Thomas Bishop sedeva immobile, come morto, nella stanza sconosciuta. Sulla parete opposta un vecchio televisore annunciava con entusiasmo la svendita di shorts da mare. Sopra il cassettone c'era una banana mangiata a metà e la sua buccia gialla stonava con la polpa che stava diventando nera. Uno scarafaggio strisciava sul davanzale della finestra. Fuori una sirena passò ululando e presto svanì nella bruma mattutina. Con grande sforzo, Bishop si concentrò sui titoli di copertina della rivista appena comprata.
"CARYL CHESSMAN. UNA VITTIMA DELLA PENA DI MORTE?", lesse per la centesima volta, le lettere maiuscole gialle che attraversavano il bordo superiore della copertina. L'immagine sottostante mostrava una bellezza in bikini che saltellava allegramente su una spiaggia lontana. Aprì la rivista alla pagina giusta. In alto c'era una fotografia, la prima che lui avesse mai visto di Caryl Chessman. La osservò a lungo. Chessman si teneva il mento con la mano destra in posa meditabonda, la mascella poggiava nell'arco tra il pollice e le altre dita come se volesse dire qualcosa ma non sapesse cosa o a chi. Dopo un poco il viso cominciò ad annebbiarsi davanti ai suoi occhi e gli parve di aver udito la voce di suo padre.
All'inizio timidamente, poi con chiarezza brutale, ascoltò, in tutti gli orrendi dettagli, il suono dei demoni che distruggevano bambini, percuotendo, bruciando e frustando i piccoli corpi. Tutti i demoni erano donne in costume da bagno, con i seni rotondi e con i corpi di farfalla che folli s'insinuavano nelle loro orribili tentazioni, imprigionando con le bocche aperte da urla spaventose i piccoli volti. Rumori orrendi scaturivano smodati da segreti recessi, e a mano a mano tutte quelle forme demoniache si decomponevano in uno sfacelo purulento, lasciando soltanto le urla dei bambini.
Molto più tardi, con gli occhi ancora incollati alla pagina, Bishop lesse della vita e della morte di Caryl Chessman. Rilesse l'articolo molte volte, riflettendo su ogni dettaglio del crimine e sul castigo del padre. Apprese degli stupri, così come li aveva riportati la pubblica accusa durante il processo, degli anni di sofferenza reclusa e tormentata, tanto simile a quella che lui stesso aveva patito nello stesso periodo. Vide la camera a gas con le mura verdi e le sedie munite di cinghie, udì il lento gorgogliante suono della morte, un respiro d'agonia dopo l'altro, fino a quando non rimase che il corpo, vuoto e in pace. Finì per convincersi che suo padre non solo era una vittima della pena di morte, della quale a lui non importava niente, ma anche delle donne.
Continuò a scorrere le parole in cerca di significati nascosti. Sentiva che in qualche modo Chessman era dietro alle parole e cercava disperatamente di comunicare con lui. All'inizio, con fatica, continuò a mettere insieme i vari pezzi. Le donne vivevano in una costante e perpetua agonia, forse condannate da una maledizione divina. Mettevano al mondo la vita nel dolore, sapendo che l'unica conseguenza sarebbe stata la morte. Questa consapevolezza, viscerale e inevitabile, le faceva impazzire oltre ogni sopportazione. Nel loro orribile tormento si scagliavano contro gli uomini, contro quelli che avevano dato loro il seme della vita e le avevano condotte quindi alla dannazione e alla morte. Usando ogni possibile stratagemma, seducevano, asservivano e distruggevano ogni uomo alla loro portata, istintivamente, in una titanica battaglia senza tregua per la sopravvivenza, in un mondo totalmente impazzito. Ma non potevano vincere, naturalmente. Erano condannate perché senza la morte non c'era vita e, mentre nella loro mostruosa sofferenza cercavano di uccidere chi donava la vita, accettavano nei loro corpi grotteschi il seme che portava la morte. Così l'orrendo circolo continuava ininterrotto, lasciando solo vittime nella sua scia insanguinata.
Infine Bishop realizzò che i demoni che infestavano i suoi sogni non erano solo mostri femminili che dovevano essere distrutti perché malvagi, ma donne che avevano sofferto orribilmente e desideravano terminare il loro inenarrabile tormento con la benaccetta benedizione della morte. Che il male incarnato e la sofferenza inaudita potessero abitare nello stesso corpo gli appariva normale quanto una donna con due seni.
Una volta terminata la sua meticolosa lettura dell'articolo, strappò con cura le pagine della rivista. Le ripiegò accuratamente a metà e ancora a metà per poterle tenere in tasca. Poi iniziò a scrivere una breve lettera al direttore della rivista con una calligrafia contraffatta. Non abituato a scrivere, si sforzò su ogni parola. A un osservatore nascosto in quei momenti poteva sembrare uno studente di college impegnato per gli esami.
Nella modesta camera ammobiliata la televisione stava rivelando con una soap opera le contorte vite emotive degli abitanti di una cittadina apparentemente tranquilla. Sul cassettone la mezza banana era lentamente diventata di un colore marrone soffice e fragrante. Sul davanzale non c'era più lo scarafaggio e il rumore esterno aumentava mentre il pomeriggio pigro volgeva verso l'ultima sera di luglio.
La prima notte di quel fatidico mese, Bishop la passò seduto davanti a una finestra, a Willows, in attesa della pioggia che non si decideva ad arrivare. Sapeva cosa doveva fare per andarsene e, in linea di massima, cosa avrebbe dovuto fare dopo. I vestiti erano pronti; l'armonica, il pettine, il portafogli, l'anello, l'orologio, l'accetta, erano tutti pronti. Aveva anche una lattina di panna montata spray per bloccare l'allarme sul tetto, comprata da un inserviente della cucina naturalmente per una bella cifra, un trucco che aveva imparato da un film francese trasmesso anni prima in TV. Tutto e tutti, compreso Vincent Mungo, stavano aspettando l'unica cosa che lui non aveva sotto controllo. Ma sperava che la pioggia iniziasse a cadere presto.
La sua furia per essere rinchiuso era adesso così incontenibile che solo il suo straordinario autocontrollo riusciva a impedirgli di screditare la nuova figura di sottomissione. Spesso nei mesi passati aveva rischiato di perdere il controllo, ma ogni volta la sua astuzia animale lo aveva salvato dal disastro. Vincent Mungo faceva parte del suo progetto e doveva essere distrutto, anche se non era un demone. Bishop desiderò che Mungo fosse una donna.
Seduto accanto alla finestra, riesaminò diverse volte il suo piano. Dopo essere saltati dal tetto e atterrati sul terreno reso morbido dalla pioggia, avrebbe ucciso Mungo con l'accetta e poi si sarebbe affrettato al canale di scolo, dove sarebbe scivolato sotto il muro di cinta verso la libertà. L'accetta se la sarebbe portata dietro perché era stata smarrita prima dell'arrivo di Mungo e avrebbe quindi rivelato il suo piano se l'avessero ritrovata. Senza una prova, i giardinieri non avrebbero mai ammesso di aver perso un attrezzo del genere.
Il corpo di Mungo, una volta distrutto il suo viso, avrebbe avuto indosso la sua uniforme e le sue cose. L'orologio e l'anello sarebbero scomparsi. Le impronte digitali sarebbero state inutili perché a Mungo non erano mai state prese, visto che non era mai stato arrestato. Neanche a lui erano state prese. Il piano era ingegnoso e infallibile e Bishop era convinto che questo dimostrava ancora una volta la sua genialità e la superiorità della sua mente.
Per essere assolutamente sicuro, escogitò un'ultima precauzione per il suo piano, anche se pensava che non sarebbe stata necessaria. Quando Mungo arrivò a Willows, Bishop se lo fece subito amico: si facevano la doccia insieme, l'uno accanto all'altro, ridendo, scherzando e masturbandosi contemporaneamente. Bishop aveva esaminato in segreto il corpo del suo nuovo amico in cerca di cicatrici o tatuaggi. Fu contento di non trovarne nessuno.
Ma lui aveva una cicatrice recente sulla spalla destra. Aveva suggerito a Mungo di farsene una identica in modo da essere amici per sempre, anche dopo che fossero fuggiti, come dei fratelli di sangue, disse strizzando l'occhio. Mungo aveva finalmente trovato un amico ed essendo piuttosto tardo di mente acconsentì volentieri. Quel pomeriggio, una volta soli, Bishop gli fece con cura un piccolo taglio a forma di V nello stesso punto del suo. Ogni giorno gli medicava la ferita e rapidamente si formò il tessuto cicatriziale. Al momento dell'evasione avevano due segni identici.
Il 3 luglio pioveva e Bishop, attraverso il tetto e sotto il muro di cinta, raggiunse un mondo che conosceva solo dalla televisione. Dietro di sé lasciò il suo falso cadavere e tutte le maledizioni che riuscì a proferire. Sapeva che non sarebbe più tornato indietro.
Camminò per ore sotto una pioggia torrenziale, diretto a sud, per quanto poteva capire, e cercando di mantenere una traiettoria abbastanza dritta che si allontanava da Willows. Durante il cammino nascose l'accetta in una macchia di fitta boscaglia dove non l'avrebbero mai trovata. Altrove seppellì in profondità l'anello e l'orologio. Il dito reciso lo abbandonò agli insetti.
La notte era buia e faceva spavento, ma gli offriva un'ottima protezione.
Non c'era nessuno in giro, nemmeno un'auto che passasse. Si sentiva solo nell'universo e la sensazione gli piacque. Tutto ciò che toccava lo riempiva di piacere, e anche la pioggia gli sembrava amica. Superò case addormentate piene di ombre silenziose che lo ignorarono. Senza perdere un passo, superò viottoli e canali, facendosi strada inosservato nella campagna della California.
La pioggia cessò verso il mattino. Aveva ancora poche ore prima che scoprissero il cadavere. Continuò a camminare, a correre a volte, attraverso i campi e lungo i bordi delle strade, sempre in ascolto di suoni minacciosi. All'alba raggiunse una piccola comunità ai margini di un bosco. Si fermò a riposare, nascosto sotto una tettoia di fortuna a qualche centinaio di metri dal gruppo di case. Ansimando affannosamente, cercò di rallentare il respiro; era disperato ed esausto ma non aveva sonno, la semplice eccitazione lo teneva sveglio. Si chiese quanta strada aveva percorso durante la notte. Tredici chilometri? Sedici? Una distanza sufficiente per una sicurezza immediata. «Ma ancora non basta», si disse rabbioso tra i denti. Non sarebbe bastato se non avesse trovato da cambiarsi al più presto. Doveva penetrare in una di quelle case il mattino del 4 Luglio o lo avrebbero preso così com'era.
Così com'era… La frase lo fece sorridere, pensando al suo piano e a come tutto era iniziato. All'improvviso desiderò di avere il portafogli con la foto di sua madre. Quello era il suo unico rimpianto. Aveva tenuto addosso quel piccolo portafogli per tutti gli anni che aveva trascorso a Willows, qualcuno glielo aveva regalato quando era piccolo. Amava sua madre e portava sempre con sé la sua foto. Ora non l'aveva più. Rise, intristito da quella perdita.
Un'ora dopo notò del movimento davanti a una casa. Gente che usciva. Rimase a guardare mentre un giovane uomo e una giovane donna salivano in auto e si allontanavano. I suoi occhi seguirono l'auto fin quando non scomparve. Se solo avesse saputo guidarla… Abbandonò quel pensiero incompiuto. Costeggiò di corsa il retro delle case, tenendosi nascosto tra gli alberi. La casa che aveva osservato si trovava alla fine della fila. Se riusciva ad avvicinarsi dal lato coperto, forse poteva farcela. Attese un'altra ora, poi raggiunse la casa, salì i gradini d'ingresso, con l'intenzione di chiedere indicazioni se vi fosse stato qualcuno. Bussò alla porta, aspettò, bussò di nuovo. Nessuna risposta. Girò la maniglia. Era chiusa. Passò dietro veloce, sul lato nascosto e alzò una persiana. Un attimo dopo era nel salotto.
In pochi secondi trovò la camera da letto. Da un cassettone prese un paio di pantaloni scuri e una camicia gialla. Si cambiò e strinse la cintura fino all'ultimo buco sugli abbondanti pantaloni. Poi scambiò le scarpe nere dell'ospedale, consunte e piene di fango, con un paio che erano nell'armadio. Gli calzavano quasi alla perfezione. Nell'altro cassettone c'erano dei vestiti da donna. Frugò in varie borsette fino a trovare una banconota da venti dollari. La fortuna continuava ad arridergli.
Qualche minuto dopo si diresse in cucina, con i suoi vecchi vestiti arrotolati sotto un braccio. Qualcosa si mosse davanti a lui. Si immobilizzò. Si mosse qualcos'altro. Abbassò lo sguardo. Gatti. Bestemmiò a bassa voce. Un gruppo di gatti si aggirava per la cucina. Sotto il lavandino trovò ciò che cercava: cherosene. Prese la latta con sé.
Tornato in salotto si soffermò a un piccolo scrittoio sotto una finestra e scorse delle carte. Niente che gli potesse servire. Nel cassetto c'erano le matrici di alcuni libretti di assegni intestati a Daniel Long. Su ciascuna matrice c'era il numero della Previdenza Sociale. Se ne mise due nel taschino della camicia. Prese anche una busta inviata a Daniel Long presso quell'indirizzo.
In una radura tra gli alberi, a mezzo miglio di distanza dalla casa, versò il cherosene sui suoi vecchi vestiti e li bruciò. Seppellì le scarpe un po' più avanti, poi si avviò verso la città più vicina dove comprò una piccola valigia di cartone e il necessario per radersi. Dopo aver fatto colazione, attese insieme a molti altri l'autobus diretto a sud. Col suo vestito nuovo e la valigia aveva un aspetto rispettabile, sembrava un giovanotto in viaggio di affari o in vacanza. Di certo non una persona da temere o sospettare.
Quella sera, a Yuba City, si fermò in un bar. Non aveva mai bevuto dell'alcol. Ordinò una birra, gli piacque e ne prese un'altra. «È molto buona», disse al barista con fare simpatico. La donna accanto a lui gli disse che anche lei beveva birra di tanto in tanto, specie nei giorni caldi. «Fa sudare, non crede?». Lo guardò di sottecchi e sorrise. «A volte è bello sudare un po'».
Lui le restituì il sorriso. Quando lei ordinò un altro Martini, lui notò il rotolo di banconote nel borsellino. Presto si persero nella conversazione. Lei veniva da Los Angeles, dove gestiva un salone di bellezza. Aveva deciso di prendersi un mese di vacanza per farsi un giro nel suo Stato di adozione per conoscerlo. «La maggior parte della gente non sa neanche cosa ha qui», disse con enfasi. «È un posto bellissimo, sa? Davvero bellissimo».
Aveva cinquantaquattro anni ed era originaria di Milwaukee. Si era sposata a vent'anni e suo marito l'aveva lasciata dopo otto. Non aveva figli. Aveva lavorato qua e là, poi per quattro mesi aveva frequentato una scuola commerciale dove aveva imparato a gestire un salone di bellezza. Dopo altri sei anni a Milwaukee, si era trasferita a Los Angeles. I genitori erano morti, sua sorella si era sposata e trasferita altrove. Lei aveva lavorato in una dozzina di saloni a Los Angeles e ne aveva diretti alcuni nei dieci anni successivi. Quando ebbe risparmiato abbastanza, ne aprì uno proprio. Era brava nel suo mestiere e aveva la testa per il commercio. Gli affari prosperavano.
«Sono vent'anni che sono qui», gli disse «e non ho intenzione di andarmene». Scosse il capo. «Mai tornare indietro». Ordinò un altro Martini. «Fa troppo freddo a Milwaukee. Non mi piace il freddo». Fece una risatina. «Mi piace essere scaldata». Lo guardò con un sorriso complice dipinto sul viso.
Lui le piaceva, era inutile negarlo. In fondo, era una donna onesta che aveva da tempo superato la fase della reticenza e il cui maggior rimpianto a proposito di gioventù erano tutti i ragazzi e gli uomini che aveva respinto per la sua educazione tradizionalista. Ogni volta che ci rifletteva s'arrabbiava e, negli ultimi anni, si scoprì a pensarci sempre più spesso. Un tale spreco, si ripeteva amaramente. Tutti quegli anni di piacere e di divertimento sprecati perché le avevano insegnato a salvaguardare se stessa e la sua stramaledetta virtù. Cos'è che diceva sua madre alle ragazze? Un signora tiene sempre chiusa la borsetta fino a dopo il matrimonio. Ebbene, la dannata borsetta di questa signora si sarebbe aperta ogni stramaledetta volta che lei ne avesse avuto voglia. E ne aveva voglia proprio ora.
Strinse la mano del giovanotto e gli strofinò il dito indice. Era lungo e sottile, significava che aveva un uccello lungo e sottile. Ebbe un brivido di piacere nel pregustarlo. Era sempre in grado di prevedere le dimensioni dell'uccello di un uomo semplicemente guardando le sue dita. Dio sapeva se ne aveva visti nella sua vita. Ma non abbastanza, non abbastanza, si disse con amarezza.
Si fecero un altro giro di drink che questa volta offrì lei. Più volte, nel corso della serata, uno speaker televisivo annunciava l'evasione da qualche parte su a nord di un maniaco omicida. La sua foto apparve sullo schermo. Nessuno vi prestò attenzione. Il barista, saggio e navigato, abbassò il volume: i discorsi sui maniaci non andavano d'accordo con gli affari. Diede un'occhiata ai suoi clienti. L'unica maniaca presente era quella stupida bionda che cercava di rimorchiarsi quel bel ragazzo. Scosse il capo desolato. Non impareranno mai, si disse silenziosamente per la milionesima volta nel corso della sua vita di barista.
Doveva aver bevuto almeno sette drink, disse tra sé e sé mentre usciva. Non erano troppi per una che sapeva reggerli. Le scappò un singhiozzo. Quando arrivarono alla sua auto, lui le tenne aperto lo sportello. Le piacque moltissimo, come un vero gentiluomo. Doveva aver avuto una brava madre. Lei non era una madre, i bambini neanche le piacevano. Ma se sei una madre, tanto vale essere una buona madre, è l'unica cosa da fare. Si sentiva un po' stordita, all'aria fresca della notte, ma per il resto stava proprio bene. E sperava di sentirsi anche meglio molto presto.
Mise in moto l'auto e gli toccò la mano per scaramanzia. Lui sedeva tranquillo, sorridendole ogni volta che lei lo guardava. Dietro ai suoi occhi un piano si andava lentamente formando.
Pochi minuti dopo arrivarono al motel. Lei guidò l'auto sul vialetto di ghiaia che portava sul retro e parcheggiò proprio di fronte alla sua camera. Alla luce soffusa della veranda lui le sembrò terribilmente attraente, abbastanza bello da mangiarlo, pensò lasciva. Era giovane, aveva detto venticinque anni, e ultimamente lei era attratta dagli uomini giovani. Non solo ultimamente, si corresse: aveva ormai questa attrazione per ragazzi da molti anni. Più diventava vecchia e più se li cercava giovani. Ma questo era il più giovane che aveva avuto la fortuna di incontrare; era solo un ragazzo in realtà, e non aveva intenzione di lasciarselo scappare. Avrebbe sentito le sue lunghe dita sottili dentro di lei, anche se avesse dovuto violentarlo. E, se fosse stato necessario, lo avrebbe perfino pagato.
Una volta entrata, accese una piccola lampada. Più realistica che romantica, sapeva che era meglio se il ragazzo non l'avesse vista in piena luce. Con un frivolo squittio deliziato, da ragazzina, si sedette sul divanetto davanti alla finestra chiusa dalle tende e lo tirò accanto a sé. Gli prese una mano e se la portò su un seno. Gli carezzò la coscia. Lui era timido e a lei questo piaceva. Tubando sommessamente, avvicinò il suo viso a quello di lui, fino a baciarlo, timidamente, goffamente. Quando l'uomo cercò di allontanarsi, lei spostò la mano sulla sua nuca e lo trasse a sé. Le loro bocche s'incontrarono di nuovo e lei gliela aprì con la lingua tenace che si insinuava dentro e fuori come un serpente. Dopo qualche istante lo lasciò andare fingendo di essere sorpresa da quel suo atteggiamento passionale.
Mentre andava in bagno, continuò a ripetergli che non aveva idea che fosse così macho. Le aveva tolto il respiro e fatto scordare tutto. Ma non dimenticò, in ogni caso, di portare con sé la sua borsetta. Pochi minuti dopo, uscì in camicia da notte, dopo che su sua richiesta lui aveva spento la lampada e aperto le tende. Alla romantica luce della veranda lei osservò il corpo nudo e slanciato, da ragazzo, di lui e i suoi capezzoli s'indurirono mentre veniva travolta da sensazioni erotiche. Scivolò rapida sotto le coperte, tenendogliele aperte con un invito sorridente. Quando lui la raggiunse nel letto, lei sciolse il laccio della camicia da notte e ne alzò il bordo fin sopra le cosce.
Le mani di lei presto guidarono le dita sottili di lui fino alla vagina. Come molte donne, aveva bisogno di essere stimolata manualmente per lubrificarsi al punto giusto e premette la sua mano nel lento movimento ritmico che le era necessario. Percepì la sua inesperienza e questo aumentò l'eccitazione. Dopo un poco cominciò a sentire che i sensi le si fondevano assieme e capì che stava scivolando verso l'orgasmo. Fece passare la sua mano destra sotto la vita di lui e lo fece rotolare sopra si sé, guidando esperta il suo pene nel suo corpo bagnato. Con movimenti sempre più veloci, lei iniziò la sua danza ritmica e, mentre scivolava nell'estasi dei sensi, sussurrò il suo nome dolcemente, formando un'ininterrotta litania d'amore. Danny, Danny, Danny…
Bishop voleva urlare. Avrebbe voluto ammazzare quella donna. Gli veniva da vomitare, si sentiva schifato da quello che lei stava facendo e da quello che gli stava facendo fare. Era vecchia, era grassa e gli aveva infilato la lingua disgustosa in bocca e poi il pene in quel suo corpo nauseabondo. Era orribile. Era un orribile mostro che cercava di annientarlo, di divorarlo. Ma lui l'avrebbe ingannata perché era più scaltro. Avrebbe imparato quello che doveva imparare e avrebbe preso quello che gli serviva per sopravvivere. Poi l'avrebbe ammazzata.
Non era mai stato con una donna, non aveva mai visto una donna nuda, a parte alcune fotografie che qualcuno teneva in ospedale. Voleva saperne di più sul sesso, voleva sapere come ci si sentiva ad andare con una donna. Odiava il contatto fisico, odiava toccare gli altri ed essere toccato, ma voleva scoprire se col sesso era diverso. Voleva scoprire se il sesso avrebbe reso piacevole toccare un'altra persona. Adesso capiva che il sesso era solo un altro trucco che le donne utilizzavano per impadronirsi degli uomini, per ucciderli un poco per volta invece che immediatamente. Forse sarebbe stato bello se fossero morte o si fossero addormentate. O forse se fossero state in suo potere, se lo avessero temuto, se fossero state disposte a fare qualsiasi cosa pur di salvarsi. Forse solo allora sarebbe stato piacevole toccare il loro corpo.
Sotto di lui la donna cominciò a gemere e a girare la testa da un lato all'altro. Lui pensò che stesse soffrendo e ne fu eccitato, voleva farla soffrire di più, ma non sapeva come. I lamenti di lei si fecero più forti, i suoi movimenti convulsi. Iniziò a emettere dei brevi rantoli gutturali. Lui si fermò a guardarla. Lei lo afferrò per i fianchi e gli scosse il corpo con foga su e giù sopra di sé, incitandolo a muoversi. Dopo pochi secondi s'inarcò violentemente sotto di lui con un ultimo orribile rantolo, il viso contorto nel dolore, le labbra ritratte e gli occhi febbrili. Per un attimo lui ne fu spaventato, pensò che lo stesse aggredendo un demone. Poi lei si lasciò ricadere sul letto, silenziosa, immobile. Il suo respiro affannoso si calmò e giacque con gli occhi chiusi, come una vecchia bambola di pezza. E sperò che fosse morta.
Lentamente, con cautela, lui scese dal letto, s'infilò i pantaloni e andò in bagno. Vi rimase a lungo. Quando tornò, lei era rannicchiata su un lato del letto, col viso flaccido rilassato nel sonno. Russava sonoramente.
Il rotolo di banconote non era nella sua borsetta. Sapeva che l'avrebbe trovato nascosto da qualche parte tra i vestiti di lei, ma non lo cercò. Lei aveva ancora qualcosa da dargli, qualcosa di molto importante.
Rientrò nel letto, compiaciuto di sé. Aveva fatto un sacco di strada in un solo giorno. Le autorità cercavano Mungo e lui era libero e al sicuro, coi suoi vestiti nuovi e in viaggio con una rispettabile donna d'affari. Domani, si disse infine, sarebbe andata ancora meglio.
Il mattino seguente lui chiese alla donna di insegnargli a guidare l'auto, spiegandole che da ragazzo non aveva mai pensato di imparare. Lei ne fu lusingata, naturalmente, ma più che altro lo vide come un modo per averlo con sé qualche altro giorno. Lo trovava stranamente eccitante, la sua inesperienza e la sua goffaggine la solleticavano. Si chiese da dove venisse e desiderò di riuscire a trovarne altri simili. A letto lui soddisfaceva i suoi strani gusti, almeno finché lei lo guidava, e non sembrava aspettarsi niente in cambio. Non le aveva rubato i soldi, come altri avevano fatto, e il mattino dopo non aveva chiesto regali. Solo di imparare a guidare. Glielo avrebbe insegnato di sicuro, e se la sarebbe spassata finché fosse durata. Ragazzi come quello non si trovavano tutti i giorni.
Da parte sua, Bishop era disposto a sopportare il suo ignobile corpo e il suo tocco disgustoso fino a quando non avesse ottenuto ciò che voleva. Era un maestro nel simulare emozioni e, quando erano a letto, le sorrideva e faceva quel che pretendeva lei. Per tre giorni si trattennero nei dintorni di Yuba City. Lui era un bravo allievo, rapido e sveglio, e già il terzo giorno fu in grado di guidare come chiunque altro.
Erano stati tre giorni estasianti per la donna. Per la prima volta dopo anni era sessualmente soddisfatta. Non le importava affatto di dover pagare per il cibo del ragazzo perché lui non aveva soldi. Non le importava neanche dei cento dollari che gli avrebbe dato quando si sarebbero separati. Desiderava solo poterselo tenere per sempre.
La terza sera che si trovavano insieme a letto, la donna improvvisamente si voltò su se stessa e si inginocchiò tra le gambe del ragazzo. Gli prese il pene in bocca e, lentamente e abilmente, lo portò all'orgasmo. Normalmente non faceva sesso orale con gli uomini, ma voleva lasciare al ragazzo qualcosa di memorabile. Per lui fu qualcosa di più. Più tardi restò sdraiato a letto meravigliato che qualcosa potesse essere tanto piacevole. Giunse alla conclusione che ciò che lei gli aveva fatto era l'unico vero sesso: era pulito, lui non doveva toccare la donna e lei non doveva toccarlo, a parte la bocca attorno al suo pene. Decise prontamente che l'unico sesso che avrebbe fatto in futuro sarebbe stato con la bocca di una donna. Non solo era straordinariamente piacevole, si disse, ma mettergli in bocca ciò che usava per urinare dimostrava anche il suo assoluto disprezzo per loro.
Il giorno successivo, l'8 luglio, partirono diretti a sud. La donna intendeva passare per Sacramento e San Francisco prima di tornare a casa e lui le disse che l'avrebbe seguita. Era un allegro pomeriggio di sole e guidarono lentamente godendosi il panorama.
Si fermarono diverse volte per mangiare frutta fresca nei chioschi lungo la strada. Erano una coppia felice, ridevano e si divertivano come vecchi amici. Al tramonto parcheggiarono vicino a un prato. Era un luogo isolato e alla donna sembrò che fossero soli al mondo e desiderò che il ragazzo facesse l'amore con lei, lì nel prato, come le era già accaduto a diciassette anni nel Wisconsin.
Lui le rivolse il suo sorriso più caldo e complice e lei scese dall'auto, sentendosi per un momento deliziosamente felice come la graziosa ragazzina che era allora. Lui la colpì alle spalle con la chiave inglese. Fu un colpo selvaggio a due mani che le frantumò rumorosamente il cranio. Una volta a terra la colpì ancora. Poi con cura le passò sopra con l'auto, schiacciandole il torace con le ruote. Trascinò i resti nel fossato accanto alla strada e coprì il corpo con foglie e legno marcio. Quando ebbe finito si inginocchiò accanto alla testa sfondata e mise il pene nella bocca della donna morta.
Più tardi, quella sera, si fermò in un motel nei pressi di Sacramento. Una volta in camera frugò accuratamente nella borsa della donna, il rotolo di banconote ammontava a ottocento dollari, più altri cinquecento dollari in assegni al portatore; mise tutto in tasca. Dal portafogli della donna estrasse la patente di guida, ci pensò un attimo, poi la rimise al suo posto. Troppo pericoloso. Guardò le fotografie nel raccoglitore di plastica, sfogliandole rapidamente: uomini, donne, bambini, corpi, facce, occhi che lo guardavano silenziosi. Ne trovò una della donna stessa, più giovane, più magra, sdraiata su una spiaggia anonima in una posa seducente, il costume succinto che rivelava intenzionalmente le sue grazie. Prese la foto e se la mise in un'altra tasca. Il resto del contenuto erano le solite cianfrusaglie femminili. Mise la borsetta nel baule dell'auto insieme ai vestiti di lei.
Il mattino seguente guidò fino a San Francisco e lasciò l'auto nel caotico parcheggio dell'aeroporto, un'altra cosa che aveva imparato dalla televisione. Gettò via la ricevuta del parcheggio, sapendo che l'auto non sarebbe stata trovata per mesi. Prese un bus per la città, dove comprò un vestito nuovo e un impermeabile leggero in un negozio di Geary Street. Comprò anche una borsa da viaggio della American Airlines in cui mise l'occorrente per radersi. La sua valigia di cartone e i vecchi vestiti furono scaricati in un cassonetto dell'immondizia nella zona di North Beach. Non voleva passare dell'altro tempo a San Francisco, uno dei punti focali della caccia a Vincent Mungo, e prese un autobus per Los Angeles nel primo pomeriggio.
Arrivò alle undici di sera e si registrò subito in uno degli alberghi della zona come Alan Jones di Chicago. Il mattino seguente, si trasferì in una camera ammobiliata in una bella via a soli dieci minuti a piedi dal centro città. Diede il nome Daniel Long e pagò per due settimane di affitto.
Non appena si fu sistemato, si recò all'Ufficio amministrativo locale della Previdenza Sociale e compilò la richiesta per una nuova tessera. Disse all'impiegata che si era appena trasferito a Los Angeles con la famiglia dal nord dello Stato e che purtroppo alcune cose erano andate smarrite, tra cui una scatola di documenti. La sua tessera di Previdenza Sociale era tra questi. Le mostrò le ricevute della busta paga col suo nome e col suo numero della tessera. L'impiegata fece un cenno col capo, impaziente, aveva già sentito quella storia. Quello che proprio non capiva, era perché la gente non si portasse sempre dietro la tessera. In pochi minuti gliene batté a macchina una nuova.
A quel punto lui entrò in una vicina banca e con cento dollari aprì un libretto di risparmio. L'impiegato controllò il tesserino, come previsto, e ne trascrisse il numero sul modulo di richiesta. L'indirizzo era quello della camera ammobiliata. Dopo pochi minuti gli fu consegnato un libretto di risparmio. Aprì anche un conto corrente, questa volta con cinquanta dollari. Gli fu detto che gli assegni nominali sarebbero stati pronti in dieci giorni, nel frattempo gli diedero un altro blocchetto.
Quel pomeriggio Bishop lo trascorse a visitare una mezza dozzina di istituti pubblici e privati, dalla biblioteca pubblica ai musei di arte e di storia naturale. Per referenza usò ancora la sua carta di Previdenza Sociale e il libretto di risparmio. Pagando una quota minima, ciascun ente gli consegnò una tessera di socio valida un anno. Tutte le tessere erano intestate al suo nuovo nome. Poi si comprò un portafogli per mettervi i nuovi documenti. Ne scelse uno simile a quello che aveva avuto in passato.
La mattina seguente, l'11 luglio, telefonò a una filiale della Bank of America e si lamentò dicendo che aveva tentato di ottenere una carta di credito bancaria ma sembrava che ci fossero delle difficoltà. Potevano passargli l'agenzia di credito? Gli fu detto che quasi tutte le grandi banche di Los Angeles utilizzavano un centro compensazione crediti e gli fu dato il numero di telefono. Con l'agenzia si lamentò di un errore nel suo estratto conto e diede il nome e il recapito riportati sulla busta che aveva preso nella casa il mattino della sua evasione. Lo indirizzarono a un altro punto di smistamento di San Francisco, che era quello che si occupava di gran parte della California settentrionale.
Chiamò San Francisco e parlò del suo problema con un funzionario. Diede nuovamente il suo nome e l'indirizzo della casa su a nord, come se stesse chiamando da lì. In pochi minuti fu rassicurato che non avrebbe dovuto avere nessun problema. Di cosa si trattava esattamente? Lui rispose che un mobilificio locale gli aveva rifiutato un pagamento dilazionato dopo aver controllato il suo credito. Furono verificati di nuovo il suo nome e il suo indirizzo e non fu trovato niente di strano. Stiamo parlando di Daniel Long giusto? Chiese lui in tono esasperato. Nato a San Francisco il 10 febbraio 1945? Attese la risposta, sapendo che sarebbe stata negativa, perché si era appena inventato la data e il luogo di nascita.
La risposta arrivò subito. C'era stato ovviamente un errore. Daniel Long risultava nato a San Jose, California, il 12 novembre 1943. «Santo Cielo», borbottò subito Bishop. «Quella è la data di nascita di mio fratello, non la mia!». Promise al funzionario disorientato che avrebbe scritto una lettera con le informazioni corrette e, dopo aver finto di appuntarsi l'indirizzo dove inviarla e il nome dell'impiegato, riagganciò.
Subito dopo scrisse all'anagrafe di San Jose, chiedendo che una copia del suo certificato di nascita – Daniel Long, nato il 12 novembre 1943 – gli fosse inviata al suo indirizzo di Los Angeles. Accluse un buono postale di cinque dollari per coprire le spese.
Nel primo pomeriggio tornò in banca e mestamente informò un altro impiegato di aver perso il suo nuovo libretto di risparmio. Lo aveva messo nella tasca della giacca e, una volta tornato a casa, non c'era più. Proprio il primo giorno! Gli fu detto che probabilmente era stato derubato da un borseggiatore. Lui balbettò, incapace di credere di essere rimasto vittima di una cosa del genere. Gli fu subito dato un altro libretto di risparmio, così ne aveva avuti due per gli stessi cento dollari – un altro trucco che aveva imparato dalla televisione.
La settimana successiva, Bishop esplorò la Città degli Angeli. Percorse il Sunset Boulevard e una dozzina di altre strade famose, fece il tour degli Universal Studios. Prese un autobus turistico e pagò anche il tour delle ville delle star del cinema. Visitò Disneyland e le montagne russe, lo zoo e l'Hollywood Park. Fu strabiliato da quello che vide; era come essere nato adulto, senza storia né ricordi. Da uomo libero, con una nuova identità, in grado di andare dovunque e di fare qualunque cosa desiderasse, lui si godette ogni attimo.
Verso la fine della settimana fece un viaggio di due giorni a San Diego. Visitò il Balboa Park e il San Diego Zoo, aggiungendo una tessera socio al suo portafogli. Prese un autobus fino al confine messicano e arrivò a Tijuana, dove passeggiò lungo Revolucion Avenida e sorseggiò birra messicana in buie cantinas.
Tornato a casa vi trovò una lettera. All'interno c'era una copia del certificato di nascita di Daniel Long.
Fece immediatamente domanda per una patente di guida, mostrando il certificato di nascita come prova della sua identità. Accluse anche le diverse fotografie formato tessera richieste, che si fece scattare in un luna park. La finta barba acquistata in un negozio di corredi teatrali servì egregiamente a nascondere i suoi veri lineamenti. Gli fu immediatamente dato un permesso di guida temporaneo. In una vicina scuola guida pagò venticinque dollari affinché un istruttore lo accompagnasse per l'esame pratico su strada. Lo superò, e gli dissero che al più presto gli sarebbe stata inviata la sua patente di guida.
Con il permesso temporaneo di guida come prova d'identità, affittò una cassetta di sicurezza presso un'altra banca e pagò per un intero anno. Dentro ci mise il certificato di nascita e la fotografia della donna in costume da bagno. Una volta uscito, gettò entrambe le chiavi, lasciandosi dietro un mistero che pensava non sarebbe mai stato risolto.
Dopo di che riempi il modulo di richiesta per una delle principali carte di credito, dando come datore di lavoro il nome dell'impresa riportata sulla ricevuta della busta paga. Si inventò uno stipendio annuo di ventimila dollari e sette anni di assunzione. Per il resto si costruì un background, in cui gli unici fatti reali erano la data di nascita e l'indirizzo della casa su a nord. Sapeva già che l'affidabilità creditizia era ottima. In fondo alla richiesta diede l'indirizzo della camera ammobiliata come residenza estiva dove inviare la carta di credito.
Il 20 luglio tornò alla prima banca per ritirare il nuovo libretto degli assegni. Il suo nome era stato stampato correttamente e lui scartò gli assegni ormai inutili assegnatigli in precedenza. Poi si mise in fila davanti a una delle casse e prelevò novantacinque dei cento dollari usando il suo secondo libretto di risparmio. Una volta uscito lo distrusse e andò a casa. Aveva ritirato praticamente tutto il denaro e aveva ancora un libretto di risparmio valido che poteva utilizzare come prova della sua solvibilità. Con quello e con una patente di guida non avrebbero potuto arrestarlo per vagabondaggio e neppure fermarlo senza un valido motivo. Aveva un documento d'identità e aveva denaro: era un rispettabile membro della comunità.
Il ventiquattro del mese pagò un'altra settimana d'affitto. I preparativi erano quasi finiti e sapeva che avrebbe presto lasciato Los Angeles e lo Stato della California.
Sei giorni dopo gli arrivarono due buste per posta. Una conteneva la patente, l'altra una carta di credito col suo nuovo nome impresso. Sulla carta nessun indirizzo.
Il mattino seguente tornò in banca e incassò un assegno di quarantacinque dollari dal suo conto corrente di cinquanta dollari. Anche in questo caso, praticamente senza costi, si ritrovava con un libretto di assegni che poteva servire come prova della sua identità e per prelevare contanti in caso di emergenza. Mentre tornava a casa la sua attenzione fu catturata dai titoli di uno dei settimanali esposti in edicola.
Affacciato alla finestra, in quella ultima sera di luglio, dopo aver imbucato la lettera anonima e con l'articolo su Chessman in tasca, Thomas Bishop meditò a lungo sulla propria esistenza e su ciò che gli era stato fatto nello Stato natale. Avevano assassinato suo padre e distrutto sua madre. Lo avevano preso bambino e lo avevano rinchiuso per la maggior parte della sua vita, gli avevano mentito, lo avevano ridicolizzato e torturato in migliaia di modi mostruosi. Lo avevano portato a chiedersi, a volte, se era pazzo davvero. E lo avrebbero tenuto rinchiuso per sempre se non fosse riuscito a scappare. Ma lui era più furbo di tutti loro, se non fosse stato così ormai sarebbe morto. Avrebbero voluto ucciderlo, come avevano ucciso suo padre.
Il suo sguardo si indurì al pensiero, la sua mano strinse con forza il telaio della finestra. Si meritava qualcosa di speciale, la gente della California, e ci avrebbe pensato lui a lasciare qualcosa da ricordare. Non avrebbero capito, come non avevano mai capito lui. Ma non l'avrebbero dimenticato.
Alle nove di sera ripose nella borsa da viaggio il necessario da barba e accese il televisore. Si guardò attorno nella stanza e ciò che vide gli sembrò pacchiano e dozzinale, tutto sapeva di addio. Lasciò le chiavi sull'armadio, accanto ai resti della banana marcia. Chiuse la porta rotta dietro di sé e si congedò per sempre.
Dopo una breve camminata a passo spedito, trovò un piccolo albergo e si registrò come Bernard Parks di Cleveland. Salito in camera, al piano di sopra, si stese sul letto e si addormentò subito. Alle 23,50 si svegliò, scese le scale e uscì nella notte afosa di Los Angeles in cerca della sua preda.
Quell'ultima settimana di luglio almeno un altro uomo era rimasto colpito dall'articolo su Chessman, anche se sarebbe stato più corretto dire irritato. Il senatore dello Stato Jonathan Stoner lo lesse in auto, a Sacramento, mentre andava in ufficio. Quando vi giunse era livido di rabbia. Entrò infuriato e fece diverse veloci telefonate, una delle quali al suo addetto stampa che ancora non c'era. «Digli di chiamarmi non appena arriva», tuonò Stoner e sbatté il telefono. Erano passate le dieci e lui pensava di essere l'ultimo a dover entrare in ufficio, visto che tutto ruotava attorno a lui.
Jonathan Stoner era un ardente sostenitore della pena capitale. Era convinto che la nazione fosse paralizzata da criminali che non temevano niente e nessuno perché non avevano niente da perdere. La società era permissiva, i tribunali indulgenti, la polizia indignata e, come al solito, era la classe media quella che ne pagava lo scotto. I ricchi potevano permettersi di proteggersi da soli, i poveri non avevano niente da perdere se non le loro squallide esistenze. Ma la classe media, la spina dorsale della nazione, milioni di bravi cittadini ligi alla legge che possedevano proprietà e facevano affari, era quella che veniva rapinata, derubata, aggredita e perfino uccisa.
Non erano i cosiddetti "criminali in giacca e cravatta" a tormentarlo: prevaricatori, contraffattori, evasori fiscali, grandi affaristi e corruttori della politica. Queste cose Stoner le capiva bene. Le aveva viste e ne era stato circondato durante tutta la sua vita politica ed era abbastanza furbo da sapere che il grasso era ciò che faceva funzionare la macchina. Non era neanche il crimine organizzato a disturbarlo particolarmente: viveva delle debolezze che gli uomini si sarebbero sempre concessi, facendo infine i conti tra di loro. Quelli che lo facevano davvero infuriare erano i criminali violenti: gli aggressori, gli stupratori, i rapinatori di banca, i piccoli gangster, gli assassini in cerca di emozioni, i maniaci. Erano loro che rovinavano il paese, erano loro a trasformare le strade in giungle e le case in prigioni.
Stoner credeva fermamente che questi criminali dovessero essere rinchiusi per sempre e la chiave della prigione gettata via. Anzi, meritavano tutti di essere giustiziati. Avrebbero dovuto sparare a Charles Manson e Richard Speck e così Charles Schmidt e Sirhan Sirhan avrebbero dovuto essere tutti ammazzati. Meritavano la morte che avevano avuto gli Harvey Glatman e i William Cook pochi anni prima. Anche Caryl Chessman. Aveva avuto quello che si meritava: la morte.
Stoner lesse ancora una volta il titolo d'apertura. Prese la rivista, la soppesò per un attimo, poi la sbatté di nuovo sulla scrivania. Chiamò la segretaria e le chiese una tazza di caffè. Quando glielo portò, le diede la copia del «Newstime» e le chiese di chiamare l'editore capo di Los Angeles. «Fatti dare il numero dal servizio informazioni», abbaiò. «Di' loro che voglio parlare personalmente con lui e con nessun altro», le gridò dietro mentre lei usciva. Si mise seduto, cercando di calmare la rabbia.
Il senatore era un uomo che si era fatto da solo. Alto e tonico, col viso rugoso e una costituzione d'acciaio, negli ultimi diciotto anni si era arrampicato con le unghie e coi denti su per la scala della politica. Era ancora solo un giovanotto di trentanove anni, come gli piaceva definirsi, coltivava ambizioni politiche che andavano oltre quelle del suo Stato, ambizioni che saggiamente teneva per sé o che aveva rivelato a pochissimi intimi. Almeno, gli piaceva ripetere, fino al momento giusto.
Aveva quattordici anni quando Chessman era stato processato e condannato. Ventisei, nel 1960, quando Chessman era stato giustiziato. Anche se non aveva memoria del processo, ricordava chiaramente la sua morte. Per poco non era finito tra i sessanta testimoni all'evento. Come giovane rappresentante di assemblea di un quartiere popolare, si era sentito in dovere di assistere alla punizione delle bestie che depredavano i suoi elettori. Ma non aveva ancora abbastanza potere e non gli era stato possibile assistere all'evento. Anche allora era convinto che quei maniaci dovessero essere annientati affinché la brava gente potesse sopravvivere.
Nel caso di Chessman c'era anche qualcosa di personale. Una sua cugina, che alla fine degli anni Quaranta era solo un'adolescente e viveva a Los Angeles, era stata violentata e orribilmente brutalizzata proprio nel periodo in cui operava Chessman. Lo stupro era stato denunciato, ma la ragazza, in preda a un'incontrollabile crisi isterica, non era stata in grado neanche di descrivere il suo aggressore. Dopo di allora non era stata più la stessa, non si era mai sposata né era più uscita con un uomo. Non c'era nessuna prova che l'aggressore fosse stato Caryl Chessman, ma per Stoner, venuto a conoscenza dell'episodio diversi anni dopo, non aveva importanza. La sua povera cugina era stata stuprata nello stesso periodo in cui Chessman violentava le sue vittime, nella stessa città e persino nella stessa zona. Per lui era sufficiente.
Gli istinti reazionari del senatore erano sinceri e profondamente radicati ed era fortemente convinto dell'efficacia della pena capitale. Ma era anche un abile stratega, capace di approfittare di ogni opportunità. Nel dibattito sulla pena capitale comprese subito che la decisione presa l'anno precedente dalla Corte Suprema, con cinque voti contro quattro, era stata invisa a gran parte dei cittadini. Questa sentenza della Corte era poi diventata legge, ma non significava che lo sarebbe rimasta. Da bravo politico, credeva nel valore supremo della volontà del popolo, almeno nelle questioni emotive, ed era pronto a scommettere che entro qualche anno la maggioranza degli Stati avrebbe votato per la reintroduzione della pena di morte. Dopo di che sarebbe stata solo una questione di tempo, forse solo quello necessario perché alcuni giudici morissero o lasciassero l'incarico.
Stoner era assolutamente convinto che, nel suo Stato, la maggioranza dei cittadini volesse la reintroduzione della pena di morte. Aveva compreso il crescente impatto emotivo dell'argomento e negli ultimi mesi aveva iniziato a chiedersi come sfruttarlo a suo vantaggio. Mancava solo un anno alle elezioni e questo gli avrebbe potuto far guadagnare un riconoscimento anche al di fuori dei confini dello Stato. Proprio a quello stava pensando il mattino in cui aveva letto l'articolo su Chessman, e ora nella sua mente stava lentamente prendendo forma un'idea.
La segretaria lo chiamò al citofono. Un certo Derek Lavery chiamava da Los Angeles. Mentre lui alzava la cornetta, lei si precipitò nella stanza con una copia del «Newstime» e la posò sulla scrivania.
Per i dieci minuti successivi il senatore parlò con calma e spassionatamente col redattore capo. La voce era decisa, il tono modulato e le parole precise. Conosceva bene il potere della stampa. Nell'anno che precedeva le elezioni non intendeva offrire a nessun giornalista munizioni che avrebbero potuto essere usate contro di lui.
Con frasi attentamente misurate sottolineò le sue obiezioni all'articolo su Chessman. Era sensazionalista, faceva leva sulle emozioni, sfruttava la naturale simpatia del pubblico per i derelitti, distorceva i fatti e a volte rasentava la fantasia. Chessman era ovviamente colpevole. Era stato condannato per un crimine che prevedeva la pena capitale ed era stato giustiziato. Non era una vittima della pena di morte, nulla del genere. Era un rapinatore, uno stupratore e un sequestratore, e l'unico errore fatto dallo Stato era di aver tenuto in vita un maniaco del genere per dodici anni a spese dei contribuenti. Non erano stati i tempi a ucciderlo, ma le sue stesse azioni criminali. Tutto il resto era secondario. Cosa? Sì, anche il fatto che si fosse difeso da solo. No, non aveva ricevuto un trattamento di rara crudeltà, a differenza invece delle sue vittime. Riguardo poi agli altri stupri di quell'epoca, probabilmente li aveva commessi tutti lui. In quanto alla cosiddetta riabilitazione di Chessman, per quei criminali immorali non esisteva una cosa del genere. Sì, proprio così. Nessuna riabilitazione. Chi l'ha detto? Lo dico io. Una bestia è una bestia, non può essere riabilitata. Un animale può solo generare un animale. Che dice? Il figlio dell'animale? È questo che ha detto? No, non posso proprio dire di vedere dell'ironia in tutto questo. Va bene. Arrivederci.
«Figlio dell'animale», borbottò il senatore, scuotendo il capo mentre metteva giù il telefono.
Pochi minuti dopo arrivò il suo addetto stampa. Giovane, ambizioso e molto scaltro, da due anni era al servizio di Stoner. Prima di allora, dopo essersi laureato a Stanford, aveva insegnato giornalismo politico per un anno. La rubrica che teneva a quel tempo su un giornale locale aveva attirato l'attenzione del senatore che gli aveva chiesto di unirsi alla sua squadra. Il giovane aveva delle ambizioni e queste non prevedevano il restare un addetto stampa per sempre.
Stoner prese la rivista e gliela gettò attraverso la scrivania. «Hai visto questo?».
Il suo addetto stampa gettò uno sguardo al settimanale. «Non è il mio tipo. Preferisco gli aspetti sensazionali delle notizie».
«L'articolo su Chessman», disse il senatore. «Leggilo».
«Devo proprio?».
«Leggilo, Roger», rispose stancamente.
Roger si accomodò sulla poltrona di pelle dall'altro lato della scrivania. Allungò le gambe e iniziò a leggere canticchiando a bocca chiusa. Qualche minuto dopo alzò lo sguardo.
«Che ne pensi?», gli chiese il senatore.
«È un articolo su Caryl Chessman, quello che è stato giustiziato tredici anni fa».
«Questo lo so», rispose sarcastico. «Nient'altro?».
«È scritto bene, visto il genere».
Stoner sorrise a fatica, come se avesse a che fare con un ritardato mentale. «Non mi interessa lo stile», disse irritato. «Non hai delle opinioni, per l'amor di dio?».
«Certo che ne ho», rispose Roger sulla difensiva. Poi sorrise. «Ma non sono necessariamente sempre d'accordo con esse».
Il senatore fissò il giovane. Il suo sospiro, quando lo emise, era forte e tormentato. «Tu farai molta strada in politica, Roger», gli disse infine. «Molta, molta strada».
Roger sorrise. Anche il senatore avrebbe potuto farne di più, si disse, se avesse avuto il senso dell'umorismo.
«Quello che intendo», disse Stoner, dopo una breve pausa, «è il contenuto dell'articolo. È totalmente contro la pena di morte».
«Questo lo vedo», continuò il giovane, fattosi improvvisamente serio. «Ma stanno sprecando il fiato. Chessman è morto e sepolto».
«Però lo stanno resuscitando». Stoner si alzò e andò alla finestra. «Stanno dicendo che il vero assassino è la pena di morte e che Chessman è stato solo preso nel meccanismo. Lo fanno sembrare un eroe, la vittima innocente che ha combattuto una battaglia già persa contro l'omicidio legalizzato».
«Tutti amano i perdenti».
Il senatore non gli prestò attenzione. «È il più violento attacco alla pena di morte che abbia letto da anni. Praticamente stanno dicendo che siamo tutti degli assassini».
«La settimana prossima diranno il contrario», lo riassicurò Roger. «Tutte le riviste lavorano nello stesso modo. A loro non importa schierarsi, basta che l'argomento sia scottante».
«E Chessman lo è?».
«No, ma lo è la pena di morte».
«Esatto». Il senatore fece un grande sorriso e tornò a sedersi. «È una questione di vita o di morte, è reale, e credo che sia ora che io prenda posizione. In altre parole», disse, guardando intensamente l'altro, «se giocata bene, questa può diventare un'ottima fonte di voti».
«Il pubblico conosce già la sua posizione sull'argomento».
«Intendo dire prendere posizione personalmente. Farla diventare la mia causa e ottenere tutta la pubblicità possibile. Questa cosa», aggiunse Stoner placidamente, «andrà avanti per un sacco di tempo, e così farò io. Non c'è un giusto o sbagliato, oltre a quello che la legge stabilisce. Tutto il resto è emotività, ed è lì che deve intervenire un bravo politico».
«Cinico, ma vero», sospirò il giovane.
«E comunque io sto dalla parte giusta».
Roger scoppiò in una grossa risata. «Diciamo da quella più facile».
«Ora, con questa cosa di Chessman», insisté il senatore. «Abbiamo un'opportunità. Un criminale condannato che è stato giustiziato per i suoi delitti. La sua morte ha reso più sicura la società e ha probabilmente salvato delle vite. Ma qualcuno ne vuole fare un martire». Guardò il suo assistente. «Mi sembra perfetto».
L'addetto stampa considerò l'idea, canticchiando di nuovo, come se cercasse di ricordare un motivetto.
«È una splendida pensata per ottenere della pubblicità a livello nazionale», ammise. «Un sacco di Stati sono arrabbiati».
Il senatore annuì col capo. «Potrei diventare il loro portavoce».
«Ma non funzionerebbe», continuò il giovane con un tono di voce opportunamente deluso. «Non così».
Gli occhi del senatore si fecero due fessure. «Ti dispiacerebbe dirmi perché? Sei d'accordo anche tu che è un buon argomento emozionale. La mia posizione in proposito è nota. Ci serve solo un bersaglio specifico a cui aggrapparsi. E ora ce l'abbiamo», indicò la rivista. «Che c'è che non va?».
«Non c'è niente che non vada con l'idea», disse l'altro lentamente. «È l'appiglio che non va bene. Chessman è morto da anni. Non c'è dramma in un uomo morto. La gente non si eccita davanti all'irrevocabile. Bisogna darle una vita in pericolo adesso. Un mucchio di vite sarebbe ancora meglio. Bisogna darle…». S'interruppe, fece una pausa e poi una smorfia. Improvvisamente schioccò le dita. «Ecco cosa ci serve», esclamò. «Bisogna dare alla gente delle vite in pericolo ora».
Il senatore era perplesso e la sua espressione confusa.
«Deve dare loro delle vite, senatore», ripeté il giovane in tono drammatico. «Qualcosa con cui possano identificarsi sul serio. Una vittima innocente o un maniaco omicida. Non importa, l'importante è che sia ancora vivo. Nessuno si identifica coi morti».
«E dove ne troviamo uno vivo?».
«Ne abbiamo uno proprio qui, ora», rispose il giovane, con gli occhi accesi. «Vincent Mungo».
Era eccitato e i pensieri si accavallavano nella sua mente. «Mungo ha ucciso una volta e probabilmente ucciderà ancora. Non gli dovrebbe essere concesso di vivere. Se evadesse ancora, ucciderebbe di nuovo. Ecco qui il dramma, ed è reale. Le persone si dividono in assassini e vittime, tutti avranno qualcuno con cui identificarsi. Lei continui a martellare sul fatto che dovrebbe essere giustiziato una volta catturato».
«Se viene catturato», aggiunse Stoner.
«È un pazzo, no?», chiese Roger. «Sarà catturato. Speriamo solo che prima uccida un altro po' di gente, tanto per rendere la cosa più scottante». Rise. «Sto scherzando, senatore».
Il senatore aggrottò la fronte. Era un'idea dannatamente buona ma restava perplesso. Era più comodo e più facile occuparsi dei morti.
«Penso ancora che ci serva Chessman», disse infine. «Il suo nome è conosciuto ovunque, è stato per anni una bandiera per tutti i piagnoni dal cuore tenero. Chi ha mai sentito il nome di Mungo fuori da questo Stato?».
«Allora metta insieme le due cose».
«Cioè?».
«È semplice, disse l'intraprendente giovanotto. «Presenti Mungo come una reincarnazione di Chessman. Simbolicamente, s'intende. Un maniaco moderno che si aggira per lo Stato pronto a uccidere e a devastare. Un mostro assetato di sangue. Dica alle donne che quasi certamente sta dando loro la caccia: in genere i maniaci uccidono le donne. Chessman è morto perché loro potessero vivere. Ora deve morire anche questa reincarnazione, questo diabolico discendente di Chessman. La gente deve essere protetta e lei si accerterà che venga protetta». L'addetto stampa adesso era in piedi. «In questo modo otterrà il meglio», disse accalorato, «e se Mungo massacrerà qualche altra donna, verranno tutti da lei come i pesci all'acqua». Fece una breve pausa. «Naturalmente, mi auguro che nessuna donna venga uccisa».
Nella mezz'ora successiva i due uomini si accordarono su una conferenza stampa da tenere da lì a due giorni, il 2 agosto. Il senatore avrebbe annunciato una campagna per reintrodurre la pena capitale in California. Ne avrebbe anche iniziata una sua personale contro i maniaci, gli stupratori e gli assassini. Presto, sarebbe seguita una serie di conferenze attraverso tutto lo Stato.
Alla fine della riunione, mentre si dedicava a un'altra cosa, Stoner non poté fare a meno di ricordare ciò che quell'idiota di un redattore gli aveva detto. Continuava a venirgli in mente. Figlio di un animale, aveva detto.
Figlio di un animale. Caryl Chessman e Vincent Mungo…
«Figlio di una gran puttana», disse Stoner furioso.
Quella stessa notte, l'ultimo di luglio, quel figlio di puttana stava camminando verso South Figueroa Street nel centro di Los Angeles. Era passata mezzanotte e aveva superato molti isolati in cerca di una preda. La zona dove si trovava in quel momento, vicino ai quartieri malfamati, era piena di edifici cadenti che pullulavano di attività equivoche. Gli ubriachi giacevano nei portoni e litigavano per mezze bottiglie di vino. I drogati vagavano senza meta, a volte urtandosi l'un l'altro, incapaci di comprendere qualcosa nel loro stato di stordimento. Passavano, facendo rumore, parecchie auto piene di giovani. Sopra aleggiava il tanfo di troppi anni di abbandono. E dietro a tutto questo, nei vicoli oscuri, nelle stanze deserte e nei letti disperati, si respirava l'odore della morte.
Bishop fissava le donne imbellettate che al suo passaggio lo chiamavano con gli occhi. Erano vecchie e terribilmente disfatte e a lui apparivano come avvoltoi in attesa di divorare la carne umana. Rabbrividì e si affrettò lungo la strada sconnessa.
Diversi isolati più avanti lui la vide uscire da uno squallido edificio a quattro piani. Lei respirò l'aria per un attimo, poi svoltò a destra, i lunghi capelli ondeggianti sul retro della camicetta priva di maniche. In quei pochi secondi, aveva visto che era giovane, bionda e con le gambe slanciate da ballerina. Attraversò la strada e affrettò il passo. La raggiunse all'angolo mentre lei aspettava che passassero le auto. Non era truccata a parte un po' di ombretto e aveva una bocca piccola con un'espressione perennemente imbronciata.
Bishop le fece uno dei suoi migliori sorrisi. Gli occhi pieni d'innocenza, il viso splendente di simpatia. Tutto il suo atteggiamento era improntato alla fiducia e al fascino e, nel suo costoso abito nuovo, sembrava a tutti gli effetti un piacevole giovanotto importante e con i soldi. «Credo che questi cinquanta dollari potrebbero essere suoi», le disse. Il suo sorriso rimase costante, gli occhi innocenti e il modo di fare seducente, mentre attendeva accanto a lei con la banconota in mano.
La ragazza capì subito. Non era una prostituta e certamente non era una passeggiatrice, ma capì subito cosa voleva. Non fu offesa dalla sua proposta perché lui sembrava un giovane interessante. Le era bastato un rapido sguardo. Era piuttosto carino, ben vestito, affascinante e sicuro di sé. Non era come la maggior parte degli uomini che le facevano proposte, vecchi sporcaccioni, giovani teppisti arrapati e venditori da due soldi dalle mani grasse. Inoltre era di sicuro ricco, se poteva permettersi di offrirle cinquanta dollari.
Cinquanta dollari erano un sacco di soldi per lei. L'avrebbero aiutata a pagare l'affitto. Cristo, pensò all'improvviso. L'affitto! Oggi che giorno è? Il 1° agosto. Scade oggi. Cristo, Non li aveva! Un'altra volta!
Si voltò e gli sorrise. Perché no?, si chiese. In un altro momento mi avrebbe fatto piacere se uno così mi avesse invitato a uscire. Saremmo andati a ballare e avremmo bevuto e poi saremmo finiti a letto e al mattino non mi sarebbe rimasto niente. In questo modo almeno avrò i cinquanta dollari. Chissà? Forse è uno di quei ricchi idioti cui piace prendersi cura delle ragazze. Magari lavora nel cinema e può trovarmi una parte.
Lei si chiamava Kit. Quello era il nome che si era scelta quando era venuta a Los Angeles. Non Kitty, né Kitten, solo Kit. Era in città da quasi due anni, dopo aver lasciato la casa dei suoi per diventare una star di Hollywood. Non era bellissima, ma era carina e particolare e aveva un bel corpo, anche se i fianchi erano troppo pieni. Aveva cercato fortuna nel cinema usandolo, ma tutti i tentativi erano finiti nel nulla. A volte, era andata a letto con uomini rispettabili in cambio di denaro; considerava quelle occasioni come un semplice scambio di doni. Di recente aveva scambiato doni due volte col suo padrone di casa. Aveva ventun anni.
Camminarono l'uno accanto all'altra, per lo più in silenzio a parte l'occasionale commento sul tempo e sulle condizioni del quartiere. Lui continuò a sorridere e così fece lei, non incrociarono nessuno e nessuno li vide. Sei isolati più avanti lei era arrivata a casa e lui era ancora con lei.
Kit preparò del caffè solubile e ne prese una tazza. Lui sorrise e chiese un bicchier d'acqua. Le disse che veniva da San Francisco, lei rispose che San Francisco le piaceva, poi diede da mangiare al gatto, mentre lui sorrideva osservandola. Un attimo dopo, lui mise i cinquanta dollari sul tavolo. Lei li lasciò lì, senza toccarli. Bevuta una seconda tazza di caffè, la ragazza si recò nella minuscola stanza da letto e si spogliò. Lo chiamò. Lui si sedette sul letto e studiò il suo bel corpo giovane: era molto diverso dall'altro, da quello che gli aveva insegnato a guidare. Ma ciò che lo interessava di più era la bocca.
Le sorrise e le disse cosa desiderava che lei gli facesse. Lei scosse il capo. Era all'antica per quello, non lo faceva. Avrebbe allargato le gambe per lui, ma quello no. L'aveva fatto una volta e ne aveva odiato ogni momento. Non intendeva farlo mai più.
La tapparella era abbassata e la stanza era buia. Gli disse di spogliarsi e infilarsi nel letto, poi gli promise che lo avrebbe fatto divertire. Lui si voltò un attimo dall'altra parte ed estrasse il coltello dalla tasca interna della giacca. Con la mano sinistra trovò l'ombelico di lei. Con la destra le piantò la punta acuminata della lunga lama nel ventre e poi, sempre sorridendo, con entrambe le mani sul manico, spinse il coltello con tutta la forza attraverso il suo corpo e il materasso sottostante. Continuò a spingere la lama fino a quando l'impugnatura non toccò la pelle.
Con gli occhi della mente lui vide la donna torreggiare sopra il bambino terrorizzato e colpirlo senza pietà, la frusta che addentava quella morbida pelle nuda.
Quando l'urlo iniziò a fuggire dalla gola della ragazza morente, lui le chiuse la bocca con il lenzuolo. Il corpo era inchiodato e non poteva muoversi, ma vibrò orrendamente, incontrollato, per quelle che a lui sembrarono delle ore. Finalmente l'ultima energia rimasta nei polmoni si esaurì, il torace s'incavò e lei restò immobile.
Alzò la tapparella per avere più luce. Il gatto entrò, lui gli carezzò i baffi e lo riportò in cucina. Chiuse la porta della stanza da letto e si tolse i vestiti. Inginocchiato sul letto, levò il lenzuolo dalla bocca della ragazza morta e vi inserì il suo pene. La bocca era calda e umida per la saliva e i fluidi che ne uscivano. Tenendo la testa bionda tra le mani come fosse una palla da basket, la agitò su e giù, con le labbra che scivolavano avanti e indietro, finché non venne.
Quando infine si rialzò, estrasse il coltello con cura dal corpo di lei. La lama sottile era lunga venticinque centimetri e il manico dodici. Il commesso del negozio di articoli da caccia lo aveva definito un coltello da autopsia, ma gli aveva detto che veniva in realtà utilizzato per uccidere silenziosamente in azioni di guerriglia. Lo aveva acquistato il pomeriggio in cui aveva spedito la lettera alla rivista. Tornato a casa, aveva fatto un piccolo taglio nella tasca interna sinistra della giacca, in modo da nascondervelo. Era lì che lo aveva tenuto per tutto il tempo che era stato con la ragazza.
Guardando nuovamente il corpo, il giovane si dedicò alla sua opera. Asportò entrambi i seni e li portò, uno per volta, in cucina, dove li poggiò accuratamente sul tavolo, uno accanto alla tazza di caffè vuota e l'altro accanto al suo bicchiere d'acqua. Tornato in camera da letto, le aprì l'addome. Attento, rimosse e palpò gli organi della ragazza, li accarezzò a lungo e ripetutamente, quasi a volerli possedere. Sarebbe bastato solo questo, e lui tenne gli occhi chiusi fino a quando tutte le visioni terrificanti non furono svanite e la donna con la frusta non volteggiò più sopra il corpo nudo del bambino.
Appagato, infine, si guardò intorno. La stanza era impregnata di sangue. Lavò il coltello nel lavabo della cucina, poi si ripulì accuratamente e si rivestì. Ripose il coltello nella tasca della giacca e riprese la banconota da cinquanta dollari dal tavolo.
Nel frigorifero trovò della mortadella e mezzo pane in cassetta, si sedette a tavola a mangiare tranquillamente. Non aveva nessuna fretta.
A un certo punto, mentre era ancora lì, trasse di tasca un pennarello a punta morbida che aveva anch'esso acquistato nel pomeriggio e, accuratamente, scrisse le sue iniziali in grosse lettere maiuscole. Una su ciascuno dei seni sul tavolo della cucina.
Prima di andarsene riempì fino all'orlo la ciotola d'acqua del gatto e versò in un piattino cibo secco che poteva bastare per diversi giorni.
Il mattino successivo, il 1° agosto 1973, Thomas Bishop, alias Daniel Long, lasciò il suo hotel di una notte e prese il pullman per Las Vegas. Aveva un bell'aspetto e si sentiva ancora meglio: un giovanotto con i soldi e un'identità. Viaggiò fuori dal terminal e fino all'autostrada su un grande pullman rosso per il Nevada, seguendo la strada che, lui lo ignorava, sua madre e suo padre avevano preso quasi ventisei anni prima. Dal suo sedile a metà della comoda vettura puntava lo sguardo fisso davanti a sé, sorridendo tutto il tempo, e neanche una volta si voltò a guardare indietro.