PRELIMINARI

È del 1958 il Traité de l’argumentation di Perelman e Olbrechts-Tyteca, opera decisiva per la rinascita della retorica. Su questa disciplina antica erano piovute, a più riprese, condanne capitali nell’Ottocento e nel Novecento (ma le sentenze non furono mai veramente eseguite). Si voleva colpire la parte deleteria della dottrina e delle pratiche retoriche: una precettistica di cui sfuggivano le ragioni, la ripetizione acritica di schemi e modelli vulgati e volgari, la vuotaggine eretta a sistema; un coacervo di incrostazioni su un monumento reso irriconoscibile.

Decenni di studi neoretorici esimono da giustificazioni preventive della materia. Le cui teorie oggi largamente diffuse interessano le ricerche filosofiche, giuridiche, linguistiche, letterarie, semiotiche, pragmatiche, gli studi sulle tecniche dell’informazione e delle comunicazioni di massa. Il fastello è disordinatamente corposo, ma gli manca ancora parecchio per essere completo.

Con questo trionfale rigoglio e con la dignità scientifica e istituzionale che la retorica ha conquistato stabilmente, coabita, immutato, il senso peggiorativo che la parola si trascina addosso, come effetto di pratiche degradate, nel tempo, a tumorale casistica classificatoria; a precettistica pedantesca e proterva, superata dall’esercizio autentico del parlare e dello scrivere appropriati; a sfoggio di vaniloquio reboante, nella piazza, in tribunale, nei palazzi del potere politico, nelle chiese. Retorica come declamazione, freddezza, eccesso; ostentazione e menzogna; degenerazione dello stile.

Strano destino delle parole: mentre stile (tout court, senza aggiunte) ha una carica positiva (‘avere stile’ significa possedere un’eleganza particolare, forse innata, di comportamento), retorica e derivati (‘sprofondare nella retorica’, ‘un discorso retorico’, ‘esprimersi retoricamente’) manifestano di solito giudizi negativi. Così, figure nobilissime come l’iperbole e l’enfasi sono nominate, senza qualifiche, per significare solo i loro aspetti peggiori, gli usi deteriorati: esagerazione e gonfiezza.

Il primo dizionario che registra l’impiego, già consolidato, del nostro termine in senso deteriore è il Tommaseo-Bellini, nella seconda metà dell’Ottocento. Manzoni, com’era nella migliore tradizione, aveva assimilato ‘retorica’ ad ‘arte (tecnica, artificio e ornamento) dell’esprimersi’ – occasione, come ogni altra attività, di eccellenza o di goffaggine – quando scriveva a proposito del “dilavato e graffiato autografo” della sua storia: “a tutti que’ passi insomma che richiedono bensì un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui [il supposto autore secentista] non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio”.

Sull’onda delle condanne romantiche si arriva a parlare dell’antica scienza del discorso – poetica e oratoria insieme, raccolta di dottrine e di precetti – solo per denunciarne le degenerazioni e gli abusi: retorica diventa sinonimo di cattiva retorica, “contagio del secolo”. Ma la crisi della disciplina, come hanno dimostrato a sufficienza gli studiosi che ne hanno ripercorso la storia, aveva avuto origini più antiche: nella scissione, in epoca rinascimentale, fra teoria e tecniche dell’argomentazione, da una parte, e normativa dello stile, degli ‘ornamenti’ del discorso, dall’altra. E nella contrapposizione fra scienza e humanae litterae, nella dissociazione fra le ‘due culture’. Bisognerà arrivare a Leopardi, ma la sua sarà una posizione isolata, per sentir affermare la necessità della convivenza di intelletto (pensiero razionale, scienza) e immaginazione; ove la retorica, come teoria letteraria, ha un ruolo fondante. Il razionalismo settecentesco e in tempi più recenti la moderna filosofia della scienza escludono la retorica, perché alle ‘verità’ della ragione e all’evidenza delle dimostrazioni scientifiche non occorrono le tecniche della persuasione. Diversa nei moventi, ma concorde nel rifiuto, fu l’insofferenza per la retorica da parte della letteratura, sia che questa si rifugiasse nei miti della spontaneità, sia che si liberasse eversivamente dalla “schiavitù delle belle parole”, o coltivasse l’impegno, tipico dei vari naturalismi e realismi, a riprodurre ‘fedelmente’ la realtà fisica e psichica.

Il terreno di coltura propizio, in Italia, per la crescita del senso peggiorativo di retorica e dintorni, si trovava proprio entro la tradizione linguistico-letteraria: nell’“eccessiva preoccupazione della forma”, che Ascoli, il fondatore della dialettologia italiana, denunciava (era il 1873) come uno degli inciampi alla diffusione di una lingua e di una civiltà unitarie. Così, egli poteva ascrivere a merito sommo di Manzoni l’essere riuscito “con l’infinita potenza di una mano che non pare aver nervi, a estirpar dalle lettere italiane [...] l’antichissimo cancro della retorica”.

Quando si dice “retorica” si parla di due cose dipendenti sì l’una dall’altra, ma ben distinte. L’una è pratica e tecnica comunicativa, e insieme il modo in cui ci si esprime (persuasivo, appropriato, elegante, adorno [...]; e, degenerando, falso, ridondante, vuoto, esibizionistico ecc.): ciò di cui parlano, l’abbiamo appena visto, con intenti e accenti diversi Manzoni e Ascoli. L’altra cosa chiamata retorica è una disciplina e perciò un complesso di dottrine: è la scienza del discorso (luogo di teorie filosofiche), l’insieme delle regole che ne descrivono il (buon) funzionamento. I retori, dall’antichità all’Ottocento e oltre, hanno organizzato questa disciplina come una precettistica: la precettistica del “parlar bene”, cioè dell’eloquenza; accanto, lo vedremo, alla grammatica come normativa del “parlare corretto”.

Retorica, dunque, vuol dire “pratica” e “teoria”; eloquenza e sistema di norme da seguire per essere ‘eloquente’. C’è una retorica ‘interna’ al comunicare, ed è un insieme di pratiche discorsive, oggetto di studio sistematico da parte della retorica ‘esterna’. È alla prima nozione che si riferisce un noto artista, Fausto Melotti, quando scrive:

La retorica, subito riconoscibile nelle opere letterarie e nella musica scritta per la piazza, nelle opere plastiche si palesa nella pigrizia dei passatisti, nelle fatue cornette dell’avanguardia [...]. La retorica in fondo è ostentazione. E non è detto che una bella donna, ostentandosi sia meno bella. Ma il gioco non è per le vecchie impiastricciate. Detto per i passatisti. Né per le ragazze strabiche. Detto per le cornette.

(Linee, 58)

È della seconda che parla Baudelaire:

il est évident que les rhétoriques et les prosodies ne sont pas des tyrannies inventées arbitrairement, mais une collection de règles réclamées par l’organisation même de l’être spirituel. Et jamais les prosodies et les rhétoriques n’ont empêché l’originalité de se produire distinctement. Le contraire, à savoir qu’elles ont aidé l’éclosion de l’originalité, serait infiniment plus vrai.

(Salon de 1859, 1043)

Le due (l’esercizio e la teoria) possono essere intese insieme, con un uso bivalente del termine. Ancora Melotti:

Vi è anche una retorica fine: vive di compiacenza per le parole non ancora dette.

(Linee, 28)

Due sensi, dunque, e un ventaglio di accezioni e di giudizi differenti in una sola parola. Che a un certo punto della sua storia si è trovata a designare il ‘cancro’, cioè il male per eccellenza di tutte le letterature, di tutti i modi di parlare, che si riducano a gusci vuoti e si votino all’insignificanza. È ben vero che questo male ha ben poco in comune – soltanto il nome – con l’antica arte del discorso persuasivo. Ovvero, con ciò che a tutti capita di fare: “di indagare su qualche tesi e di sostenerla, di difendersi e di accusare”. Se ciò si fa con un metodo preciso, è perché ci si avvale della “facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere”: della retorica, appunto, come fu definita da Aristotele.

Aristotele, a cui Perelman si richiama, aveva orientato sull’uditorio le tecniche della persuasione. Il rapporto con gli altri implica conoscenza; il trovare il modo più adatto per farsi capire implica partecipazione, l’adeguamento del discorso al destinatario (tema su cui Perelman ha indagato infaticabilmente) richiede simpatia umana, capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro, di sentire il polso della situazione. Richiede anche la capacità di tacere. Nell’odierna civiltà di parole, scritte e pronunciate, di messaggi iconici a cui il discorso fornisce le tracce e i supporti, la comunicazione può essere menzogna e sortilegio. Oggi come agli albori della civiltà. Oggi come allora può pure essere garanzia di libero scambio delle idee, di rispetto per gli altri, che non si vogliono ‘costringere’ ma persuadere (o anche convincere) con la forza del ragionamento: il contrario dell’autoritarismo che non spiega le sue ragioni. In ogni caso è un agire. Tanto meglio se le regole saranno esplicite.

Scoprire e spiegare le regole del gioco comunicativo: questa è la funzione conoscitiva e sociale della retorica. Per l’interprete dei messaggi di ogni provenienza e fine è una funzione difensiva, contro le insidie della persuasione occulta; immunizzante, contro l’influenza di “strumenti del comunicare” che (occorre richiamare McLuhan?) creano le condizioni stesse della loro fruizione.

Oggi l’incremento degli studi retorici ha dato vita ad alleanze stimolanti: innanzi tutto con gli studi giuridici, sulla linea della vocazione più antica della disciplina; poi con la poetica e la stilistica, compartecipi, sia pure con forme e statuti differenti nel tempo, delle fortune e delle sfortune della retorica; con le analisi pragmatiche del discorso, con gli indirizzi più recenti della linguistica testuale, con l’ermeneutica, con le varie semiotiche. Rimane da stabilire, di volta in volta, la zona delle pertinenze: dalla visione totalizzante di chi rivendica alla retorica tutto ciò che appartiene alla facoltà di comunicare (il rischio è la perdita di identità, in un universo praticamente senza confini), alla riduzione della disciplina a un ruolo ancillare rispetto a quelle a cui si aggrega. Fra gli estremi c’è ancora spazio per la secolare divisione tra le due anime: quella filosofico-giuridica e quella letteraria, scisse, nelle sistemazioni teoriche, a partire dal Cinquecento; mentre la manualistica e la precettistica didattiche hanno continuato ininterrottamente, fino ai primi del Novecento, sul tracciato di Quintiliano e dei retori medievali, a dare ragguagli complessivi di tutte le parti dell’“arte del parlar bene”.

Già, la manualistica. Come dire, il genere a cui il presente libro appartiene: con l’intento di fornire uno strumento di informazione a chi desideri notizie sui principali temi della retorica classica e sulle loro reviviscenze attuali. Si è cercato di dire che cosa e come fu la retorica, e come si presenta ora, ma limitando lo sguardo sull’attualità ad alcuni episodi che sono sembrati indicativi a vario titolo. Quest’ultimo settore, specialmente, soffre di parzialità, comunque la si voglia intendere: di sviluppo e di vedute.

Le tre parti del manuale appaiono sproporzionate l’una rispetto all’altra; lo sono anche al loro interno. Si è fatto questo di proposito, o seguendo le esigenze della materia; il che fa lo stesso. La prima parte, se avesse dovuto dare un profilo storico attendibile, e niente di più che un profilo, avrebbe occupato tutto il volume. È stata perciò ridotta alle poche notizie sulla retorica antica che bisognava avere sotto mano per situare in una cornice sia pure sommaria la descrizione del patrimonio classico. È stata aggiunta qualche nota, poco più che un indice, su episodi che hanno caratterizzato la disciplina nelle epoche successive; e si sono scelti quelli che in qualche misura si collegavano ad argomenti dei capitoli successivi. Fino ad arrivare alla teoria dell’argomentazione di Perelman e Olbrechts-Tyteca: la teoria che prima e più d’ogni altra ha dato impulso all’attuale rinascita della retorica.

La seconda parte è la più protratta. Risponde all’intento principale del lavoro e alla preoccupazione maggiore di chi l’ha fatto: dare conto di ciò che è stata la retorica classica e di ciò che ne sopravvive oggi. Per questo alla descrizione del corpus delle nozioni tradizionali sono intercalati riscontri con la situazione odierna. Si è cercato specialmente di mostrare, quando se ne presentava l’occasione, quali siano i temi che, un tempo trattati dalla retorica, oggi sono oggetto di altre discipline, giuridiche o linguistiche. Abnorme rispetto alle rimanenti sezioni del secondo capitolo è lo spazio occupato dalle ‘figure del discorso’ (tropi e figure di parola e di pensiero). Ma un manuale di consultazione deve funzionare anche un po’ come un dizionario, e le figure sono tante (troppe), ma ricorrono nelle odierne analisi di testi di ogni specie (e non solo linguistici). Alcune ricorrono solo eccezionalmente, ma proprio perché sono meno consuete, e perciò meno conosciute, devono trovare posto in una rassegna informativa.

Gli esempi: colti a volo nella conversazione di ogni giorno, in trasmissioni radiofoniche o televisive (pochi), scovati nei messaggi pubblicitari, ripescati nella memoria quando si trattava di frasi fatte, tratti da testi di vario tipo, documentano in netta prevalenza la lingua scritta. Questo malgrado le convinzioni e i propositi iniziali di chi li ha raccolti, che aveva ben viva la consapevolezza dell’universalità dei fatti retorico-linguistici, che attraversano i vari registri della lingua ‘comune’ e non sono soltanto oggetti di lusso, non appartengono solo alla letteratura. Tuttavia il fascino del lusso ha prevalso: perché nei testi letterari era comodo trovare esempi di migliore fattura; e non ci vuol molto a giudicare se un manuale, nel suo volare basso, non avesse bisogno di qualche boccata d’aria, per farsi leggere senza una pena ininterrotta. Modesto rimedio, si dirà, contare su frammenti d’autore per dare respiro a un lavoro. Ma tant’è: non si è voluto, né potuto, fare meglio.

La scelta degli esempi è stata quasi casuale: in un paesaggio linguistico-letterario percorso senza alcuna sistematicità o premeditazione, in zone limitate, dando la preferenza alla modernità ma facendo incursioni anche nel passato vicino e lontano, la rete per le farfalle ha catturato frammenti di discorso insigni e meno noti, di età e qualità diverse. La cattura rispecchia certamente delle preferenze; ma qualche autore, benché, e forse perché, prediletto, è stato risparmiato. La casualità della scelta, da un lato, e dall’altro il numero relativamente ristretto degli autori e dei tipi di testo a cui si è attinto vogliono dare un’idea, rispettivamente, dell’ampiezza dispersiva e della densità dei fatti retorici. Sono talmente diffusi che basta aprire a caso un libro o prestare attenzione al parlare della gente per trovarne qualcuno. Sono talmente frequenti che bastano pochi testi (ne basterebbe uno soltanto, purché ben scelto) per ricavare quanti esempi si vogliano.

La terza parte, come già detto, è un notiziario parziale delle attuali tendenze. Si tratta di campioni certamente rappresentativi, ma limitati a episodi nell’ambito variegato degli studi retorici.

La captatio benevolentiae non è raccomandabile in un’occasione come questa, né servirebbero allo scopo le scuse per le limitazioni imposte al lavoro: va da sé che le esigenze editoriali, la destinazione (a studenti e a non-specialisti), e perciò gli intenti didattico-informativi del libro, ne hanno determinato le misure. È molto (si spera almeno che non sia troppo) ciò che ne è rimasto fuori, per necessità e forse anche per assuefazione di chi lo ha scritto, ritrovandosi, suo malgrado, nel ritratto che Voltaire fece di un tale, alla cui mancanza d’esprit “l’esprit d’autrui par supplément servait”:

il entassait adage sur adage, / il compilait, compilait, compilait; / on le voyait sans cesse écrire, écrire / ce qu’il avait jadis entendu dire.

La numerazione delle parti (1 - 2 - 3), dei capitoli all’interno di queste e dei relativi paragrafi e sottoparagrafi, rigidamente progressiva per economia di cifre nei rimandi all’interno del testo, non rivela le gerarchie degli argomenti. Questo è particolarmente imbarazzante per la parte 2, dove una numerazione che manifestasse i rapporti di inclusione dei paragrafi nei capitoli e delle varie partizioni entro i singoli paragrafi, darebbe, nell’unico modo corretto, una percezione immediata dei rapporti tra le parti della materia trattata (ma si sarebbe dovuto accettare, ad es. numerando con II la seconda parte, con II, 3 l’elocutio, con II, 3.2.3 l’ornatus, con II, 3.2.3.3 le figure di parola, e infine con II, 3.2.3.3.3 le figure di parola per ordine, di indicare con un ‘treno merci’ di questa sorta l’adiunctio, poniamo: II, 3.2.3.3.3:[28] (b): il che avrebbe finito per annullare il vantaggio della numerazione ‘gerarchizzante’). Come rimedio preliminare ai difetti della numerazione che è stata adottata, si propone qui – e solo per la parte 2 – uno schema delle varie sezioni incluse l’una nell’altra:

f020-1

È segnato l’accento tonico sulle forme italiane di ciascun termine tecnico quando questo compare per la prima volta come oggetto di definizione (ed è stampato in grassetto). Per le parole latine è indicata la quantità della penultima sillaba – col segno della lunga (ˉ) su vocale lunga e col segno della breve (˘) su vocale breve –, perché si possano dedurre indicazioni relative all’accento tonico delle parole. Quest’ultimo, in latino, com’è noto, dipende dalla quantità della penultima sillaba: se questa è breve non può portare l’accento tonico (ad es. metonymῐa sarà accentato sulla y, metonýmia, perché la i che qui si trova nella penultima posizione è breve). In greco, invece, la sede dell’accento tonico dipende dalla lunghezza dell’ultima sillaba: quando questa è lunga, l’accento (che, comunque, nel lessico greco è sempre indicato) non può risalire, nella parola, oltre la penultima; un termine come metonymía, dove la vocale finale (-a) è lunga, sarà accentato sulla penultima sillaba. La differenza nella collocazione dell’accento tonico in greco e in latino provoca, com’è noto, oscillazioni nella pronunzia italiana dei grecismi (non solo del lessico retorico), che generalmente sono arrivati all’italiano attraverso il latino. L’uso ha consolidato ora l’accentazione latina ora l’accentazione che riproduce direttamente quella greca (ad es. il vocabolo greco philosophía, quando fu traslitterato in latino fu accentato sulla -o- della terzultima sillaba, poiché la -i- della penultima era breve, e letto: philosòphĭa; l’italiano, però, ha serbato l’accentazione greca).

Nel traslitterare in italiano i termini greci si sono seguite le norme correnti; l’accento dei dittonghi, che in greco è sempre collocato sul secondo elemento nei dittonghi discendenti, qui è stato collocato sul primo, per evitare confusioni nella pronuncia. Si noti che il suono trascritto con la lettera g è sempre velare, in greco; perciò vocaboli greci trascritti come génos, aitiología ecc. vanno letti come si leggerebbero se si trovassero nelle forme: ghenos, aitiologhia. Non si è ritenuto corretto usare la lettera h nella traslitterazione della velare sonora (la “gutturale media” delle tradizionali grammatiche scolastiche; la velare sorda, trascritta con la k, non pone problemi), perché convenzionalmente la h serve a trascrivere le cosiddette “aspirate” greche (ph, ch, th); del resto, la traslitterazione del greco corrisponde a quella che ne diedero i latini (per i quali, occorre aggiungerlo?, le lettere c e g indicavano suoni velari anche davanti alle vocali palatali i, e).

Si è adoperato il corsivo (oltre che per i titoli di volumi e riviste, in bibliografia, e per i titoli di componimenti poetici, nell’esemplificazione):

(a)negli esempi, per mettere in evidenza i fenomeni analizzati; nelle parti esplicative del testo, per sottolineare nozioni;

(b)nelle menzioni, cioè quando si fa riferimento a una parola (ad es.: “il termine metabole...”).

Le virgolette doppie (oltre che per i titoli di articoli, in bibliografia) sono state impiegate:

(a)per racchiudere le citazioni;

(b)per fare riferimento ai significati delle parole (ad es.: il termine metabole significa “mutamento”).

Le virgolette semplici o apici avvertono invece che il termine in esse racchiuso va inteso in un’accezione particolare, con riserva ecc.; equivalgono a: “per così dire...”; per convenzione tipografica possono valere come virgolette doppie all’interno di citazioni, e all’identico scopo si è usato, ma raramente, il corsivo. In alcuni casi le virgolette semplici sono state usate al posto del corsivo, nelle menzioni di espressioni composte da più di una parola.

Il grassetto (o neretto) ha lo scopo, ovvio, di mettere in evidenza le designazioni (generalmente si tratta di termini tecnici) di argomenti allo studio, la prima volta che questi compaiono come oggetto di trattazione particolare.