Devo imparare

 

Tassativo era il tempo che dedicavo allo studio della dattilografia. Avevo sistemato la Remington sulla grande tavola in salotto. Vicino c’erano i fogli che mi aveva dato la sorella di Richetto (erano fogli d’ufficio usati, scritti su una facciata e con l’altra libera) perché potessi far pratica risparmiando sulla carta. Un altro malloppo me l’aveva portato la Titti, offrendosi di dettarmi qualcosa.

«No», le dissi, «prima di tutto devo imparare a co­piare».

Già, ma cosa? L’idea mi venne andando da Duilio a prendere il latte. Mi divertiva sempre guardare come lo misurava, servendosi di tutte quelle formine e bicchieri che segnavano di volta in volta un litro, mezzo litro, un quarto, un quinto, un decimo... Il latte sgorgava dal rubinetto di un grande recipiente posto sul piano di marmo del banco. In latteria c’erano anche alcuni tavolini, dei gueridons di marmo, con le sedie di ferro battuto, perché le latterie, all’epoca, funzionavano anche da bar. Le signore che andavano a comprare burro e quant’altro si fermavano spesso a bere un bicchiere di latte, a chiacchierare e a leggere il giornale che Duilio teneva ogni giorno a disposizione: era sempre «Il Gazzettino», il quotidiano più importante di Venezia. Ci accordammo perché me ne mettesse da parte una copia ogni giorno, in modo che potessi passare a prenderla l’indomani. Dopo aver pulito la casa, scendevo da lui a ritirarla. Talvolta mi regalava anche mezza bottiglia di latte, o un quarto. Poi rientravo e mettevo qualcosa sui fornelli per preparare un pasto a mio padre, che tornava all’alba e dormiva fino alle 11. Si alzava e mangiava quello che trovava – una scodella di minestrone o di fagioli, una fetta di polenta. Poi si metteva subito a suonare e continuava la sua disperata lotta per la sopravvivenza.

Ogni mattina dalle 10 e mezzo alle 12, e il pomeriggio dalle 15 alle 17, scrivevo a macchina copiando «Il Gazzettino». Mi ero imposta di non copiare solo gli articoli che m’interessavano: dovevo copiare tutto, dalla testata agli indirizzi della medesima, e poi titoli, sottotitoli, occhielli, testi, firme, necrologi, inserzioni pubblicitarie, annunci economici... Solo così ero sicura che avrei imparato a scrivere velocemente. L’assenza della zeta sui tasti mi creò non poche difficoltà, che imparai a superare con il tempo. E con il tempo, inventai anche un modo tutto mio per divertirmi a fare quegli esercizi...

Quella di associare la scrittura a macchina alla musica fu un’illuminazione che, senza volerlo, mi suggerì mio padre. Mi aveva instillato fin da piccola il senso e la religione del ritmo – quella dimensione che «rende possibile la vita». Il ritmo, per lui, non era solo una necessità musicale. Lo si avvertiva anche nel suo modo di parlare, di camminare, di rivolgersi alla gente...

Anch’io copiavo «Il Gazzettino» seguendo un ritmo. Era un po’ come al forno di San Lio, quando contavo le rosette, le mantovane e le ciope, lasciandole cadere sul piatto della bilancia. Era il ritmo a suggerirmi il peso: un chilo, mezzo chilo, due etti...

Lo stesso facevo con i tasti della Remington. Prima un periodo di dieci righe tutto d’un fiato, e una breve pausa; poi uno di cinque, e un’altra pausa; poi una riga sola...

Le pause, ovviamente, erano solo frazioni di secondo: ma bastavano a creare... una musica!

 

 

Un raggio di sole

 

Intanto papà continuava a dettarmi il suo dossier, elencando tutti gli ex repubblichini che avevano voltato gabbana, passando nelle file del nuovo Partito Comunista. Io ero ben felice di accontentarlo: anche quello, in fondo, era un modo per impratichirmi con la Remington. Ma tanta acqua doveva ancora passare sotto i ponti, come si dice a Venezia...

Venne l’inverno, durissimo, e finalmente arrivarono anche i primi soldi mandati dalla mamma: comperai subito la legna e la nonna mi mandò a pagare alcuni debiti che avevamo nei negozi vicini. Poi consegnai al papà trecento lire – che ritenevo giusto dargli, pur sapendo che se le sarebbe bevute in men che non si dica. Infine, per la prima volta, mi concessi un piccolo lusso, acquistando un maglioncino bianco e azzurro con dei disegni di tipo norvegese, che all’epoca si usavano molto. Non era indispensabile, ma mi piaceva tanto! Per tutta la vita avevo indossato solo gli abiti degli altri, rammendati e riadattati dalla nonna: quel piccolo gesto di vanità mi rese felicissima. Lo scrissi alla mamma, che mi incoraggiò ad acquistarne un altro con i prossimi soldi, il mese seguente.

Di lei mi dava poche notizie: si trovava bene, erano tutti gentili, e al Saint Georges fioccavano mance importanti. La clientela era molto signorile e apprezzava la sua musica. Quanto agli orchestrali, ormai erano diventati i suoi amici, la sua famiglia all’estero. Era solo un po’ disorientata perché nella casa in cui abitava la pulizia lasciava a desiderare. Così ogni giorno le toccava lavare e spolverare, e non soltanto la sua stanza. In fondo, però, le cose non le andavano male. Anche i dolori reumatici, con l’aria del Libano, s’erano un po’ alleviati. Io le scrivevo dei miei progressi con la dattilografia, dicendole che ormai ero diventata un fulmine con i tasti. Non le parlavo della condizione di papà, della quale forse l’aveva informata la nonna. Lo capivo da certe sue domande, a cui non rispondevo mai.

Intanto avevo cominciato a cercare lavoro, leggendo proprio le inserzioni sul «Gazzettino». Quelle che potevano interessarmi in genere recitavano: «Stenodattilografa esperta con diploma cercasi». Io non avevo il diploma in stenodattilografia, ma mi presentavo ugualmente ai colloqui. Nessuno mi metteva alla prova: mi chiedevano soltanto quanti anni avessi e se avessi il diploma. Dopodiché, sistematicamente, mi respingevano: «Ci dispiace, abbiamo già trovato qualcuno».

 

 

Sempre più giù

 

Ero sempre più avvilita, e mi sentivo sola. Non tanto a causa dell’assenza della mamma o di Giorgio: in fondo c’era sempre la nonna, che veniva quasi tutti i giorni e preparava anche qualcosa di buono da mangiare. La mia era una solitudine più profonda, che neanche l’amicizia con la Titti (a cui raccontavo tutto) riusciva a lenire. A spezzarmi il cuore era mio padre, che tornava a casa barcollando senza neanche la voglia di salutare; era quell’odore di vino vecchio che gli si attaccava ai vestiti e non andava più via. Era quel suo parlare biascicando, erano le sciocchezze che diceva – lui, il più intelligente degli uomini che avessi mai conosciuto, l’ardito, il coraggioso, l’eroe. L’uomo senza paura che un tempo sfidava ogni avversità, fiero, indipendente, orgoglioso, e che ora non trovava più la strada di casa neppure con il bastone, parlava ad alta voce pensando che non lo sentissi, rideva e piangeva da solo con il cibo che gli colava dalle labbra, rovinando sul piatto e anche fuori.

Parlarne con lui era impossibile. Un giorno gli dissi a bruciapelo: «Perché lo fai?».

«Cosa ho fatto?», mi rispose.

«Bevi, sei sempre ubriaco, non esisti più per me, ma neanche per te, né per nessuno. Frequenti solo gli avvinazzati come te, che non fanno altro che farti bere».

Lui restò fermo con il cucchiaio della minestra a mezz’aria, guardandomi come ti guarda un cieco, cercando di individuare l’interlocutore dalle vibrazioni che attraversano l’atmosfera.

«E chi vuoi che passi il suo tempo con me?», mi rispose. «Cieco, deturpato, squattrinato, ormai sono un “senza potere”. E i “senza potere” non interessano alla gente che conta, interessano solo a chi non conta niente, come loro».

Con la mano cercò il collo del fiasco, per versarsi da bere: ma lo prevenni io, afferrando il fiasco di vino e versandoglielo fino a far traboccare il bicchiere.

«Bevi, allora», gli dissi. «Bevi ancora, e poi ancora, papà. Devi bere fino a metterti a cantare per la felicità! Hai capito? Hai capito davvero?».

Certo che aveva capito, anche se era sbronzo. Aveva capito che lo stavo uccidendo, che gli avevo versato quel vino come si potrebbe versare del veleno. Aveva capito che la persona che lo amava di più al mondo lo voleva morto, non lo accettava più, non poteva più giustificarlo né compatirlo.

Ancora oggi mi fa male ripensare a quel momento. Ricordo solo che si alzò, barcollando, e cercò con le mani la porta della cucina per ritirarsi in camera a smaltire la sbronza. Andava a tastoni lungo il muro, parlando da solo: «Eccome se hai ragione. Ma questa è la verità e dice bene Kafka: se tra la realtà e quello che desideri c’è un divario troppo grande, buttati nella realtà e accettala. Io sono un alcolizzato, un cieco, un invalido, senza alcuna possibilità di rendermi utile, ai miei, ai miei figli, a me stesso. Avanti, Raoul, fino alla fine! E speriamo sia vicina!».

Arrivato in camera e trovato il letto, si spogliò e vi si buttò sopra senza alcun pudore. Lo guardai impotente e disperata, piena d’amore e di odio allo stesso tempo.

Era finalmente solo, libero, padrone della sua povera vita.

E io?

Avevo voglia di vedere Giorgio e la nonna mi promise che saremmo andate a Mogliano a trovarlo, la domenica successiva.

 

 

Se veniva ieri

 

La legna stava per finire, ma i soldini di mamma ci consentivano di non soffrire troppo il freddo. Avevamo passato il Natale con la zia Elsa e Mignon, zia Leony e ovviamente i nonni: fu un Natale pesante, senza Giorgio, perché i frati ci avevano raccomandato di lasciarlo in collegio, per evitare che ne ricavasse un turbamento, rifiutandosi poi di tornare. Quando seppe che non saremmo andati a prenderlo la mamma si infuriò, ma poi se ne fece una ragione. Dopotutto, mancavano meno di tre mesi al suo ritorno in Italia. La prospettiva mi riempiva di gioia, ma allo stesso tempo, dal punto di vista economico, sapevo che tutto sarebbe tornato come prima, nella precarietà e nella miseria.

Quel giorno salutai la Titti, che mi aveva portato una versione dall’italiano al latino da studiare con l’aiuto del nonno. Ma a volte i nervi ci prendono la mano, e improvvisamente mi colse un disagio così profondo che diventai aggressiva: le dissi che avrei cercato lavoro a modo mio e la salutai dirigendomi verso il campo Santi Apostoli. Non avevo un motivo particolare per andarci, che giustificasse la scelta di quel percorso. Pensai soltanto che avrei dovuto cercare in tutta la città: ero vicino a quella zona, dunque avrei cominciato da lì per andare ovunque, in tutta Venezia, in tutti i campi, le calli, le strade dove c’era una porta che potesse aprirsi. Tutti i tentativi che avevo fatto, fino a quel momento, erano falliti: vuoi per l’età, vuoi per la mancanza di un diploma, vuoi perché chiamavo troppo tardi (dovevo aspettare sempre le 10 di mattina, per chiedere ai signori del piano di sotto la cortesia di farmi fare due o tre telefonate). Ormai avevo quasi sedici anni, non ero più una bambina, sapevo lavorare, ne avevo estremo bisogno... perché mi dicevano sempre no?

Dal campo Santi Apostoli, dove inizia la Strada Nova, cominciai a entrare in tutti i negozi, a suonare i campanelli di tutte le ditte e gli uffici che avevano la targa sulla porta. «No, cara, non abbiamo bisogno». «No, peccato, se veniva ieri...». «No, signorina, non cerchiamo dattilografe, cercavamo un contabile, ma con diploma di ragioniere!». «Ripassi tra qualche anno, signorina, è ancora una bambina...». E ogni volta una pacca sulla spalla e un sorriso di congedo.

 

 

Mi provi!

 

A un certo punto, in Strada Nova, suonai un campanello con su scritto: «STEP – TRASPORTI E TRASLOCHI». Mi aprirono e una ragazza venne alla porta, chiedendomi cosa volessi. Glielo dissi e lei mi guardò perplessa, dicendomi che avrebbe chiamato qualcuno. Mi misi nell’angolo della stanza, dove un’altra signorina stava copiando dei fogli a macchina. Dopo un po’ la ragazza tornò, seguita da un signore anziano. E dandomi del tu, quasi a rimarcare la sua superiorità, mi disse: «Non ci serve nessuno. Puoi andare». Il signore alle sue spalle aspettava che obbedissi, senza neanche rivolgermi la parola.

Non so cosa mi prese. Forse fu la stanchezza, l’esasperazione, quel senso d’impotenza che t’impedisce di ragionare.

«No», dissi, senza alzare la voce, ma con fermezza. «Io non me ne vado, perché non ne posso più. Ho bisogno di lavorare e chiedo solo di esser messa alla prova, per dimostrare cosa posso fare. Perché magari un giorno potreste aver bisogno. Per favore, ascoltatemi: so scrivere a macchina, so stenografare con il metodo Gabelsberger parlamentare. Signore», aggiunsi rivolta all’uomo ombra, che non fiatava, «mi faccia almeno provare cinque minuti e poi tolgo il disturbo. La prego!». Mi rendevo conto che era una scena patetica, ma non sapevo davvero più cosa inventarmi per trovare un lavoro...

Invece funzionò. Preso dalla curiosità, dalla benevolenza, forse dalla compassione, forse solo per liberarsi di me – o magari perché mi trovava carina –, l’uomo mi venne incontro rivolgendosi a una delle sue impiegate.

«Alzati», le disse, «e lascia che la signorina si sieda alla macchina da scrivere». E poi, rivolto a me: «Vuole provare? Provi. Ma vede che io ho già le mie bravissime impiegate e non mi serve nessuno».

Mi invitarono a occupare la sedia che una delle due ragazze, contrariata ma anche un po’ incuriosita da quella pazza (perché tale dovevo sembrare), aveva lasciato libera.

«Vuole che copi o che scriva sotto dettatura?», chiesi al principale, che era rimasto a guardarmi con le braccia incrociate, sconcertato dalla mia ostinazione. Presi a caso un documento che era lì sul tavolo, dopo aver chiesto permesso alla signorina. Anche se ormai scrivevo velocissima (merito delle centinaia di «Gazzettini» che avevo copiato quotidianamente) quel giorno fui baciata dalla fortuna, perché praticamente... ruppi il muro del suono! Sentivo che mi guardavano basiti: credo di non aver mai scritto così in fretta e senza un solo errore di battitura. Passai il foglio al principale perché vedesse con i suoi occhi. Lo prese e continuò a guardarmi, stavolta con rispetto.

«Bravissima», disse. «Avete visto, ragazze, come si scrive?». Le altre mi guardavano con rabbia. «Brava davvero», continuò. «Dove ha imparato?».

«A Parigi», risposi mentendo, «dove ho imparato anche il francese. Se vuole mettermi alla prova con la stenografia...».

«Non è il caso», disse lui, prendendomi la mano. «Io ora proprio non ho bisogno, ma le assicuro che se dovesse capitare, sarà la prima di cui mi ricorderò».

E mi chiese il numero di telefono. Gli consegnai il foglietto con il numero dei signori che abitavano sotto di noi. Non chiese altro e mi salutò, promettendomi di interessarsi. Sapevo che erano le solite parole: ma quella scena mi diede energia e fiducia. Qualcuno finalmente mi aveva dato ascolto, mettendomi alla prova.

Era già qualcosa.

 

 

Giorgio sta male

 

La comunicazione del Collegio dei Salesiani ruppe quella breve quiete: Giorgio stava male, sospettavano che si trattasse di una difterite e il frate ci disse che era stato messo in isolamento nell’Ospedale delle Grazie. La mattina seguente, prestissimo, la nonna e io ci avviammo verso la riva degli Schiavoni, da dove partivano i battelli per l’isola – dove c’era solo l’ospedale per le malattie infettive. In portineria ci dissero che non si poteva salire a vederlo. La nonna protestò e chiese di parlare con un medico. Ci dissero di aspettare e passammo quasi due ore sedute sulla panchina all’ingresso. Finalmente ci chiamarono e un dottore ci confermò la diagnosi: era una brutta difterite che costringeva Giorgio a restare in isolamento. Avremmo potuto vederlo solo attraverso un vetro, durante le ore di visita indicate in portineria. La prognosi non era negativa ma – disse il dottore – la guarigione avrebbe richiesto del tempo. Chiedemmo di salire per vederlo e l’infermiera ci guidò in una stanza con una parete di vetro, che si apriva sul padiglione delle degenze. Nel dodicesimo lettino c’era Giorgio. Sembrava assopito. Dopo un po’ si girò e si accorse di noi. Fece un gesto di saluto con la mano, ma poi tornò a voltarsi e a dormire. Aveva la febbre alta.

Tornammo a casa molto provate. Mio padre non commentò, limitandosi a scuotere la testa in segno di preoccupazione.

Per fortuna il sabato Giorgio stava già leggermente meglio, e ci dissero che nel giro di quindici giorni l’avrebbero rimandato in collegio. Lui non protestò e con una rassegnazione degna di un adulto aspettò buono buono di guarire, contento di vederci finalmente tutti i giorni e di poter parlare dei suoi problemi di integrazione in collegio.

 

 

Natale?

 

La fine dell’anno giunse in fretta. Dalla mamma arrivavano notizie confortanti: ormai si stava acclimatando, il lavoro andava a gonfie vele, l’Hotel Saint Georges era bellissimo, la clientela era civile. Il lavoro cominciava alle 18 del pomeriggio e finiva alle 23 di sera. Eseguivano soprattutto brani d’opera, vecchie melodie, sonate. Due volte alla settimana l’orchestra iniziava alle 21 perché prima, alle 18, la mamma doveva tenere il suo concertino per pianoforte, che era impegnativo ma anche ricco di soddisfazioni (e di mance!). Con la signora che le affittava la stanza, ci scrisse, s’era inventata uno “scambio” di lezioni di cucina: lei le insegnava quella veneziana e in cambio apprendeva quella araba.

Con la nonna eravamo tornate a trovare Giorgio – che sembrava un po’ meno arrabbiato e infelice, anche se ogni volta ripeteva le stesse domande: «Quando torno a casa? Quando viene la mamma?». Seguimmo il consiglio del padre superiore e non lo portammo a casa per Natale, per non rinnovare il suo dolore. Decidemmo invece di andare noi a trovarlo, a Mogliano: così saremmo stati insieme lo stesso. I nonni prenotarono il pranzo in una trattoria del paese e passammo una giornata lieta, parlando della mamma e delle lettere che scriveva anche a Giorgio, raccontandogli della sua vita a Beirut e rassicurandolo che presto sarebbe tornato tutto come prima. Fu un Natale diverso, ma l’idea funzionò.

Mio padre non venne, non potevamo portarlo a Mogliano, ma a lui delle feste importava poco, anzi niente. La sera di Natale restai da sola con i nonni e lui preferì l’osteria.

 

 

La Befana vien di notte

 

Per la Befana avevamo preparato una calza piena di cose buone da portare a Giorgio: mandarini, noci, qualche cioccolatino, una bella fetta di dolce che aveva fatto la nonna, una macchinetta giocattolo che aveva vinto il nonno in patronato a una specie di lotteria benefica. Alle 10 di mattina del 6 gennaio io e la nonna eravamo in stazione per prendere il treno per Mogliano. Arrivammo al collegio alle 12 e il frate portinaio ci disse che erano tutti in chiesa. Avremmo aspettato. Posammo la calza sul grande tavolo nell’ingresso e ci sedemmo sulle sedie di legno, che avevano uno schienale altissimo. Dopo un quarto d’ora arrivarono i ragazzini in fila, guidati dal frate accompagnatore, e noi ci mettemmo sulla porta in modo che Giorgio, entrando dal viale, ci vedesse subito. E infatti ci vide e ci corse incontro. Ci abbracciò entrambe e disse che era felicissimo che fossimo andate a prenderlo per portarlo a casa. Gli rispondemmo che no, non era ancora il momento, ma gli avevamo portato la calza della Befana...

Giorgio non volle neanche guardarla: si allontanò senza salutarci e senza piangere. Il frate che aveva seguito la scena ci disse: «Non preoccupatevi, fanno tutti così. Se permettete, la calza la doniamo ai bambini che non l’hanno ricevuta».

Annuimmo e ci allontanammo svelte, piene di malinconia.

Il vortice della vita mi aiutava a tenere lontani i brutti pensieri, ma restavano lontani anche i belli: non c’era tempo per fantasticare. Bisognava... combattere!

Mi svagavo un po’ conversando con la Titti, che aveva nostalgia di mia madre e delle sue lezioni di pianoforte: in compenso, era felice di non dover più strimpellare Il piccolo montanaro o la Marcia turca. Il contratto della mamma a Beirut era stato prolungato. Al concertino che dovevano tenere tutti i giorni era stata aggiunta, due volte alla settimana, un’opera di pianoforte concertista, che variava di volta in volta. Puntualmente, mia madre mi scriveva quale dei valzer di Chopin aveva suonato, quale Notturno. Le sembrava di aver capito quale clientela preferisse Brahms o Rachmaninov. Al suo ritorno, diceva, mi avrebbe spiegato perfino che aspetto avevano quelli che apprezzavano un certo tipo di musica: era una sua teoria. Era un modo per raccontarmi un po’ della sua vita, anche se alla fine parlavamo sempre di Giorgio. Mamma era ansiosa di vederlo e si preoccupava per lui. Di mio padre non diceva niente, solo che le dispiaceva. Io evitavo di raccontarle che la situazione stava precipitando a vista d’occhio. Ogni tanto mi chiedeva se avessi trovato lavoro e in un momento di follia mi propose perfino di raggiungerla in Libano, perché l’hotel cercava una cameriera. L’offerta mi tentava, ma risposi di no. Non fu per paura: la realtà era che non volevo lasciare da solo mio padre. Sapevo che la sua situazione era disperata, ma nonostante tutto lo amavo tantissimo.

 

 

Sognare...

 

Faceva freddo, quel giorno. Ero andata nello studio del professor Serafin a ritirare il mio diplomino per il corso di stenografia, che avevo completato con una valutazione altissima: il voto troneggiava sul diploma in carta avorio con il bordo dorato, che disegnava una bella greca intorno all’attestato.

«Questo d’ora in avanti sarà il tuo curriculum», mi disse il professore. «Anche se faticherai a trovar lavoro, senza il diploma di dattilografa...».

Gli spiegai che a macchina mi ero preparata da sola ed ero sveltissima: ormai scrivevo anche a occhi chiusi, adoperando tutte le dieci dita. Mi accommiatai dal professore ringraziandolo per la sua generosità e scesi le scale di corsa, perché la Titti mi aspettava di sotto.

C’era sempre nell’aria quel famoso esame di terza media, che non avevo mai fatto. Quella mattina, decidemmo che lo avrei tentato da privatista alla fine dell’anno scolastico – ovvero a giugno. «Sei perfettamente in grado di farcela», mi rassicurava il nonno, «ormai stai studiando sui libri della Titti, che sono già di prima liceo».

Mi convinsi: avrei tentato l’esame e poi, con lo stesso sistema, mi sarei preparata ad affrontare in privato anche quello di maturità. Era un bel progetto e mi entusiasmava. Le ore della mia giornata erano sempre piene, tra i lavori di casa, lo studio, gli esercizi di dattilografia (almeno un’ora al giorno, per non perdere l’agilità acquisita) e poi il pianoforte – che suonavo più che altro per me, perché il pianoforte era e sarebbe stato sempre il mio vero amico.

La mamma sarebbe tornata in luglio. Quando la informai del mio progetto di ottenere la licenza media ne rimase entusiasta e mi disse che avrei potuto usare i soldi che mi mandava dal Libano. Sapevo bene che al suo ritorno avremmo ricominciato a tirare la cinghia. Così, dopo l’Epifania, mi recai subito all’Istituto Zambler e mi iscrissi alla scuola serale.

Dovevo far presto.

 

 

Una telefonata

 

Stavo trascrivendo a macchina un po’ di fogli del dossier del papà: avevo deciso di copiare quelli, invece del «Gazzettino», per farne un libro. Scrivendo mi accorgevo che la sintassi era perfetta e apprezzavo molto quel suo modo di raccontare le cose, fluente e diretto. Oggi mi rendo conto che quegli anni di scrittura sotto dettatura mi hanno insegnato a riconoscere la musica delle parole, il piacere di calcolare le pause, le virgole, i due punti.

Il campanello suonò due volte. Era la signora dell’appartamento di sotto, quella che mi concedeva di usare il suo telefono.

«Ti ha cercato una signorina e ha lasciato il numero perché la chiami», mi disse. «Ha detto che è per un la­voro».

Mi precipitai di sotto scendendo i gradini tre alla volta e aspettai impaziente che la signora mi aprisse la porta di casa. Mi passò il foglietto con il numero di telefono e mi incoraggiò a chiamare subito, quasi fosse partecipe della mia curiosità.

Mi rispose una signorina, dicendomi che il suo principale, su segnalazione del suo amico della STEP, voleva vedermi per propormi un lavoro. Dovevo andare la mattina seguente, alle 9, in via XXII Marzo. Sulla porta avrei trovato scritto: «ASSICURAZIONI OPERE D’ARTE».

Risalita a casa trovai la nonna, che era venuta a controllare se avessimo abbastanza scorte di cibo. Aveva portato le seppie da fare con la polentina e si era messa a pulirle sotto l’acqua.

«Nonna, ho trovato un lavoro!», le dissi, prima ancora di sapere come sarebbe andata a finire. E volai verso la vecchia Remington per scrivere una lettera alla mamma. Mi fermò la preoccupazione di correre troppo con la fantasia e dalla macchina mi trasferii al pianoforte. Pur non essendo una vera pianista (non ho mai studiato abbastanza), suonare mi dava sempre un gran conforto. Papà mi raggiunse dalla sua camera. Quella mattina era un po’ più lucido del solito, e mentre gli raccontavo il fatto andò a prendere il clarinetto e passammo due ore a suonare di tutto.

 

 

Moduli ed etichette

 

L’ufficio al primo piano di via XXII Marzo era piccolo: due stanzette con tavoli e sedie e tante casse e pacchi per terra. In fondo, una stanza più grande piena di scaffalature e imballaggi. Il principale era seduto su una sedia con una sciarpa al collo. Era un omino piccolo e rotondo, con i capelli radi color biondastro.

«Scusi signorina», mi disse, «ma abbiamo i termosifoni rotti. Il mio amico Banfi mi ha detto che scrive molto bene a macchina».

«Conosco anche la stenografia parlamentare e il francese», mi affrettai a dirgli.

«Bene, ma a me basta una dattilografa. Si tratta di un lavoro di due mesi, giusto per completare la spedizione di tutte le opere che sono state esposte nella mostra del Correr. Alcune sono partite dopo la chiusura, altre sono ancora in attesa di permessi e sono rimaste qua e devono essere rinviate. Lei dovrebbe seguire quest’operazione preparando le etichette per le spedizioni e verificando che i documenti siano a posto. Sono cose molto delicate. Poi dovrà scrivere a macchina le lettere che io le detterò. La mia segretaria si sposa e starà via per due mesi, dovrà sostituirla fino al suo rientro. L’orario è dalle 9 alle 12 e 30 e dalle 15 e 30 fino alle 19. Grembiule nero, niente fumo e niente gomme americane. Sabato e domenica a casa. Venticinquemila lire al mese. Per evitare di spendere», aggiunse passando al “tu”, per rompere il ghiaccio, «puoi chiedere alla mia segretaria se ti lascia indossare il suo grembiule finché non torna. Siete quasi della stessa statura».

Poi rispose al telefono e mi fece segno che potevo andare, precisando – senza abbandonare la cornetta – che avremmo cominciato il lunedì successivo.

Appena fuori, corsi alla fontana di campo Santa Maria del Giglio e bevvi un fiume d’acqua con le mani, sciacquandomi anche il viso. Era ghiacciata ma mi andava bene così. Per due mesi avrei avuto un impiego e lo stipendio era... una manna!

Non avrei chiesto il grembiule alla segretaria, perché avevo ancora quello che portavo da Bonella: ormai ero cresciuta, ero una signorina di sedici anni, ma la nonna avrebbe sistemato tutto a puntino. Le spalle andavano ancora bene, bastava allargarlo un po’ sui fianchi e allungarlo.

Tornata a casa, corsi a scrivere una lettera alla mamma, forse la più felice che ricordo di averle mandato: al colmo della mia euforia, aggiunsi perfino una frase in latino. La feci leggere al nonno, quando ci raggiunse per cena: era un modo per comunicargli la notizia senza scoppiare a piangere di gioia.

 

 

Signorina Crovato

 

Una delle cose che mi piacevano, del mio nuovo lavoro, era che tutti mi trattavano con rispetto. Il principale, il magazziniere, il perito dell’assicurazione – tutti mi chiamavano “signorina Crovato”. Era un attestato di stima che mi rendeva molto orgogliosa di me stessa.

Ogni mattina facevo la stessa strada, prendendo il traghetto alla Madonnetta (quello che portava a San Beneto). Conoscevo a memoria tutti i negozi: quello di articoli per la casa, la drogheria, la latteria, la pasticceria, il casino (non erano ancora stati aboliti), il fioraio, il libraio (il negozio di libri usati di Rio Terà dei Assassini). Superavo La Fenice, l’Antico Martini e sbucavo in via XXII Marzo, all’indirizzo dove anni dopo avrebbe aperto Carol’s, uno dei parrucchieri della Venezia bene.

Le opere spedite da e per la Biennale erano per la maggior parte quadri, ma anche sculture a volte molto ingombranti. Per qualche motivo, dopo la chiusura dell’esposizione, erano rimaste in deposito e dovevano tornare a privati o a musei di tutto il mondo. Molte erano stampe o incisioni, che bisognava proteggere con appositi contenitori di carta. Per ogni pezzo andava compilata una scheda, accompagnata dai documenti riguardanti l’autore: quelli dovevo ricopiarli io e inserirli nel contenitore. Alcune delle opere, per chissà quale motivo, dormivano da tempo nei depositi dei Giardini della Biennale: era lì che gli addetti del nostro ufficio andavano a prelevarle. Bisognava fare tutto alla svelta perché a giugno sarebbe iniziata la Biennale d’Arte, la seconda edizione dopo la pausa della guerra.

Il tempo correva rapidissimo. I miei due mesi nell’Ufficio Spedizioni e Trasporti d’arte divennero tre, e di lì a poco la titolare dell’incarico annunciò che sarebbe tornata al lavoro. Aveva trovato casa a Mestre e il tragitto le avrebbe portato via più tempo, per cui voleva fare solo mezza giornata. Il principale, il commendator Baradel, mi chiese se fossi disposta a prolungare il mio contratto, riducendo l’orario in modo da alternarmi alla collega: lei sarebbe andata alla mattina e io al pomeriggio. Ovviamente dissi di sì. Lo stipendio sarebbe stato dimezzato, ma qualcosa avrebbe continuato a entrare. Inoltre, avendo più tempo libero, avrei potuto badare alla casa e preparare da mangiare quando la nonna non veniva. Mi stavo abituando a contare un po’ anch’io, in famiglia, e andavo fiera della mia piccola indipendenza.

La cosa più importante restava la scuola serale, dove mi trovavo benissimo: dovevo solo perfezionare il metodo di apprendimento, perché tutte quelle cose già le avevo studiate, ripassate e discusse con Titti e messe a punto con il nonno. Nel frattempo mio padre continuava a dettarmi i suoi appunti. Il suo cruccio era di vedere tanti ex repubblichini (se non addirittura squadristi) riciclarsi come antifascisti. Quando uscivo con lui, magari per accompagnarlo dal tabaccaio, mi accorgevo che tante persone che prima evitavano di salutarlo ora lo venivano a cercare.

«Professore, sono il tal dei tali, meno male che ce l’abbiamo fatta! Si ricorda i tempi scuri, eh?».

«Purtroppo io ricordo tutto», rispondeva lui, nauseato dall’impudenza di quei tangheri. E su questo non potevo che dargli ragione.

Il ritorno di mia madre coincise proprio con il mio esame, che andò benissimo. Anche Giorgio aveva finito l’anno scolastico e la mamma volle riprenderselo subito in casa. Aveva portato con sé tanti racconti sul Libano e anche un bel gruzzoletto di soldini – che ci consentirono di riprendere fiato, una volta pagati tutti i debiti. Solo la nonna non volle indietro nulla, tanto era l’affetto che provava per noi.

Il sole finalmente splendeva anche sulle nostre finestre.

 

 

Una chiamata inattesa

 

Il grosso del lavoro era esaurito e il commendator Baradel mi annunciò che non avrebbe avuto più bisogno di me. Me lo disse con sincero dispiacere, promettendomi che se avesse saputo di qualche altro impiego mi avrebbe chiamato senz’altro. Lo ringraziai di cuore e me ne andai.

Tornata a casa, mi tuffai totalmente nello studio, decisa a conseguire la maturità classica. All’Istituto Zambler prevedevano un primo esame riassuntivo di prima e seconda e l’anno seguente – se tutto andava bene – l’esame di maturità. Ma questo comportava il pagamento di una retta scolastica, che era piuttosto salata. Come avrei potuto pagarla, se non trovavo un altro lavoro? I guadagni di Beirut erano già finiti e la mamma aveva ricominciato a dare lezioni di piano e di canto. Tutto era tornato come prima, con la differenza che eravamo di nuovo insieme, e Giorgio veniva coccolato più del solito. Il papà continuava con il suo fiasco di vino e i suoi strumenti. Malgrado fosse sempre ubriaco, suonava ancora divinamente: e spesso mi fermavo ad ascoltarlo, immagata – a volte anche con la mamma, o magari con qualche vicino che saliva le scale. Perché la musica – come ci ricordava mio padre, nei suoi rari momenti di lucidità – è il linguaggio dell’universo, che tutti, uomini, animali, piante, possono comprendere. E la musica era il nostro pane quotidiano, visto che papà smetteva di suonare verso le 13, per poi riprendere una o due orette nel pomeriggio, prima di sprofondare nel buio di quel vizio maledetto. Io qualche volta lo accompagnavo (male) al pianoforte e talvolta invece era la mamma a suonare con lui: era la sua innata dolcezza a suggerirle di farlo, perché sapeva quanto ne avesse bisogno.

La sorpresa giunse di lì a poco. Nell’ufficio del commendator Baradel lavorava uno spedizioniere molto simpatico, Roberto, con il quale avevo fatto amicizia prima di andar via. Era intelligente, ironico, anche abbastanza colto. Aveva interrotto gli studi per motivi non tanto diversi da quelli che assillavano la mia famiglia. Visto che avevamo sempre sottomano tutte quelle opere, era inevitabile che i discorsi vertessero ogni volta sull’artista di turno. Ma oltre all’amicizia, a dire il vero, tra noi c’era anche qualcos’altro: mi ero accorta di piacergli, e anche lui non mi dispiaceva affatto. A quei tempi, però, una frequentazione più ravvicinata finiva sempre col richiamare l’attenzione di familiari e conoscenti. Troppe complicazioni rendevano difficile l’amore. In più, con tutti i problemi che avevo, non avevo mai trovato il tempo e il desiderio di approfondire quell’aspetto della vita.

Grande fu la mia sorpresa, quindi, quando un giorno sentii suonare il campanello e, affacciatami alla finestra, mi ritrovai Roberto sotto casa. Fece le scale in un baleno, salendo tre gradini per volta, e appena entrato mi abbracciò come se non ci vedessimo da mille anni.

«Vengo da parte del commendator Baradel», s’affrettò a dire, quasi a scusarsi per l’irruzione. «Non è riuscito a contattarti, anche se ha telefonato più volte al numero che gli hai dato». In effetti i signori Bullo avevano traslocato, e non avevamo più accesso al loro telefono. «Vuole che lo chiami urgentemente», continuò Roberto, «perché ha una cosa importantissima da dirti. Se ti è complicato telefonare, puoi andare direttamente nel suo ufficio alla Biennale. L’esposizione si è aperta ai Giardini e lui si è trasferito lì con l’Ufficio Spedizioni e Trasporti. L’orario è dalle 9 alle 18, continuato. Vai Luciana, non mancare: potrebbe essere una cosa importante!». E poi aggiunse, con un fil di voce: «Ma tu mi pensi, qualche volta?».

Se ne andò rapidissimo, senza neanche accettare il bicchier d’acqua che mamma gli aveva portato. Dopo due mesi partiva per New York, dove sarebbe rimasto tutta la vita.

 

 

La Biennale

 

Neanche Duilio, il lattaio, aveva un telefono: l’aveva solo la torrefazione di Dell’Antonia, dove mi recai di corsa per chiamare l’ufficio del commendator Baradel. Mi rispose lui in persona, dicendomi di passare l’indomani mattina perché aveva qualcosa d’importante da dirmi. Mi spiegò come arrivare alla Biennale, ma io andavo sempre a piedi e non sarebbe stato un problema arrivare ai Giardini: una bella passeggiata! Nel cervello mi frullava di tutto e di più: non mi avrebbe chiesto di andare, se non si fosse trattato di una proposta interessante. D’altra parte non sapevo quale fosse il suo rapporto con la Biennale, ma doveva essere di un certo peso, visto che vi aveva trasferito il suo ufficio...

A tavola parlammo solo di questo – oltre che delle «belle maniere da tener mangiando» che mi venivano inculcate da quando avevo il ben dell’intelletto e ora erano il rosario destinato a Giorgio: non pestare le posate sui piatti, non parlare con la bocca piena, non bere se non ti sei prima asciugato le labbra col tovagliolo, non mettere il coltello in bocca, non far schioccare la lingua al palato in segno di apprezzamento, non commentare (nel bene o nel male) il sapore dei cibi a tavola... Mio padre non tratteneva il suo disappunto, quando sentiva la nonna o la mamma brontolare perché avevo lasciato qualche boccone: «Non devi farlo, non è gentile, non è civile soprattutto».

Era il terzo galateo che dovevo incamerare, insieme a quello austriaco del nonno («grazie-prego-grazie») e a quello marxista di papà che imponeva di non lasciare avanzi di cibo sul piatto per rispetto di coloro (i lavoratori) che poi dovevano lavarli.

Non avevo trovato un telefono ma l’appuntamento era chiaro: dalle 9 alle 18 ai Giardini della Biennale – Padiglione Centrale.

Arrivare da Sant’Agostin ai Giardini era una bella passeggiata: praticamente sono i poli opposti della città! Partii da casa alle 8 e prima delle 9 ero già ai Giardini, davanti alla cancellata della Biennale, ovviamente ancora chiusa. Dei giardinieri ripulivano il viale di ghiaia e davano qualche spuntata alle aiuole. Alle 9 in punto cominciò ad arrivare il personale degli uffici (l’esposizione non era ancora aperta al pubblico). Signori, signore, signorine, tutti mi salutavano con un cenno sorridente (allora a Venezia eravamo educati e perbene). E tutti erano vestiti in modo impeccabile! Gli uomini portavano la giacca e le signorine dei completi che trovavo bellissimi. Io avevo messo il maglioncino estivo che mi ero comprata con i primi soldi della mamma da Beirut e la gonna blu che mi aveva fatto la nonna, ricavandola da un completo che mi aveva passato la zia Elsa.

L’ultimo a scendere dal vaporetto che attraccava lì di fronte fu proprio il commendator Baradel, che appena mi vide mi salutò con gran cordialità. Mi fece cenno di seguirlo fino al Padiglione Centrale, dove si trovavano tutti gli uffici che nel periodo dell’esposizione si trasferivano dalla sede di Ca’ Giustinian. Appena varcata la soglia del Padiglione, si rivolse alla persona che gli camminava a fianco. Era un bell’uomo dall’aria rassicurante: capelli radi, abito blu, camicia azzurra come gli occhi, azzurrissimi e freddi. «Ettore», gli disse, «ecco la persona di cui ti parlavo. Lucianina, ti presento il commendator Gianferrari».

Una stretta di mano e i due si congedarono, mentre Baradel mi faceva cenno di seguirlo in uno degli uffici.

 

 

Gianferrari tutto attaccato

 

Una scenografica parete di plastica divideva la zona dei servizi dalla Sala Grande, dove operai, architetti e altri strani personaggi procedevano nel lavoro di allestimento per l’esposizione. Appena entrammo incrociai la sua segretaria, che faceva servizio fuori sede per il periodo della Biennale. “Se si è portato dietro anche lei”, pensai, “forse vuole offrirmi un lavoro...”.

«Siediti che ti spiego in fretta», esordì il commendatore, togliendosi la giacca e aggiungendo: «Scusa, ma mi metto comodo. Il commendator Gianferrari, il signore che ti ho presentato poco fa, è il responsabile dell’Ufficio Vendite della Biennale. Si tratta di un incarico temporaneo, che viene rinnovato a ogni edizione. Quest’anno spetta a lui. Gianferrari è un importante gallerista milanese, esperto d’arte, persona amabilissima ma molto, molto esigente. Cerca una segretaria per i mesi di Biennale, cioè da ora a ottobre. So che ha una lista di persone da provare e gli ho fatto anche il tuo nome. Se gli andrai bene, potrebbe essere una buona occasione».

«Buonissima», gli risposi ringraziandolo.

«Il suo ufficio è lì di fronte, nella nicchia che chiude la rotonda della prima sala del Padiglione. Ti ha già conosciuto e quindi chiedi a lui cosa devi fare, come e quando. Non dirgli subito che hai sedici anni: io gli ho detto che ne hai diciassette. Auguri piccola!».

E mi congedò dandomi una pacca sulla spalla, come un allenatore con il suo pugile.

Io non stavo nella pelle, ma ero terribilmente intimidita: vedevo un gran viavai di persone, tutte impegnatissime a correre da una parte all’altra. Dietro al bancone che delimitava la paratia degli uffici c’era un usciere in divisa grigia. Non gli chiesi niente perché avevo già visto dove si trovava l’Ufficio Vendite: era indicato anche da un cartello con una freccia.

Avanzai guardinga. Il commendator Gianferrari mi vide e mi fece cenno di entrare: l’ufficio non aveva porte, era in una nicchia del salone centrale.

«Signorina», mi disse, «ho accettato di incontrarla perché il commendator Baradel mi ha parlato molto bene di lei, e la ringrazio di essere venuta. Devo anche dirle, però, che avevo già preso un impegno con un’altra ragazza, che verrà a breve per fare una prova. Visto che è qui posso provare anche lei, pure subito, e poi vedremo. Che vinca la migliore!».

Parlava con una voce suadente, l’accento milanese, la erre strascicata, e aveva modi gentili e discreti. Gli risposi che per me andava bene. Mi fece entrare e vidi che dietro alla sua scrivania c’era una parete con tanto di porta: quello, semmai, avrebbe dovuto essere il mio ufficio...

«Qui c’è il tavolino con la macchina da scrivere», mi disse. E notai con gioia che era... una Remington! «Nei cassetti trova la carta per le belle e le brutte copie», continuò il commendatore, «insieme alla cancelleria. Il tavolo grande serve più che altro per concludere le trattative, che cominciano lì fuori, dove vede la mia scrivania e le due poltrone. Lo scaffale in fondo è per i raccoglitori, dove mettiamo la corrispondenza suddivisa in cartelle. E qui ci sono le cartelline vuote».

Aveva un tono autorevole, che mi metteva in soggezione: sorrideva spesso, ma senza dare confidenza. «La signorina che viene per la prova», aggiunse, «arriverà tra mezz’ora, quindi facciamo in fretta. Il commendatore mi ha detto che lei conosce bene la dattilografia».

«Anche la stenografia e il francese», aggiunsi, come al solito.

«La stenografia può servire, il francese no. Lei dovrà soltanto accogliere i clienti e dirgli di ripassare più tardi, in caso non ci fossi io. Ora le consegno un foglio scritto a mano e dovrà ricopiarlo a macchina, dandogli l’impaginazione di una normale lettera d’ufficio».

La sua calligrafia era piccola e ordinatissima, sembrava stampatello. Le righe scritte a mano erano diritte, neanche una sbavatura. Si firmava Ettore Gian Ferrari, mentre sulla targa dell’ufficio c’era scritto «GIANFERRARI», tutto attaccato. Gli chiesi se avessi dovuto scriverlo separato o no.

«Brava», mi disse, regalandomi un cenno di simpatia. «Le dico subito che troverà spesso il mio nome scritto con tre parole, Ettore Gian Ferrari, ma da neanche un mese è cambiato, e dovrà scrivere Gianferrari». Pensai con simpatia a quel vezzo, volto forse a impreziosire un cognome troppo comune. E iniziai a scrivere.

Copiare da un foglio così ordinato era uno scherzo e in un attimo la lettera fu pronta. «La rileggo io», mi disse il commendatore, tendendo la mano per prendere il foglio che gli porgevo. «Ora può aspettare fuori, se non le dispiace. Nel viale troverà delle panchine. Torni qui tra un’ora e le saprò dire. Grazie e arrivederci».

Uscii nell’atrio ma non andai fuori nel viale: rimasi a guardare l’andirivieni dei carretti che trasportavano le casse con le opere da installare. Il mio scopo, in realtà, era sentire il ticchettio della macchina da scrivere della ragazza che provava dopo di me. L’avevo vista entrare poco prima: avrà avuto vent’anni, ben vestita, capelli castani e scarpe con tacco alto. Mi misi vicino alla parete dell’Ufficio Vendite, fingendo di guardare i facchini al lavoro. Il commendatore e la ragazza parlarono a lungo, poi cominciai a sentire il ticchettio dei tasti. A giudicare dal ritmo, non c’era paragone: ero stata molto più veloce della mia “avversaria”!

Ma non si sa mai.

 

 

È fatta!

 

In attesa del verdetto finale, uscii a passeggiare nel viale. Fu uno degli operai a dirmi che qualcuno mi stava cercando: era il commendator Gianferrari, che mi accolse con un sorriso più convinto di quelli precedenti.

«Ho scelto lei, signorina Crovato. Venga che definiamo il tutto».

Non avevo neanche il fiato per rispondere: parlò soltanto lui. Mi fece sedere sulla poltrona riservata ai clienti, davanti alla sua scrivania nell’angolo.

«Devo ammettere che lei è davvero molto svelta. Cominciamo domattina alle 9. In quell’armadietto in fondo potrà mettere le sue cose. Anche lo spuntino, se vuole, perché l’orario è continuato: tra le 13 e le 14 può mangiare qui dentro, ma sempre restando pronta ad accogliere eventuali clienti. L’ufficio non chiude per la pausa pranzo. Ci sarà da lavorare molto, perché inauguriamo la settimana prossima. Come sarà vestita?».

Bella domanda: passai rapidamente in rassegna il mio guardaroba. L’unico cambio che avevo era l’altro maglioncino acquistato da poco, da abbinare sempre con la gonna blu di Mignon.

«Avrei un grembiule nero», dissi.

«Ha almeno un collettino bianco?».

«Ho un colletto di merletto di Burano», gli risposi. «Color avorio».

Lo approvò.

«Sappia», aggiunse salutandomi, quasi con tono confidenziale, «che di me si dice che non ho un buon carattere».

«Io credo invece di averlo», replicai, e la risposta dovette piacergli.

«A domani, allora. Lo stipendio è di ventimila lire, versato entro il 5 di ogni mese».

E mi congedò senza più stringermi la mano, come si fa con chi si considera... di casa.

Non presi la strada interna, che mi avrebbe portato più in fretta a Sant’Agostin. Uscita in riva degli Schiavoni, la percorsi quasi correndo fino a piazza San Marco, e da lì passai per le Mercerie e il ponte di Rialto, diretta a casa. Mi sembrava di volare.

Salii le scale come un fulmine e appena entrata in casa abbracciai la mamma, senza dir niente. Poi ci guardammo e le annunciai tra le lacrime: «È fatta, mamma. Ho vinto».

Papà, che mi aveva sentito, gridò: «Brava, Luciana mia!».

E poi riprese a suonare il clarinetto.

 

 

Vivere

 

C’era poco da scherzare: per la prima volta entravo a far parte di un tempio come la Biennale. Di questa istituzione avevo tanto sentito parlare: il padre di un amico mio e della Titti era commissario per le Arti Decorative, che solo di recente erano state ammesse ai Giardini della Biennale. C’erano state molte polemiche in merito, perché i puristi non tolleravano che l’artigianato fosse esposto accanto all’arte pura, essendo destinato al mercato. «Ma anche i quadri si vendono!», ribatteva chi sosteneva il contrario. Alla fine si trovò una via di mezzo: il Padiglione delle Arti Decorative si costruì oltre il ponte, quasi a Sant’Elena, affidando all’acqua la divisione tra la nuova arte e quella tradizionale.

Ora questi discorsi entravano a far parte della mia realtà, scanditi dai miei passi sul viale che portava al Padiglione Centrale. Quel giorno c’era stato un gran tumulto in casa, come per il mio primo giorno di scuola. La principale preoccupazione era stata l’abbigliamento: il maglioncino celeste leggero, per fortuna, andava sempre bene con la gonna blu. In borsa avevo il grembiule nero, con il colletto di pizzo al quale la nonna aveva rinsaldato i bottoni automatici. Il pettine, uno specchietto, il rossetto. Una gruccia che mi aveva dato la mamma, per appendere i vestiti quando mi sarei messa il grembiule. C’era anche il pacchettino con il cibo: un contenitore da spiaggia con dentro pasta e fagioli e un cartoccio con il formaggio e due fette di mortadella, un bicchiere e un panino.

Arrivai alle 9 in punto. Davanti all’ufficio vendite c’era ancora una delle donne delle pulizie con il carrettino di servizio. Non rispose al mio saluto e m’infilai diritta nella stanza mostratami dal commendator Gianferrari. Mi cambiai in un attimo, riposi la borsa con le mie cose nello scaffale e appesi la gruccia in un angolo. Il tempo di darmi una ravviata e “il milanese” (come scoprii che lo chiamavano le mie colleghe) entrò in ufficio, salutando con un «buongiorno» che mi parve rivolto all’aria – anche se ero da sola nella stanza. Gettò uno sguardo alla mia mise e non disse nulla: segno di approvazione! Poi mi fece cenno di avvicinarmi al suo tavolo e mi consegnò una decina di fogli scritti di suo pugno.

«Sono lettere che devi copiare alla svelta. L’intestazione a sinistra, la data a destra e poi il testo. Ricordati di firmare Ettore Gianferrari, tutto attaccato. Quando le hai pronte portamele in questa cartellina. In rubrica invece segnerai tutti i destinatari».

Mi misi subito al lavoro. Di dieci fogli, la maggior parte erano lettere per le banche, abbastanza simili l’una all’altra. Si trattava di offerte per l’eventuale acquisto di uno dei quadri esposti alla Biennale: Gianferrari proponeva due o tre pittori, dava una descrizione sommaria di ognuno e sottolineava la convenienza della proposta. Una di queste riguardava un quadro di Matisse, e il commendatore colse l’occasione per parlarmi del suo celebre “blu”.

 

 

Gente nuova

 

In quell’ufficio passavano clienti importanti, soprattutto artisti. All’epoca tutti quei nomi non mi dicevano niente, così andavo a cercarli di volta in volta nelle pubblicazioni che occupavano il tavolo dell’ufficio e nei cataloghi. Quasi tutti erano gentilissimi con me, nessuno insolente. A volte qualcuno mi chiedeva di copiargli un bigliettino o qualcosa a macchina, magari un trafiletto di un giornale o qualche commento critico. Gianferrari non diceva niente e mi lasciava fare. Con gli artisti aveva un rapporto speciale: il tono suadente che riservava ai clienti si faceva leggermente autoritario, specie quando concordava i prezzi o le offerte.

Ricordo in particolare Semeghini, pittore di Burano, perché veniva spesso e insisteva per farmi un ritratto. Quando lo dissi alla mamma, me lo impedì scandalizzata: credeva fosse solo un pretesto per attirarmi nel suo studio e approfittare di me. Così dovetti rinunciare a una bella occasione – perché Semeghini, con quella sua aria da isolano un po’ sperduto, era una persona perbene, oltre che un bravissimo artista. Gianferrari con lui trovava sempre da discutere, perché – sosteneva – «Semeghini in realtà non vuole vendere».

I giorni passavano tra alti e bassi e io cercavo sempre di dare il meglio di me. Gianferrari era molto bravo ma anche molto, molto esigente. Pretendeva un rigore assoluto e io lo trovavo anche giusto, perché così mi era stato insegnato.

«Stile Austria», diceva scherzando la Titti, quando le raccontavo le strigliate che prendevo quasi ogni giorno. Però a volte ci restavo male.

Un giorno, rientrando in ufficio prima del solito, mi trovò seduta su una panchina del viale. È vero, avrei dovuto restare in ufficio, ma non c’erano finestre e il caldo era insopportabile... Mi fece una scenata teatrale e trattenni a stento le lacrime. Un’altra volta mi chiese di portargli una lettera che avevo appena copiato: era con due signori ai quali evidentemente doveva farla leggere. Gliela portai e andò su tutte le furie, perché c’era un errore. In realtà l’errore era già presente nel testo che aveva scritto a mano, ma mi ero guardata bene dal segnalarglielo, limitandomi a copiare. Non feci in tempo a dirlo, perché mi apostrofò in modo quasi offensivo, intimandomi di ricopiare subito la lettera. Quella volta sapevo di aver ragione e il suo rimprovero mi aveva veramente offeso: così, mentre i suoi ospiti si accommiatavano, cercai nel cestino la brutta copia. Appena restò da solo, mi feci coraggio e gli dissi: «Mi dispiace, commendatore, io non osavo correggerla e ho copiato pedissequamente. Però l’errore l’avevo visto, perché conosco bene l’italiano».

Era la prima volta che osavo difendermi: ma mi aveva umiliato ingiustamente davanti a degli estranei. Lui guardò prima la minuta e poi me.

«Indubbiamente», disse, «la distrazione è stata mia. Ma tu sei stata molto ingenua, stupidina, perché, se vuoi far strada nella vita, quand’è così devi far finta di niente. Avresti dovuto correggere l’errore, senza dirmi che era stato mio. Ora vai al bar e prenditi una granita alla menta, che ti piace tanto. E scusami se ti ho trattata male».

In fondo era una persona corretta, con quel senso del lavoro tutto milanese che viene prima di ogni altra cosa.

 

 

Via i barboni!

 

Ma il momento più difficile, per me, fu un altro: ed è rimasto scritto nella mia memoria.

Saranno state le 11 e 30 del mattino. Ero seduta davanti alla scrivania del commendatore, che mi dettava le lettere del giorno, quando vidi sopraggiungere mio padre, che cercava il muro col suo bastoncino, senza trovarlo. Indossava il solito completo grigio, vecchio di almeno dieci anni. Alzando gli occhi, Gianferrari mi disse perentorio: «Ci mancano pure i barboni, adesso. Fallo mandare via».

Non gli risposi e andai incontro al papà.

«Che fatica trovarti, Luciana», mi disse, tutto accaldato. «Ti eri dimenticata il borsino con il mangiare. La mamma aveva una lezione così sono venuto io. Ce l’ho fatta, vedi? Ma che fatica...».

«Non dovevi», gli dissi, ringraziandolo.

Lo accompagnai verso il viale pregando Aldo Rosa, uno degli uscieri, di guidarlo fino alla Riva, e poi tornai di corsa in ufficio – dove il commendatore era rimasto ad attendermi, visibilmente arrabbiato.

«Scusi», gli dissi, «era mio padre. Mi ha portato da mangiare perché questa mattina avevo dimenticato il borsino a casa».

Il suo fare burbero si sciolse, tradendo la presenza di un cuore.

«È cieco?», mi domandò.

«Sì. Si è bruciato per cercare di domare un incendio».

Gianferrari non disse niente, solo un sommesso «mi dispiace». Ma quella sera, prima di uscire, mi posò una mano sulla testa. Una mano protettiva, sincera, buona.

 

 

Estate

 

Era una bella estate. Qualche volta all’uscita trovavo la Titti e qualcuno dei nostri amici: i figli di Izzo, Aldo e Alberto, la Gemy, la Lola... e allora facevamo insieme la strada verso casa.

Con la Titti, ormai, l’amicizia s’era consolidata. Parlavamo di tutto, ma quasi mai d’amore, se non per commentare i film che avevamo visto insieme durante l’inverno. Quasi tutti i sabato pomeriggio lei andava al cinema con suo padre, e a volte portavano anche me. Su quei film, passavamo interi giorni a discutere. Ognuna aveva i suoi attori preferiti: io tifavo per Charles Boyer, Gregory Peck e soprattutto Jean Gabin. Ma erano ancora sogni da ragazzine: l’amore vero era di là da venire... La nostra preoccupazione più immediata, invece, era l’acconciatura dei capelli. Io tentavo inutilmente di rendere più lisci i miei, mentre Titti si sforzava di arricciare i suoi, dritti dritti, che le consentivano di ritagliare al massimo una piccola frangia. Quanto all’abbigliamento, lei era sempre impeccabile: nulla fuori posto ma tutto – sosteneva dispiaciuta – scelto da sua madre, che le imponeva il suo gusto. E Titti la assecondava, per non dover discutere di... sciocchezze. Quanto a me, vestivo sempre di scuro – perché i miei abiti erano sempre rimediati da qualche adulto: era la nonna a ravvivarli con qualche accessorio colorato. Ma la moda era solo un argomento da carta patinata: non era così fondamentale, a quel tempo, avere un bel guardaroba. O almeno, non lo era per noi.

Quell’estate, purtroppo, il mio lavoro ci tenne un po’ lontane. La signora Vighy aveva affittato una capanna per tutta la stagione e anch’io ero stata invitata: ma non avevo mai occasione, perché si lavorava anche di domenica. Uscivo alle 18 e 30 ed era già troppo tardi, perché la Titti tornava a casa a quell’ora per studiare un paio d’ore prima di cena.

L’idea di fare un salto al mare, però, mi sfrugugliava. Così un giorno pensai di andarci all’uscita dal lavoro. La spiaggia chiudeva alle 20: avrei potuto prendere il vaporetto per il Lido alle 18 e 38 ed essere a Santa Maria Elisabetta alle 18 e 50. Poi di corsa il Gran Viale fino al Des Bains, e finalmente... mare!

Arrivai mentre iniziavano già a chiudere, ma c’era ancora qualcuno che si tratteneva in spiaggia. Dissi al bagnino che sarei rimasta giusto fino alle 20. Stabilimento quasi deserto, nessuno in acqua, l’aria tiepida di fine giornata, un sole che ormai si indovinava all’orizzonte, ma scaldava ancora. Mi piacque a tal punto, che continuai a farlo per tutta la settimana. Entravo in acqua con una gioia infinita: era il piacere della libertà a inondarmi, la consapevolezza di una condizione che sentivo fortunata...

Ma quanto sarebbe durato? A fine ottobre, terminata la Biennale, saremmo ripiombati nel dramma. Anche mia madre aveva meno lavoro. Sandrina non le chiedeva più di scriverle le lettere d’amore, perché il siciliano l’aveva piantata tornandosene a casa. E adesso eravamo senza pane.

La settimana dopo decisi che non sarei più andata al Lido, tornavo a casa troppo tardi e stanca. A venir meno, soprattutto, era il tempo dello studio, perché alla sera non avevo voglia di prendere i libri in mano. Mi ero promessa di prepararmi al liceo. Appena concluso il mio lavoro alla Biennale mi sarei di nuovo iscritta alla scuola serale. Ma i corsi erano carissimi, non sapevo come avrei fatto a pagarli.

E intanto era già settembre.

 

 

Non può essere vero

 

Il lavoro all’Ufficio Vendite marciava bene. Gianferrari era bravissimo a piazzare i quadri, alcuni importantissimi. Il suo segreto era in quelle lettere che spedivamo a centinaia a tutti gli istituti, le banche, le università, i grandi centri di medicina, le associazioni. Pochi si sottraevano alla tentazione di possedere un’opera esposta alla Biennale.

Un giorno di fine settembre, venne a trovarci il segretario generale della Biennale, professor Rodolfo Pallucchini, per congratularsi con Gianferrari della conduzione dell’ufficio e in particolare dell’ultima, clamorosa vendita andata in porto. Abbastanza alto, occhiali, capelli bianchi su un viso ancora giovane (avrà avuto neanche cinquant’anni) il professor Pallucchini era molto cortese: pacato e conciso, non doveva alzare la voce per esprimere la sua autorevolezza. Aveva anche lui la erre strascicata, ma un po’ diversa da quella di Gianferrari.

Al momento di andarsene mi salutò e mi chiese se fossi veneziana. Prima che potessi rispondergli, Gianferrari gli disse: «Professore, se permette l’accompagno un minuto fino al viale. Devo dirle una cosa». Si assentò con Pallucchini per qualche minuto, poi tornò a prendere il suo borsetto e mi salutò. «A domani», disse. E se ne andò.

I giorni passavano rapidissimi: io li vivevo con il dispiacere, sapendo che anche l’esperienza in Biennale stava per concludersi. Quel lavoro mi aveva riempito di gioia, mi aveva fatto sentire adulta, importante, utile non solo ai miei ma a un’istituzione importante.

Intanto l’aria si era fatta più fresca. Qualche pioggia annunciava l’arrivo dell’autunno. Quella mattina venne a cercarmi una delle signorine che lavoravano in Biennale e mi disse: «Oggi pomeriggio alle 17 vieni dal professor Pallucchini, che ti vuole parlare».

Andai nel panico. Cosa avevo fatto? Forse era rimasto contrariato dal mio abbigliamento, perché portavo il grembiule nero, mentre le signorine della Biennale erano sempre elegantissime?

Lo dissi al commendator Gianferrari, che mi tranquillizzò: «Vorrà semplicemente salutarti, prima che tutto sia finito. Se ti chiedesse quanti anni hai, ricordati di non dire che ne hai sedici. Anche perché tra un mese ne fai diciassette, se non sbaglio...».

Era la verità: il 2 ottobre avrei compiuto diciassette anni.

Alle 16 e 55 mi presentai davanti all’usciere, Angelo, che ormai mi conosceva benissimo: qualche volta, all’ora di pranzo, mi aveva raggiunta per fare due chiacchiere, offrendomi anche dei cioccolatini che teneva sempre con sé. Mi annunciò ed entrai nell’ufficio dei Giardini, destinato al segretario generale.

«Buonasera signorina, si sieda. Sarò brevissimo. In questi mesi l’abbiamo vista lavorare e sappiamo – ce l’ha confermato Gianferrari – che ora che la Biennale chiude resterà senza lavoro. Ma soprattutto, sappiamo che è una brava stenodattilografa. Vorremmo trattenerla con noi e, se le fa piacere, assumerla in Biennale».

Non avevo neanche il fiato per respirare. Lo guardavo e continuavo a ripetere: «Grazie, è una cosa bellissima...».

«Allora in questi giorni passi nell’ufficio personale, dove il cavalier Ferrari le spiegherà tutto. Noi, appena chiusa la Biennale, torneremo nella sede di Ca’ Giustinian, a San Marco. E lì ci rivedremo».

Poi si congedò da me, stringendomi la mano: «Congratulazioni, allora. L’ho sentita anch’io battere a macchina, e le faccio davvero i complimenti».

Mi allontanai con un nodo di gioia alla gola. Era quella sensazione che mi ha accompagnato tante volte nella vita – e forse mi accompagna ancora: la consapevolezza, nonostante tutto, di essere una persona fortunata.

 

 

Si comincia?

 

Quella sera, tornando a casa, mi divertii a immaginare come avrei dato la notizia. Appena entrata? A cena? O magari l’indomani? Mi chiedevo se avrei trovato in casa anche il papà (lucido, si spera) e la nonna... Oppure l’avrei fatto annunciare alla Titti, il giorno dopo... E poi, avrei potuto frequentare i corsi serali per la maturità?

Suonai il campanello con energia (me ne accorsi perché il tirante restò incastrato e dovetti arrampicarmi sulla porta per rimetterlo in sesto: scherzi della felicità!). In casa trovai mamma e papà con Giorgio, che stava finendo i suoi compiti in salotto. Salutai tutti senza proferir verbo. Mia madre, come sempre, mi chiese subito com’era andata.

«Come al solito», risposi.

«Oggi è venuta la signora Tina», mi disse, mescolando la polenta. «Gigi è bravo ma dovrebbe prendere qualche ripetizione di francese. Pensava che potresti dargliele tu, una o due orette alla settimana...».

«Perché no?», dissi. «Magari alle 8 di sera».

La signora Tina e suo figlio Gigi erano i più simpatici tra i condomini del 2320 di Sant’Agostin. Lei era bionda, minuta, gentile, bella. Viveva con i genitori, i fratelli e la cognata dopo essere tornata in casa con il bambino, in seguito alla separazione dal marito. Aveva una relazione affettuosa con il dottor Mario Ronfini, fratello di quell’ingegner Ronfini che mio padre aveva salvato dalla morte quella volta in cui era caduto in acqua a San Zan Degolà. Tina era diventata amica della mamma e quasi ogni giorno veniva da noi a passare un po’ di tempo. Ormai era una di casa, e suo figlio era diventato amico di Giorgio e mio.

Mangiammo la polentina con le sarde parlando del più e del meno, e poi aiutai la mamma a sparecchiare e a lavare i piatti. Una serata che si annunciava come tante. Papà era tranquillo e appena finito di mangiare andò in salotto per suonare il sax, che teneva nell’angolo vicino al pianoforte. Arrivò la signora Tina, per sentire cosa potevo dirle delle lezioni di francese da dare a Gigi. Ci accordammo per una volta alla settimana, alla sera, finché non avesse trovato una soluzione più consona.

Mentre finivo di lavare i piatti, la mamma e Tina cominciarono a chiacchierare; dal salotto, intanto, il papà faceva sentire qualche nota di sax.

«Fa compagnia sentire un po’ di musica», disse la Tina a mia madre, felice di sapere che non eravamo un disturbo per i vicini di casa.

Finiti i piatti proposi di andare tutti in salotto, dove Giorgio si era sistemato vicino al papà con le bacchette della sua piccola batteria. Senza dire nulla, mia madre si sedette al pianoforte e cominciò uno di quei concerti serali che mi facevano tanto bene al cuore. La musica ci accompagnò tutta la sera e sentii tutto il benessere e la serenità che mi dava quel nostro modo di vivere un po’... zingaro. Nessun dramma era mai riuscito a eliminare del tutto quella gioia: eravamo una bella famiglia, in fondo.

Passammo due ore in musica e alla fine, quando la signora Lazzarini se ne andò perché Gigi aveva sonno, e papà staccò il morsetto della cinta che reggeva lo strumento, dissi tutto d’un fiato: «Mi hanno assunta alla Biennale».

La mamma mi abbracciò senza dire niente e il papà si asciugò una lacrima.

Si può piangere anche senza gli occhi, sia di dolore che di gioia.

Quella notte stentai a prendere sonno, facendomi mille domande sul lavoro che mi aspettava. Alla mattina, con il borsino del pranzo, in cui la mamma aveva messo quattro sarde fritte e una fetta di polenta avanzate dalla sera prima, uscii più leggera e feci la strada quasi di corsa.

Appena arrivata al Padiglione dei Giardini, chiesi ad Angelo un appuntamento con il signor Ferrari, capo del personale e direttore tecnico. Angelo tornò di lì a poco, domandandomi a che ora avrei preferito incontrarlo.

«Ovviamente nella pausa pranzo», risposi.

E così fu.

 

 

La vita è bella

 

«Siediti», mi disse Mario Ferrari, mettendomi subito a mio agio. Era un signore sui quarant’anni, dall’aria molto sobria e con un sorriso buono.

«Il professor Pallucchini mi ha detto che vorrebbero assumerti qui in Biennale. Io ti ho visto lavorare in questi mesi e penso che saresti un buon acquisto. Ma devo sapere quanti anni hai e quali titoli di studio».

Non gli nascosi niente, dicendogli che a giorni avrei compiuto diciassette anni e che frequentavo i corsi serali per prendere la maturità. In mano, oltre alla licenza conseguita alla Vendramin Corner per l’avviamento commerciale, avevo il diploma di terza media ottenuto da priva­tista.

Ferrari non si soffermò sui titoli di studio, ma sull’età: «Dovrò parlare con il presidente, Giovanni Ponti, perché noi non possiamo assumerti se non hai compiuto i diciotto anni. Ce lo impone la legge».

Mi prese un grandissimo sconforto. Ferrari dovette averlo intuito, perché cercò di rassicurarmi. Lo salutai per tornare al mio posto, che all’ora del pranzo mi garantiva un po’ di tranquillità. A quell’ora, infatti, non era mai venuto nessuno a cercare il signor Gianferrari. Mangiai la fetta di polenta con le sarde in preda alla tristezza e alla rassegnazione. Non era vero che ero fortunata. Non avrei dovuto dire niente a casa, prima di avere la certezza che sarei stata assunta: ora la delusione sarebbe stata molto amara.

Sono sempre riuscita a controllare il pianto. Uno dei mantra di mio padre mi raccomandava di fare appello alla cosiddetta forza: cercare di non piangere, mai. Ma in quel momento la forza non c’era e mi lasciai andare: rintanata nell’ufficio, mi abbandonai a un pianto a dirotto, cercando solo di non far rumore, perché nessuno se ne accorgesse.

Se ne accorse però Gianferrari, che rientrando mi chiese con gentilezza cosa fosse accaduto. Gli spiegai tutto, scusandomi per quelle lacrime che mi umiliavano.

«Vai subito al bar», mi disse, «e prenditi una granita alla menta».

Mi ero molto affezionata a quel milanese temuto da tutti ma così buono e giusto. Lavorare con lui mi aveva fatto imparare tante cose, mi aveva fatto crescere professionalmente, come si usa dire. Che poi vuol dire crescere e basta.

Per giorni non seppi più nulla. A casa dissi solo che bisognava controllare alcuni dati, ma che il lavoro era garantito.

Intanto, nell’Ufficio Vendite, lavoravamo alacremente per portare a termine le ultime pratiche in sospeso. Gianferrari mi fece battere a macchina l’elenco di tutte le trattative condotte – anche quelle non andate in porto, che per fortuna erano poche. Era una specie di diario di tutto il lavoro fatto, che mi chiese di consegnare a mano ad Angelo, affinché lo desse al presidente della Biennale, professor Giovanni Ponti, e al professor Rodolfo Pallucchini, segretario generale.

Portando le due buste negli uffici incrociai il signor Ferrari, che mi disse: «Questa sera prima di uscire passa da me. Ho qualcosa da dirti».

Risposi di sì con la testa, senza dire nulla: non ne avevo il coraggio.

Quando il signor Gianferrari lasciò l’ufficio (erano venute a prenderlo la moglie e la figlia, Claudia) corsi subito da Ferrari, che mi ricevette senza farmi aspettare neanche un minuto.

«Luciana, devo dirti una cosa molto importante, anche per me. Qui in Biennale siamo sempre corretti e non abbiamo nulla da nascondere nella gestione del nostro lavoro. Il tuo problema è che sei troppo giovane: quindi bisognerà trovare una formula che accontenti non solo il professor Pallucchini, che ti vuole assolutamente, ma anche il presidente, che ci tiene a far tutto per bene. Posso assicurarti che anche lui ti vorrebbe in Biennale».

Belle parole, ma... parole.

«Quindi per ora non se ne fa niente?», domandai.

«È una condizione inconsueta per noi ma il professor Ponti mi ha autorizzato a procedere in questo senso rassicurandoti che al compimento dei tuoi diciotto anni ti assumiamo senza alcuna ulteriore prova: la prova ce l’hai data in questi mesi in cui tutti, credimi, abbiamo apprezzato non solo la tua velocità a macchina ma il tuo modo di lavorare. Il tuo stipendio, ventinovemila lire mensili, ti verrà consegnato in contanti il 31 di ogni mese. Dopo i diciotto anni, quando sarai regolarmente assunta, avrai anche la tredicesima mensilità per Natale. Ma, a me lo puoi dire, dove hai imparato a scrivere a quella velocità?».

«Su una vecchia Remington senza zeta».

«Vai pure, grazie».

 

La vita è bella. No, è bellissima!