani vinceranno te”.

L’eccesso nella ricerca della chiarezza era considerato, ed è, l’errore opposto. È variabile nell’entità, secondo i tipi di discorso. Si va dalla pedanteria di precisazioni superflue all’incapacità di sfruttare, nella narrativa (orale e scritta) come nella poesia, il potere evocativo del ‘non detto’.

Sono relazioni semantiche fondamentali quelle che impegnano le qualità richieste a un discorso per raggiungere la perspicuitas. Anche in questo caso il campo occupato dalle dottrine classiche appartiene, modernamente, a discipline diverse (semantica, filosofia del linguaggio, pragmatica). Qui basterà dare un’indicazione sommaria dei principali argomenti dei quali oggi chi ‘fa retorica’ non si assumerebbe in proprio una sistemazione, ma, ovviamente, ricorrerebbe alle teorie e alle terminologie elaborate nei diversi ambiti specialistici.

Gli antichi manuali di retorica classificavano in base alla univocità e ai suoi opposti i rapporti sia tra i nomi e le entità designate, sia tra “ciò che intendono per...” da una parte il parlante e dall’altra l’ascoltatore.

La chiarezza sarebbe garantita in assoluto se esistessero solo “rapporti univoci”: se a ogni entità nominata corrispondesse una sola denominazione e se questa fosse intesa (interpretata) allo stesso modo da chi parla e da chi ascolta (rapporto “univoco individuale”). Qui si innesta la questione dei nomi propri, campo di battaglia dei filosofi del linguaggio; si innesta pure l’assurdo ipotizzabile di una lingua ove ciascuna “cosa individuale” avesse un “nome univoco individuale”. Uno strumento siffatto sarebbe inservibile per la comunicazione, che funziona in base al principio dell’economia linguistica. Meglio avere relativamente pochi elementi da combinare per moltiplicare i possibili risultati (si pensi al numero limitato, benché variabile da lingua a lingua, dei fonemi che con le loro combinazioni consentono di formare un numero illimitato di parole): il contesto verbale e la situazione comunicativa lasceranno margini tutto sommato irrilevanti all’ambiguità e all’incomprensione, sempre che la combinatoria sia corretta e le capacità di produrre messaggi siano integre.

La questione dell’univocità considerata nell’uso effettivo dei nomi propri e dei nomi comuni investe quindi la possibilità di sostituire gli uni e gli altri con pronomi. Si entra nel dominio degli studi linguistici – particolarmente di linguistica testuale – dedicati a temi di cui si citano qui appena i principali: sostituzioni (sistema e uso delle ‘proforme’; anafora, cioè la relazione, che si instaura in un testo, fra due espressioni, una delle quali è la ripresa dell’altra, che generalmente la precede ed è perciò detta antecedente; tale fenomeno è diverso da quello che si vedrà più avanti in 2.17:[5], sotto lo stesso titolo, come figura retorica); riferimento e deissi (particolarmente l’uso di articoli, pronomi personali, dimostrativi, comprendenti pronomi e avverbi).

La categoria della sostituzione (immutatio) è impiegata, nei modelli classici, per definire i tropi (cfr. qui 2.16). La sua azione si estende ai rapporti “non univoci”, che modernamente si classificano come: omonimia (identità di forma, diversità di etimo, cioè di origine, e di significato), comprendente omografi non omofoni (parole che si scrivono allo stesso modo e si pronunciano in modo diverso: per esempio àncora / ancóra; sùbito / subìto), omofoni non omografi (italiano: , “giorno” / di’, imperativo di dire; francese: au, “al” / eau, “acqua” / haut, “alto”; inglese: sun, “sole” / son, “figlio”), omografi omofoni (tèssere, verbo / tèssere, plurale di tèssera); polisemia (più significati per la stessa espressione); sinonimia (equivalenza di significato in parole diverse), della quale si riconoscono vari gradi: dalle poche parole intercambiabili (tra / fra) ai cosiddetti quasi-sinonimi, che si equivalgono solo in determinati contesti (ad es. uscita / spesa); antonimia (antònimi sono i contrari, come bello / brutto); iper- e iponimia (albero è iperonimo, o sovraordinato, a pioppo, gelso, abete ecc. che sono i suoi iponimi).40

Il tema della chiarezza espressiva è particolarmente importante per le tecniche dell’argomentazione. Se ne resero perfettamente conto i retori antichi, disposti ad accordare più facilmente licenza alla poesia, oggetto polimorfo, che può derivare non poco del suo potere di fascinazione dalla obscuritas. Questa può diventare anzi un contrassegno rispetto alla comunicazione pratica: dove l’essere chiari serve, se non altro, a evitare equivoci e incomprensioni. La tendenza a riconoscere al parlare oscuro un valore poetico, quasi di ispirazione divina, o di un ‘parlare in sogno’, ha avuto i suoi oggetti privilegiati non solo nella poesia come forma letteraria, ma anche negli aforismi di pensatori (Eraclito, per esempio).

La cura di sceverare gradi e forme di oscurità devianti, mostrando quali siano incompatibili con gli scopi del discorso di parte, è conforme ai principi della tradizione retorica. Secondo Perelman e Olbrechts-Tyteca – la cui teoria dell’argomentazione ha inteso rappresentare una “rottura” rispetto alle concezioni cartesiane della ragione e del ragionamento che hanno dominato gli studi occidentali negli ultimi tre secoli (base dell’ordine razionale e requisito indispensabile alla conoscenza, le idee “chiare e distinte”) – devono essere “le esigenze dell’adattamento all’uditorio a guidare nello studio dell’ordine del discorso” (TA 531); perciò il problema della chiarezza e dell’oscurità trova posto nel loro trattato solo per quanto concerne l’interpretazione dei testi. Appoggiandosi a un’osservazione di Locke, essi affermano:

Il più delle volte l’impressione di chiarezza, legata all’univocità, deriva dall’ignoranza o da una mancanza di immaginazione [...]. La chiarezza di un testo è condizionata dalle possibilità di interpretazione che esso presenta; ma perché l’attenzione sia attratta dall’esistenza di interpretazioni diverse, occorre che le conseguenze derivanti da una di esse differiscano in qualche modo da quelle che derivano da un’altra; può accadere che la differenza sia percettibile soltanto in un contesto particolare. La chiarezza di un testo o di una nozione non può dunque mai essere del tutto assicurata, se non convenzionalmente, limitando volontariamente il contesto entro il quale l’interpretazione avviene.

(TA 132-133)

Esulerebbe dai compiti del presente manuale estendere il discorso all’ermeneutica. Piuttosto, sarà opportuno un cenno alle periodicamente risorgenti questioni del ‘parlare chiaro / parlare oscuro’, che sembrano interessare l’opinione pubblica quando sono messi in causa i discorsi dei politici, la divulgazione giornalistica, i linguaggi specialistici. Per quanto riguarda questi ultimi, di solito si tende a confondere l’oscurità con le difficoltà causate al profano da una materia complessa, scientifica o tecnica, e perciò difficile da capire, specialmente quando sia esposta con precisione scientifica o tecnica, appunto, cioè con espressioni il più possibile univoche.

Le dispute sull’oscurità del ‘parlar difficile’ e sulla difficoltà del ‘parlar chiaro’ (la prima, avvertita dall’ascoltatore o lettore, la seconda da chi parla o scrive) mostrano come sia problematico trattare l’una e l’altra in assoluto; e come possa essere fruttuoso un punto di vista pragmatico (retorico), che esamini gli oggetti del discorso in relazione a tutti i fattori della comunicazione (partecipanti, conoscenze condivise, situazione spazio-temporale, scopi, presupposizioni ecc.).

Per concludere con un ammonimento di Calvino:

quando le cose non sono semplici, non sono chiare, pretendere la chiarezza, la semplificazione a tutti i costi, è faciloneria, e proprio questa pretesa obbliga i discorsi a diventare generici, cioè menzogneri. Invece lo sforzo di cercare di pensare e d’esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l’unico atteggiamento onesto e utile.

(Calvino, UPS 307)

2.14. L’ornatus

Benché compreso tra le virtù oratorie, l’ornatus richiede una trattazione separata, per l’ampiezza abnorme delle articolazioni e per gli sviluppi storicamente autonomi che arrivarono a trasformare la retorica in una teoria dell’ornatus.

Ci sia consentita una citazione da Lausberg (1969:99):

L’ornatus deve la sua definizione alle preparazioni che servono ad ornare la tavola di un banchetto: il discorso stesso viene concepito come pietanza da consumare. A questa sfera di immagini appartiene anche la definizione dell’ornatus come condimento (condita oratio, conditus sermo). Ad altre sfere di immagini appartengono gli altri termini abituali di “fiori” del discorso (verborum sententiarumque flores) e di “luci” del discorso (lumina orationis). Anche color (colore) viene usato per definire l’ornatus.

Lausberg nota poi che l’idea di ‘condimento’ è prevalentemente associata al motto di spirito, per cui si parla di “sale” in greco, in latino, in italiano (cfr. pure “parole salaci”), in francese, in spagnolo, in inglese. Si aggiunga che il verbo ornare, in latino, ha anche il significato di “munire”, “rivestire di armi”, “allestire” (un esercito, una flotta): oltre all’idea di abbellimento l’ornatus richiama anche la prerogativa dell’“essere agguerrito”.

Procediamo, come al solito, per sommari e schemi.

Tipi e qualità dell’ornato (vigoroso, attenuato, elegante, nobilmente ricercato, spiritoso, arguto, ampio, accuratamente preciso, maestoso, facile, difficile) verranno chiariti più avanti (cfr. 2.21) nella parte dedicata agli stili (genera elocutionis).

Errori: per difetto, l’insufficienza, che produce un discorso disadorno (oratio inornata); per eccesso, la ridondanza o sovrabbondanza, che produce una forzata e leziosa ricercatezza (mala affectatio) (cfr. fig. 1).

L’ornatus può riferirsi sia alle idee sia alla loro espressione linguistica. Avremo perciò figure di pensiero e figure di parola. Da queste ultime (dette poi dai latini exornationes verborum) già la teoria stoica separava i tropi, come fatti di significazione, in quanto sostituzioni di singole parole, e riguardanti il significato delle medesime (senso proprio / senso figurato).

Tutte le sistemazioni tradizionali dell’ornatus sono fondate sulla distinzione preliminare tra parole singole e gruppi (o connessioni) di parole. Al primo insieme appartengono i sinonimi e i tropi; al secondo le figure di parola e di pensiero. Ciò che varia da un modello all’altro sono le procedure e le suddivisioni, stabilite sulla base di categorie che non sono le stesse nelle diverse classificazioni.

Il seguente schema rappresenta la sistemazione di Lausberg (19732 e 1969):

f199-1

Figura 3 - Sistemazione lausbeghiana dell’ornatus secondo le 4 categorie del mutamento.

2.15. Sinonimi. Metalepsi

Dei sinonimi la retorica classica, come si è visto poco fa, tratta a proposito dei “rapporti non univoci” sia tra i significati delle parole sia fra la produzione e la ricezione delle stesse. L’uso dei sinonimi è considerato come un procedimento di sostituzione della “parola propria e univoca”.

Come elementi dell’ornatus i sinonimi concorrono a soddisfare il desiderio dell’inatteso da parte del destinatario, introducendo novità e variazioni a vantaggio della ricchezza espressiva. Usare uno o più sinonimi al posto di un dato termine serve a molti scopi: per attenuare un’espressione o per renderla più colorita o più precisa; per uniformare le scelte lessicali ai registri, al ritmo e alle cadenze del discorso; per evitare rime fastidiose in prosa e cacofonie; per eliminare ripetizioni non necessarie; e l’elenco potrebbe continuare, contemplando esigenze di nitidezza e di eleganza formali e opportunità pragmatiche.

Tali considerazioni occupano, tradizionalmente, le precettistiche dello stile e, variamente atteggiate, si ritrovano nella didattica linguistica di ogni tempo e paese. La loro applicazione appartiene al bagaglio di esperienze di chiunque abbia pratica dello scrivere, e del parlare sorvegliato.

La funzione argomentativa delle scelte sinonimiche è trattata da Perelman e Olbrechts-Tyteca (TA 151-159) come aspetto della “presentazione dei dati” in forme adatte ad attirare e a concentrare l’attenzione dell’uditorio su determinati argomenti. I sinonimi non sono intercambiabili se hanno funzionalità argomentativa. Questa si misura sulle differenze che le variazioni di espressione hanno rispetto alla “espressione che passa inosservata”. È un criterio molto elastico, di cui si può discutere la vaghezza, ma che serve certamente di più delle distinzioni scolastiche basate su giudizi di valore (discorso “obiettivo, neutro” contrapposto a “descrittivo, sentimentale, commovente” ecc.).

Tra le manifestazioni della sinonimia Lausberg registra la metalepsi o metalessi (gr. metálēpsis, “partecipazione”, “scambio”, “trasposizione”; lat. transumptio),41 e precisamente quel tipo di metalepsi che consiste nell’usare un sinonimo come tropo: nel fare, cioè, una trasposizione di significato, tale da produrre un’improprietà contestuale.

Tra i rari esempi classici si ricorda il nome Hssōn attribuito al centauro Chirone (in greco Chéirōn). I due nomi hanno rispettivamente la stessa forma degli aggettivi hssōn e chéirōn, che significano entrambi “inferiore, soccombente”. L’improprietà è data dal trasporre la sinonimia alla classe dei nomi propri che, in quanto nomi individuali, non hanno sinonimi: non è infatti indifferente chiamare Candida una che si chiami Bianca, o Felice uno che si chiami Fortunato o Prospero; non lo è dal punto di vista filosofico di una teoria dei nomi propri, e non lo è neppure nella comunicazione pratica, nei documenti ufficiali ecc. (c’è una normativa giuridica a tutela dell’integrità di un nome registrato all’anagrafe).

Su questa specie particolarissima di improprietà giocano umoristi e poeti; e non sono pochi gli pseudonimi alla cui origine sta una metalepsi.

Oltre alla sinonimia (e all’omonimia), in questa concezione della metalepsi è in gioco la polisemia. Molte sono le parole che possono avere più sensi; per ognuno di questi esistono serie di sinonimi che non sono a loro volta sinonimi dei termini di un’altra serie. Per esempio, spirito, parola polisemica, può avere come sinonimi, da un lato alcool, dall’altro fantasma (per citare solo due tra le serie possibili), che non sono tra loro sinonimi. Uno sfruttamento ‘tropico’ di tali effetti di ‘sinonimia equivoca’ si trova nei giochi di parole impiegati in motti di spirito, in barzellette e nell’enigmistica (cfr. il gioco enigmistico detto ‘polisenso’ e l’omonima figura).

La metalepsi come errore può occorrere nella traduzione, specie nella traduzione automatica, di cui rappresenta, anzi, uno degli scogli più difficili da aggirare. È caratteristica anche di certi calchi: per esempio il nome latino del caso dell’oggetto diretto, accusativus (“accusativo”), è calco errato del greco aitiatik, da aitía, che significa “causa” e “accusa”; per un errore di interpretazione è stato preso il secondo, e non il primo dei significati, come base per la trasposizione del termine in latino.

Secondo un’altra concezione, la metalepsi è un effetto presente attribuito a una causa remota, quando tra l’una e l’altro non ci sia collegamento diretto, ma si debba passare per uno o più anelli intermedi, che vengono omessi. Esempio classico l’espressione virgiliana post aliquot aristas col senso di “dopo alcuni anni”: arista significa “resta” (di grano), e si passa da “resta” a “spiga” a “grano” a “raccolto” a “estate” ad “anno” attraverso una serie di relazioni sineddochiche (la resta è parte della spiga e questa del grano; l’estate è parte dell’anno) e metonimiche (grano / raccolto / estate).42 Dello stesso genere è l’espressione proverbiale: “Sotto la neve, pane.

Una definizione abbastanza maneggevole di questo secondo tipo di metalessi potrebbe essere la seguente: sostituzione di un termine con un traslato prodotto da passaggi (impliciti) attraverso più nozioni che rimangono sottintese e che sono, l’una rispetto all’altra, sineddochi, metonimie, metafore, alternative o coesistenti.

Un esempio da un titolo di cronaca sportiva: “La valanga rosa è una frana”; dove valanga rosa sta per “squadra nazionale italiana femminile di sci”, con una sovrapposizione di campi simbolici relativi ai colori. Com’è noto, “azzurro” (che è il colore delle divise) compare in una grande varietà di espressioni metonimiche impiegate per designare le rappresentative italiane di ambo i sessi nelle gare sportive internazionali. Ma, in un diverso campo simbolico, “azzurro” sta a “rosa” come “maschile” sta a “femminile”.43 La metalessi nasce dallo sfruttamento della duplice valenza simbolica di azzurro che, rimanendo implicito, viene sostituito da un termine (rosa) usato contemporaneamente come sinonimo e come contrario. Si tralasciano qui le osservazioni sul valore metaforico di valanga e di frana.

Si trovano metalessi in espressioni proverbiali e in detti popolari come: “guadagnarsi il pane col sudore della fronte” (sudore ← fatica ← lavoro: eventualmente: lavoro remunerato → denaro; e ancora: fronte è sineddoche di “corpo”).

Secondo Fontanier (FD 127-128), la metalessi non va assimilata alla metonimia. Figura composta sempre di più proposizioni, essa consisterebbe nel “fare intendere una cosa per mezzo di un’altra, che la precede, la segue, l’accompagna, ne è un’aggiunta, una circostanza qualsiasi ecc.”. Fontanier esemplifica questa figura, così intesa, su passi di Racine (ad es. quelli in cui Fedra parla di Teseo, delle sue qualità e imprese in modo che Ippolito possa riconoscere se stesso sotto le specie di Teseo). Potremmo ricondurre a questo tipo di metalepsi l’invenzione letteraria del ‘personaggio-schermo’, ma anche le forme sia popolari sia letterarie dell’allusione (2.18:[23]): del proverbiale “parlare a nuora perché suocera intenda”, di cui citiamo un bel riuso saggistico:

un romanzo [I promessi sposi] ove la componente indipendentista è stata avvertita già prima del ’40, checché ne abbia dipoi opinato il Carducci: romanzo che dice di nuora (Spagna) perché di suocera si possa intendere (Austria).

(Gadda, TeO 32)

Secondo Perelman e Olbrechts-Tyteca (TA 192), la metalepsi funziona come accorgimento per tramutare un giudizio di valore nella constatazione di un fatto: “Egli dimentica i benefici” per “non è riconoscente”; “non vi conosco” per “vi disprezzo”. Si richiama l’attenzione su fatti (il dimenticare una cosa; il non conoscere una persona) per suggerire una valutazione. Non era molto lontano dall’intuire ciò Fontanier quando asseriva (FD 133) che la litote (cfr. qui 2.16:[8]) è una specie particolare di metalepsi.

Riportata la figura alla generalità del ‘dire una cosa per farne intendere un’altra’, si capisce come essa si presti allo sfruttamento comico. Quintiliano riferisce la risposta di un cavaliere romano ad Augusto, che gli rimproverava di dilapidare il patrimonio: “Credevo che fosse mio”, fingendo di intendere (come si osserva in TA 192) che il rimprovero partisse da un errore di fatto.

Fontanier riteneva inoltre di poter parlare di metalessi quando uno scrittore abbandona il suo ruolo di ‘narratore dall’esterno’ per presentarsi come testimone o come partecipe delle vicende raccontate. Nelle moderne teorie della letteratura si parlerebbe, per i casi intravisti dal retore francese, di mutamenti della posizione assunta dall’autore rispetto alla sua materia; si parlerebbe di distanza da cui questi narra o descrive fatti e personaggi, secondo la complessa problematica degli studi sul ‘punto di vista’. Altri esempi di Fontanier indurrebbero addirittura ad assimilare la sua concezione della metalepsi a ciò che oggi si intende per polifonia testuale.44

Da quanto detto, la metalepsi più che una figura appare come una combinazione o un luogo di incontro di figure (sineddoche, metonimia, metafora, litote, allusione, ironia...). Il senso generale, e generico, di “trasposizione” manifestato dalle denominazioni greca e latina fa sì che i suoi contorni sfumino nella proprietà comune a tutto il discorso figurato: dire una cosa per un’altra; condizione simile a quella della metafora, di cui la metalessi può constare, rimanendo tuttavia, a paragone di quella, niente più che un contenitore; o un dispositivo che, per funzionare, deve essere messo in moto da altre figure.

2.16. Tropi

Il termine greco trópos, da cui il latino tropus, significa “direzione”; donde la svolta di un’espressione che dal suo contenuto originario viene diretta (‘deviata’) a rivestire un altro contenuto.

La definizione tradizionale di tropo ricalca quella quintilianea di sostituzione (mutatio o immutatio) di espressioni proprie con altre di senso figurato (non-proprio). Tropo e traslato sono denominazioni diverse per lo stesso fatto retorico: la trasposizione (il trasferimento) di significato da una a un’altra espressione. Secondo una distinzione classica già ricordata, il tropo, rispetto al termine proprio, rappresenta la licenza; errore è l’improprietà ingiustificata.

Alle attuali concezioni dei tropi è sottesa l’idea che questi siano ‘anomalie semantiche’: irregolarità di significato incompatibili coi normali criteri di interpretazione dell’esperienza. Qualsiasi combinazione inaspettata di concetti potrebbe costituire un tropo; è indifferente la possibilità di farlo corrispondere a una delle etichette che tradizionalmente contrassegnano gli usi figurati della lingua (esempi: “un’indigestione meravigliosa”, “mi piaci da vivere”, al posto dell’iperbolico e prevedibile “mi piaci da morire”). Un tropo coinciderebbe dunque con una rottura delle attese alle quali il contesto ci indirizza.45

Nella tradizione retorica variano sia il numero sia l’identificazione dei tropi. La Rhetorica ad Herennium annovera dieci “figure di parola” (exornationes verborum) separate dalle altre “proprio perché sono tutte di uno stesso tipo”, avendo in comune la proprietà di “allontanarsi dal senso usuale delle parole e portare il discorso a un significato complessivo diverso con una certa eleganza”:46 onomatopea, antonomasia, metonimia, perifrasi, iperbato (inversione e trasposizione), iperbole, sineddoche, catacresi, metafora, allegoria.

Quintiliano cataloga tredici tropi (metafora, sineddoche, metonimia, antonomasia, onomatopea, catacresi, metalepsi, epiteto, allegoria, ironia, perifrasi, iperbato, iperbole), dopo aver dichiarato, col suo solito buonsenso:

[riguardo ai tropi] i grammatici sostengono tra loro e coi filosofi un’interminabile discussione sui generi, sulle specie, sul numero e sulla loro interdipendenza. Noi, messe da parte le cavillazioni, [...] tratteremo dei tropi più necessari e più usati, contentandoci [...] di rilevare [...] che per mezzo loro si cambiano le forme non solo delle parole, ma anche dei pensieri e della composizione.

(Inst, orat., VIII, 6, 1-2)

Tra i moderni, Arbusow (19632) enumera ben sedici tropi, includendo nel numero, oltre a quelli censiti nella Rhetorica ad Herennium (con l’esclusione, però, dell’onomatopea), la personificazione o prosopopea, l’allusione, la litote, l’ironia e l’antifrasi, l’ossimoro, l’antitesi, la permutazione; li descrive a uno a uno, con una ricca esemplificazione da testi classici e medievali, ma non li dispone in una tassonomia che li raggruppi secondo categorie e procedure.

Nella tradizione francese, prima del tentativo innovatore di Fontanier, il numero dei tropi si aggirava sulla decina. Lamy, tanto per fare un esempio, registra, sostanzialmente, le figure della Rhetorica ad Herennium, tolte l’onomatopea, la perifrasi e l’iperbato, e aggiunte la litote, l’ironia e l’antifrasi. Nel trattato di Fontanier, come già si è detto, l’impegno tassonomico è notevolissimo. Le sette classi delle sue “figure del discorso”, che vogliono comprendere tutte le manifestazioni dell’ornatus, sono riunite in due gruppi: i tropi e i “non-tropi” (cfr. fig. 4).

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Figura 4 - Le 7 classi delle figure del discorso di Fontanier.

Il primo raggruppamento comprende due sottogruppi: i tropi veri e propri, che si manifestano “in parole singole” e costituiscono la classe delle figure di significazione; i tropi impropriamente detti, che si manifestano “in più parole” e sono le figure di espressione.

I tropi veri e propri possono esibire o un senso figurato o un senso puramente estensivo. Nel primo caso si tratta di figure vere, a tutti gli effetti, che meritano pienamente il titolo di “figure di significazione”, perché sono il risultato di un nuovo modo di significare da parte della parola in cui consistono. Nel secondo caso si tratta di catacresi (cfr. poco più avanti), cioè di estensione abusiva (in latino: abusio) del senso. Fontanier ricupera elegantemente l’intuizione (che già avevano avuto le scuole antiche, dagli stoici a Quintiliano) del ruolo dei tropi nella produzione di significati nuovi; distinguendo tra uso figurato e uso estensivo applica una categorizzazione che ancor oggi vive nella nomenclatura definitoria (nel metalinguaggio) dei dizionari di lingua.

Lo schema seguente riguarda le suddivisioni della prima classe:

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Figura 5 - I tropi nella classificazione di Fontanier.

Le procedure ipotizzate da Fontanier per classificare e descrivere i tropi aderiscono, sia pure in modo alquanto approssimativo, alle nozioni che tradizionalmente sono servite per definire la metonimia, la sineddoche e la metafora. La novità rispetto ai cataloghi classici sta nell’aver trattato a parte queste tre figure, avendone intuito lucidamente i reciproci rapporti.

Lausberg (1969:102-130) elenca dieci tropi, compresa nel numero la metalepsi, già descritta sotto i sinonimi. Gli altri nove sono suddivisi in due categorie maggiori, secondo che la “sfera semantica”, a cui appartiene il traslato, confini o no e abbia o non abbia un qualche collegamento diretto con quella del termine proprio che viene sostituito. Nel primo caso si hanno tropi “per spostamento di limite”, cioè di confine tra i due campi; nel secondo caso si ha un “salto” (una “dislocazione”) dall’una all’altra sfera (cfr. fig. 5). La prima categoria è ulteriormente suddivisa in due sottogruppi, secondo che il confine venga spostato entro o oltre il campo occupato dalla nozione che il termine proprio esprime. Per esempio, nel caso della perifrasi o circonlocuzione (tropo appartenente al primo sottogruppo) il limite fra il significato di un termine come contadino e quello della sua perifrasi sostitutiva lavoratore dei campi viene spostato entro il “campo concettuale” in cui si inscrive il contenuto dell’una e dell’altra espressione (cfr. fig. 6).

Lausberg distingue preliminarmente i “gradi di abitualizzazione” dei tropi a partire dal giudizio di “priorità” inventiva. Un tropo può essere creato all’istante in un discorso e perciò essere usato davvero per la prima volta; ma può anche essere ritenuto originale semplicemente perché recepito per la prima volta da un determinato uditorio. L’originalità di un tropo, come di qualsiasi figura retorica, si misura in rapporto al contesto e alla situazione, oltre che all’intertesto, cioè all’insieme delle produzioni che hanno qualche legame (tematico, di genere ecc.) col testo / discorso a cui appartiene il tropo in questione e, a voler essere eccessivi, oltre all’intera ‘biblioteca’ di una o più culture. A una priorità in assoluto (cioè riconoscibile universalmente come tale) che si può ipotizzare solo in teoria, si accompagnano priorità relative alla competenza degli interpreti, all’uso in circostanze determinate, alla reinterpretazione di figure già note in situazioni diverse.

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Figura 6 - I tropi nella classificazione di Lausberg.

Contribuisce alla “abitualizzazione” di un tropo la sua fortuna: la sua diffusione in più generi e tipi di discorso o presso determinati gruppi sociali. Vi contribuisce in modo ancora più massiccio la “necessità”, dovuta sia a censura verbale (un termine proprio è sostituito da perifrasi o metafore eufemistiche), sia a quella che alcuni linguisti (ad es. Charles Bally) hanno teorizzato come “mancanza” o “insufficienza” nel lessico di una lingua: quando si deve designare un certo oggetto o nozione per cui una lingua non dispone di un vocabolo specifico, si ricorre o a un neologismo o all’uso estensivo di un termine già esistente nella lingua medesima. Il collo della bottiglia, le gambe del tavolo, il letto del fiume, la cresta e la catena delle montagne sono estensioni dell’uso di parole che designano parti di individui, oppure oggetti, diversi da bottiglie, tavoli, fiumi, montagne. È un uso ‘deviato’, un abuso: tale è il senso del già ricordato termine latino abusio, calco del greco katáchrēsis, da cui l’italiano catacrèsi (o catàcresi).47

La catacresi è fattore importante nella costituzione del lessico di una lingua. È origine di polisemia e, per l’aspetto che le è stato attribuito di rimedio a una inopia lessicale, essa risponde a un’esigenza di economia: si usufruisce del già esistente anziché introdurre neoformazioni.

Altra cosa dalla catacresi sono i traslati non più tali: metafore (ma anche sineddochi, metonimie, iperboli...) spente, riconoscibili soltanto nel loro passato valore per mezzo dell’etimologia.

Il termine latino testa (da cui deriva la parola italiana corrispondente) significava, originariamente, “guscio di tartaruga”; per estensione passò a designare un qualsiasi recipiente cavo e in particolare una “pentola di coccio”; di qui divenne metafora per caput. L’origine metaforica di testa è reperibile soltanto attraverso la storia della parola e non nel confronto sincronico con il sinonimo capo.

Gli attuali capo e testa hanno un impiego catacretico parallelo in espressioni come: “a capo di...”, “alla testa di...”, dove sono, in una certa misura, intercambiabili. Non lo sono più in catacresi come: “essere il capo di (un governo, un’associazione ecc.)”; “capofamiglia”, “caposquadra”, “caposcuola” ecc.; “testa di ponte”, “vettura di testa”, “testa del mattone” e così via.

Una catacresi o una metafora (metonimia, sineddoche ecc.) spenta possono sempre essere rivitalizzate: in poesia, nei giochi di parole, nel racconto fantastico (favole in cui i denti del pettine mordono, il cane del fucile abbaia, lo zoccolo delle pareti scalcia), nella creazione simbolica, nell’invenzione estemporanea del discorso quotidiano, in generi e forme svariate, insomma, della comunicazione letteraria e non letteraria e perfino in convenzioni culturali, mode, atteggiamenti (si pensi, per esempio, alla pruderie vittoriana, disturbata dalla vista delle gambe ‘nude’ del tavolo...).

Nel seguente esempio (uno sfogo umorale, in pagine di appunti, aforismi e frammenti vari) è fatta rivivere l’antica metonimia di lingua come organo della fonazione, per il prodotto che ne risulta: la “lingua” nel senso di “idioma”:

La lingua italiana non è adatta alla protesta alla rivolta alla discussione dei valori e delle responsabilità, è una lingua buona per fare le domande in carta da bollo, ricordi d’infanzia, inchieste sul sesso degli angeli e buona, questo sì, per leccare. Lecca, lecca, buona lingua italiana infaticabile fa’ il tuo lavoro per il partito o per i buoni sentimenti...

(Flaiano, OSP 401)

Da una boutade in un discorso qualsiasi, dove la “cresta della montagna” (catacresi di cresta come “formazione carnosa, laminare o di piume sul capo degli animali”) riacquista valore metaforico, e pazienza se il tramite è uno stereotipo abbastanza raffermo:

Guarda un po’ che cresta ha messo su quella montagna, da quando nessuno riesce più ad arrivarci!

Sulla catacresi rivelatrice dei ‘modelli metaforici’ che servono a classificare l’esperienza si tornerà più avanti, al [3].

La seguente rassegna comincerà con le tre figure descritte come tropi sia da Lausberg sia da Fontanier. Seguiranno le sei rimanenti nel sistema di Lausberg, e si darà poi notizia del posto che esse hanno nella tropologia di Fontanier, di cui si esamineranno pure i “tropi impropriamente detti, o figure di espressione”.

[1] La metonìmia o metonimìa (gr. metonymía “scambio di nome”; hypallag “scambio”; lat. metonymĭa, denominatio) tradizionalmente è stata fatta consistere nella designazione di un’entità qualsiasi mediante il nome di un’altra entità che stia alla prima come la causa sta all’effetto e viceversa, oppure che le corrisponda per legami di reciproca dipendenza (contenente / contenuto; occupante / luogo occupato; proprietario / proprietà materiale o morale ecc.).

Le relazioni che definiscono la metonimia rispetto agli altri tropi riguardano campi concettuali contigui e per qualche aspetto interdipendenti (ad es. alla nozione di “opera” corrisponde ed è contigua quella di “autore”; alla nozione di “proprietario” quella di “cosa posseduta”), come mostrano sia la qualifica data da Fontanier alle varie specie di metonimia (“figure di significazione, per corrispondenza”), sia la nozione lausberghiana dello spostamento di limite fra nozioni espresse da parole “semanticamente vicine”.

I principali tipi metonimici rispondono ad alcune delle domande relative ai loci (è naturale che questi ultimi, come ingredienti dell’inventio, che è la fase del ‘ritrovamento’ delle idee, servano a riconoscere le corrispondenze costitutive di una data espressione): “per opera di chi? perché?” (rapporti causa / effetto e viceversa), “dove?” (metonimie del luogo, di contenente e contenuto), “in che modo?” (relazioni tra qualità e portatori delle stesse).

Si designa l’effetto per mezzo della causa quando si nomina: l’autore per l’opera:

ascoltare Mozart; leggere Leopardi

il produttore per il prodotto:

un Martini; un Borsalino

il proprietario per la cosa posseduta:

Mario è sempre avanti di un quarto d’ora (per: “l’orologio di Mario...”)

il patrono per la chiesa ecc.:

in San Pietro

la divinità mitologica per i suoi attributi o la sua sfera d’influenza:

Bacco, per “vino”; Venere, per “amore”

e, propriamente, “la causa per i suoi effetti”, i mezzi che procurano qualcosa per i risultati che ne derivano:

Lei con le case male allineate / sbocconcellate ma talvolta / messe a nuovo dal vento / o da soldi arrivati col vento

(Zanzotto, Andar a cucire, II, 5-8)

Si designa la causa per mezzo dell’effetto quando si parla, per esempio di gioia per “persona o cosa che dà gioia”, di fortuna o rovina per “circostanze o persone ritenute causa di fortuna o rovina”, e via dicendo.

Rapporti di interdipendenza in ambiti svariati sono quelli esibiti dalle metonimie del contenente per il contenuto:

bere un bicchiere

dello strumento per chi lo adopera:

una buona penna; il primo violino

del fisico per il morale:

cuore, per “sentimento”; cervello, per “senno, intelligenza”

della qualità per chi ne è fornito o dell’astratto per il concreto (bellezza, per “persona bella”; amicizia, per “amici”; arte, per “artisti” ecc.):

Tutti gli autori di trame sulla gioventù che lotta, che soffre, che ride, che ama volubilmente, sono pregati di ritirarle in segreteria. Motivo: non si fanno più.

(Flaiano, OSP 339)

Hoche, di umili origini ma nato a Versailles, allievo stalliere nelle scuderie della reggia, la rivoluzione lo trovò sergente, e lo fece in quattro e quattr’otto generale.

(Gadda, TeO 73)

del luogo per gli abitanti:

Nessuna città francese, priva ancora della lingua, ha mai portato le sue creazioni a Parigi, ‘ut videret quid vocaret ea’; ma viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa.

(Ascoli, Pr 10)

Che sarebbe avvenuto, in ordine alla parola italiana, se l’Italia si fosse potuta mettere, molto più risolutamente che pur non abbia fatto, per una via non disforme da quella che la Germania ha percorso?

(ivi, 17)

della località di produzione per il prodotto:

il Chianti, per “il vino prodotto nel Chianti”

della marca per il prodotto:

un’Aurora, per “una penna...”; una Fiat, una Volkswagen ecc.

Le convenzioni culturali sono ancora più evidenti nelle metonimie del simbolo per la cosa simboleggiata:

armi, per “guerra” (che può dar luogo anche a una metonimia dello strumento); croce o altare, per “religione”; alloro, per “gloria”

e delle divise per designare chi le porta:

le Camicie rosse per “i garibaldini”; i bianconeri, i granata, i giallorossi ecc. per “i giocatori” delle squadre contrassegnate dalle divise dei rispettivi colori

le denominazioni delle sedi per le istituzioni o gli organi di governo:

l’Accademia; il Vaticano; Montecitorio; Palazzo Chigi; la Casa Bianca; il Cremlino

Estensibile a piacere, l’ambito delle ‘metonimie del simbolo’ può comprendere, tra l’altro, i nomi degli esseri effigiati, imposti agli oggetti che ne recano le effigie:

il cicerone è il contrassegno (simile a una marca da bollo, col ritratto di Cicerone) da applicare sugli atti legali (il ricavato va alla Cassa di previdenza degli avvocati); il carlino, il napoleone, il luigi sono antiche monete; il Gronchi rosa è il noto, rarissimo esemplare di francobollo; i turet sono, a Torino, le fontanelle pubbliche con la cannella in forma di testa di toro. E l’etimologia di rubinetto ci riporta al francese robinet, da Robin, diminutivo di Robert, come era chiamato popolarmente il montone; una testa di montone sovrastava le fontane francesi.

La maggior parte delle espressioni fin qui citate sono catacresi di metonimie: ne fanno fede la possibilità stessa di riconoscerle fuori contesto e la frequenza dell’uso che le ha fissate senza alternative che non siano eventuali perifrasi. Alcune documentano il passaggio dal nome proprio al nome comune:48

raglan è diventato il nome di una particolare attaccatura di manica, per analogia con la sagoma di Lord Raglan, primo comandante inglese nella guerra di Crimea, che, amputato del braccio destro, portava un mantello a pellegrina. Così la giacca di maglia che si chiama cardigan deriva il suo nome da quello del conte di Cardigan, altro eroe della guerra di Crimea, celebre per aver guidato la “carica dei 600” a Balaklava (nel 1854). L’etimologia di moneta narra una serie di passaggi metonimici: monēta è il nome latino della zecca, che si trovava in Campidoglio presso il tempio di Iuno (Giunone) Monēta (l’epiteto deriva da monēre “ammonire, consigliare”); il termine passò a indicare anche il conio, quindi la “moneta” coniata. È stata una sorta di devozione scaramantica a far chiamare santabarbara il deposito delle munizioni nelle navi: si è voluto metterlo sotto la protezione della santa a cui la tradizione attribuiva il potere di stornare i pericoli del fuoco (fulmine e incendi): esempio di ‘metonimia del patrono’. Benché di un santo si tratti, è invece una metonimia del luogo quella che ha dato il nome al dolce saint-honoré, per cui può variare la ricetta, ma non la forma di corona: presso una cappella dedicata a Saint-Honoré vescovo di Amiens (morto nel VI secolo) si riuniva la confraternita dei pasticceri e panettieri parigini.

Altre si spiegano come manifestazioni della polisemia (l’Italia è nel medesimo tempo il nome della regione geografica e della nazione), o come ellissi (in San Pietro < “nella cattedrale di San Pietro”; il Chianti < “il vino del Chianti”; un Omega < “un orologio [di marca] Omega”). Indipendentemente dalla persistenza del carattere ‘figurato’ e da giudizi di valore (sull’efficacia persuasiva, la capacità di produrre sensi nuovi, l’originalità, la bellezza letteraria o altro), interessa allo studioso del linguaggio riconoscere il meccanismo metonimico che sta alla base di tali estensioni di significato, di tali fatti di polisemia, di tali ellissi ecc.

Sull’inadeguatezza dei criteri impiegati dalla retorica classica per riconoscere le metonimie daremo qualche indicazione (al successivo [2]), dopo avere trattato dell’altra “figura della contiguità”, cioè della sineddoche.

[2] La sinèddoche deriva il suo nome dal latino synecdŏche, trascrizione del termine greco synekdochē (sýn “insieme, con”, e déchomai “ricevo, prendo”). Degli altri nomi latini, conceptio, intellectio, il primo è calco traduttivo del termine greco, il secondo, che significa “comprensione”, compare nella definizione di Rhet. Her. IV, 33, 44: intellectio est, cum res tota parva de parte cognoscitur aut de toto pars [“quando il tutto di una cosa viene conosciuto da una piccola parte o una parte dal tutto”].

Le definizioni vulgate ricalcano sostanzialmente quelle dei retori antichi, per i quali la sineddoche consiste nell’esprimere una nozione con una parola che ne denota di per sé un’altra, la quale sta con la prima in relazione “di quantità”: come quando si nomina la parte per il tutto e viceversa, il singolare per il plurale e viceversa, la specie per il genere e il genere per la specie, la materia di cui è fatto un oggetto per l’oggetto stesso (per gli ultimi due casi il rapporto quantitativo si spiegherebbe intendendo la specie come compresa nel genere e quindi di minore estensione rispetto a questo, e la materia come componente dell’oggetto oppure l’oggetto singolo come parte di una materia che è comune anche ad altri oggetti).

Denominando la sineddoche come “tropo per connessione”, Fontanier (FD 87) la caratterizza come “designazione di un oggetto col nome di un altro oggetto che formi col primo un complesso, un tutto” (ad es. il chiamare la casa tetto), trovandosi “l’esistenza o l’idea dell’uno compresa nell’esistenza o nell’idea dell’altro”.

Lausberg parla di “spostamento” della denominazione di un’entità mantenuto sul piano dello stesso contenuto nozionale; i “limiti” da spostare sarebbero quelli tra genere e specie, tra parte e tutto, tra singolare e plurale, tra l’indicazione dell’oggetto e quella della materia di cui è fatto. La sineddoche viene così definita come una “metonimia di relazione quantitativa”, nei due tipi: “dal più al meno” (a maiore ad minus; è la “sineddoche generalizzante” del Gruppo μ, cfr. 3.2:C) e “dal meno al più” (a minore ad maius; è la “sineddoche particolarizzante” del Gruppo μ), individuati, nelle dottrine classiche, applicando i rispettivi loci (cfr. 2.6:[4]).

Nel primo tipo, si nomina il più ampio per indicare il più ristretto: il tutto per la parte (l’America per “gli Stati Uniti d’America”; “nell’ora di italiano abbiamo letto I promessi sposi”, per “qualche pagina dei...”), il genere per la specie (i mortali per “gli uomini”), la materia per il prodotto (i bronzi di Riace, per “le statue...”); la pelliccia, per “il cappotto di...”), il plurale per il singolare (noi per “io”, nell’uso dei plurali ‘di maestà’ e ‘di modestia’).

Esempi classici di totum pro parte mostrano la coincidenza di metonimia e sineddoche:

come se uno dicesse a chi gli mostra un vestito o un ornamento lussuoso: “Mi vai ostentando le tue ricchezze e vanti le tue abbondanti risorse”.

(Rhet. Her., IV, 44)

Passi che esemplificano la sineddoche del genere per la specie: