Derek Lavery sedeva accigliato. Non c'era nessuno nel suo enorme ufficio al sesto piano dell'edificio del «Newstime» a Los Angeles. Almeno non ancora. Il soggiorno e la sala da pranzo ricoperti di moquette, la spaziosa zona lavoro all'altra estremità della sala, l'enorme spazio nel mezzo dove Lavery sedeva dietro la sua colossale scrivania di quercia erano tutti vuoti. Ma Lavery si accigliava sempre di più. Non gli piaceva, non gli piaceva affatto. Quando quei figli di puttana chiamavano da New York erano sempre guai e questa volta non faceva eccezione. Non che i guai lo spaventassero. Al contrario, li cercava, ci conviveva, ne aveva bisogno. Senza guai spesso temeva che sarebbe avvizzito e svanito in una nuvoletta di fumo. Ma questa volta era diverso. Di questo tipo di guai non aveva bisogno. E non gli piaceva affatto che quei bastardi della East Coast avessero il potere di veto definitivo solo perché avevano il controllo finanziario sulla rivista. Lui aveva tirato su l'edizione della West Coast quasi da zero, portandola al massimo dell'eccellenza. E anche del rendimento. Quei bastardi lo sapevano! Sapevano che avevano a che fare con l'uomo migliore di tutta l'organizzazione. Dato che sapevano leggere solo i bilanci, lo lasciavano generalmente in pace a fare i suoi miracoli economici.
Lavery si accese il secondo sigaro della mattina. Diede un'occhiata all'orologio: le 8,50 del 15 agosto. Pigiò un pulsante della centralina telefonica ma nessuno rispose. Naturalmente, non era ancora arrivata. Immaginò le lunghe gambe sottili della sua segretaria, i suoi seni duri quando si chinava sulla scrivania. Erano fermamente sostenuti dal reggipetto e gli ricordarono la vecchia battuta del venditore di reggiseni alla giovinetta snella: non facciamo una montagna di un formicaio, mia cara. Gesù Cristo, lei era un monte Everest! Era sicuro che non indossasse niente di notte, si limitava a saltellare nuda per l'appartamento eccitando qualunque simbolo fallico avesse attorno. Pensò di nuovo alle sue tette. Dovevano pesare almeno cinque chili. Le ricordavano sua figlia. Anche lei le aveva grosse. E lunghe gambe sottili. Ma lei non indossava quasi mai il reggiseno. Il più delle volte le cadevano fuori dalle camicie e camicette. Quando faceva un tuffo in piscina indossava solo una striscia che le copriva i capezzoli, si poteva vedere quasi tutto. Vent'anni e un corpo così. Gesù! Avrebbe rovinato una dozzina di bravi uomini prima di crescere.
Pochi minuti più tardi suonò il cicalino. Pigiò il pulsante. «Caffè», disse in malo modo. Che andasse al diavolo. Chi credeva di essere? Ne poteva trovare un centinaio come lei. Si chiese se fosse brava a letto.
Gli portò presto il caffè, una tazza di peltro su un vassoio d'argento. Chinandosi sulla scrivania, poggiò il vassoio davanti a lui. Lavery la interessava. Avrebbe voluto guardargli il pene. Una ragazza della promozione giurava che era il più grosso che avesse mai visto. Anche quello la interessava. Glielo avrebbe tenuto rigido tra le mani, con le sue lunghe dita sottili attorno, strette, tirandogli dolcemente indietro la pelle. Le piaceva farlo coi suoi uomini. Poco per volta muoveva le mani sempre più veloci fino a masturbarli. S'inginocchiava tra le loro gambe e li osservava in viso fino a quando venivano. Quello la eccitava più di tutto, guardarli in faccia. Per quei pochi secondi sembravano animali, amabili animali impazziti che avrebbero dovuto essere in uno zoo, o su un albero di un milione di anni. C'era una sensazione di pericolo e di eccitazione attorno a loro, in quei momenti, che lei trovava primitiva, selvaggia e molto mascolina. Quello era ciò che l'eccitava davvero, essere sopra a un animale selvaggio che grugniva e gemeva sotto di lei. La faceva impazzire dal desiderio e, quando infine loro venivano, lei osservava lo sperma schizzare fuori e, generalmente, a quel punto veniva anche lei e abbassava il capo per spalmarselo sul viso, sugli occhi, sui seni. In quegli attimi era un animale anche lei e, quando tutto era finito, restava sdraiata, lo sperma che le scorreva sulla faccia, e lasciava che loro facessero ciò che volevano di lei.
Una volta, solo una volta e molto tempo prima, si era improvvisamente fermata mentre l'uomo stava per venire. Era molto giovane, allora, e stava solo giocando, non era ancora pronta, voleva aspettare. Lui si era alzato di colpo e l'aveva colpita; per pochi secondi era totalmente impazzito e avrebbe potuto ucciderla. Le mani strette attorno al collo, la stava strangolando. Poi era tornato in sé. Era stato allora che aveva visto l'incredibile potere animale di quei pochi secondi. Non aveva mai provato quel tipo di eccitazione in tutta la sua vita e, mentre si accarezzava la mascella gonfia e la gola dolente, capì che da allora in poi doveva possedere il potere dell'animale, tenere quel potere nelle sue mani, doveva osservare la bestia tornare allo stato selvaggio. Solo allora avrebbe potuto far parte di quell'energia primitiva.
Dopo di allora si scelse gli uomini con cura. Faceva l'amore con un uomo solo se il suo uccello era abbastanza grande per entrambe le sue mani e se a letto si dimostrava un animale. Non sapeva che farne degli uomini passivi o di quelli che venivano silenziosamente con nient'altro che sorrisi sul viso. A forza di tentativi, aveva scoperto che per lei gli uomini aggressivi erano i migliori. Aggressivi uomini di successo che vedevano il mondo come una giungla e se stessi come predatori.
Derek Lavery era quel tipo di uomo, ma era anche il suo tipo di capo. Le piaceva il lavoro e lo stipendio era buono e lei non voleva diventare l'amante di nessuno. Era troppo indipendente per quello. Trovava sempre uomini a sufficienza per soddisfarsi e quindi non le mancava troppo la faccia di Lavery dal suo letto. Ma se avesse mai dato le dimissioni, o se fosse accaduto qualcosa…
Lavery guardò nuovamente l'orologio: le 9,05. Erano tutti in ritardo come al solito. Lui era lì alle otto per parlare con New York, ma loro non ce la facevano neanche per le nove. Gli sembrava che tutto il mondo gli fosse contro.
New York. Il solo pensiero lo faceva rabbrividire. C'era stato abbastanza spesso per sapere che non gli piaceva. New York non aveva l'immensità né la cordialità dell'Ovest. La gente là viveva stipata, con poca privacy o poco spirito di proprietà. Peggio ancora, la città era piena di stranieri che prendevano solo, senza dare niente. No… Qualunque cosa fosse, New York non era un posto in cui vivere. Chiaro come il reggiseno della sua segretaria.
Pensò ai finanziatori della rivista che vivevano tutti a New York o nei sobborghi. Tutti, anche l'editore. Non gli piacevano. Non gli erano mai piaciuti e ora gli piacevano ancora meno, dopo la loro reazione all'articolo su Chessman. Non per la storia in sé, ma per la scelta dei tempi a causa di Vincent Mungo e del senatore Stoner. Nelle due settimane successive all'ultimo omicidio di Mungo, il nome di Stoner era sulla bocca di tutti nello Stato. La sua campagna per la reintroduzione della pena di morte si era messa in moto guadagnando consensi e, dovunque parlasse, ridicolizzava e disprezzava l'articolo su Chessman. Collegava Mungo a Chessman come una specie di figlio simbolico, l'erede della presunta mente criminale e dell'istinto omicida di Chessman. La dura presa di posizione del senatore e il suo astuto legame tra la vita e la morte stava iniziando a convincere la gente a schierarsi a favore della pena capitale.
In un certo senso Lavery ammirava Stoner, quanto meno per la sua strategia. Era brillante. Legare il passato al presente, il conosciuto allo sconosciuto, far leva sulle paure della gente, aggiungervi un pizzico di dramma e il gioco era fatto: il senatore diventava una personalità in tutto lo Stato. Forse addirittura in tutta la nazione se continuava a insistere. L'argomento era buono e non era possibile prevedere fin dove avrebbe potuto cavalcarlo. E Vincent Mungo lo stava aiutando alla grande.
Un'ora prima Lavery aveva comunicato a New York che stava preparando un pezzo su Mungo che avrebbe richiesto ad alta voce la pena di morte. Ne erano stati sollevati. I giornali di New York avevano scritto della campagna di Stoner e citato l'articolo su Chessman del «Newstime». Anche la televisione locale aveva accennato al crescente consenso per la campagna del senatore.
Quello che aveva detto in parte era vero. Intendeva davvero pubblicare un articolo su Vincent Mungo per cui avrebbe richiesto la pena capitale. Era così che si giocava su un argomento caldo come la pena di morte: si batteva duro da entrambe le parti. Mungo era d'attualità e il suo collegamento a Chessman messo in piedi da Stoner lo rendeva perfetto. Anche New York lo aveva capito e gli aveva augurato buona fortuna.
L'unico problema era il punto di vista: per il momento non ne aveva uno. Mungo era in fuga da sei settimane e aveva ucciso due persone, forse di più. Era ancora libero. Questi erano fatti, non punti di vista. Non c'era modo di provare una palese negligenza dei responsabili dell'ospedale di Willows ed era inutile attaccare l'Ufficio dello sceriffo per non averlo ancora catturato.
Giù in strada Ding ciondolò nell'ingresso e scomparve veloce in un ascensore buio. L'addetto, che lo conosceva bene, accese la luce e chiuse le porte.
«Il capo a che ora è arrivato?».
«Io sono venuto alle otto e lui era già qui». L'uomo guardò Ding. «Deve essere una cosa importante, eh?».
«La sua ragazza è arrivata?».
«Miss Charm? Circa dieci minuti fa».
Ding sorrise. «Perché la chiami così?».
«Come?».
«Miss Charm».
«Ha delle gran belle tette, non le pare?». Non attese la risposta. «Significa solo che è un guaio».
Ding lo osservò un attimo. «Dovresti fare lo scrittore», disse infine quando l'ascensore si fermò.
«Lo pensa davvero?», disse l'ascensorista interessato.
«Certo», disse Ding uscendo. «Vedi la gente per ciò che è realmente». Si voltò. «E sai come nascondere la verità». Trotterellò verso l'ingresso. «È tutto ciò che ti serve», borbottò a bassa voce. «Tutto ciò di cui hai davvero bisogno in questo gioco».
Una volta entrato, adattò gli occhi alla luce del sole che invadeva l'attico. Pensava sempre che a quell'ufficio mancava solo qualche merlo indiano che svolazzasse in giro. E magari una piccola spiaggia in un angolo, con onde scroscianti e donne nude. All'altro lato potevano starci dei tavoli da gioco – blackjack, baccarat, dadi. Niente di troppo pretenzioso. Nel mezzo si sarebbe potuto mettere un bar con una frotta di bellezze dai grossi seni, sedute in attesa di un po' di movimento. Ding lavorava da molto tempo con Lavery e lo conosceva bene. Quello che non sapeva era cosa diavolo volesse il bastardo alle nove del mattino.
Guardò verso il bar. Non c'erano bellezze. Anzi non era proprio un bar, assomigliava piuttosto a una grande scrivania. Dietro sedeva Lavery, corrucciato come sempre. Ding dava la colpa alla poltrona Barclay, c'era qualcosa che aveva trasformato il suo capo in un musone.
S'incastrò in una poltrona di dimensioni normali che era troppo piccola per lui di almeno due misure. Tentò di aggrottare la fronte, ma il suo viso non funzionava così. Qualunque espressione tentasse di assumere, venivano sempre fuori dei grassi sorrisi. Sedette sorridendo.
Lavery si tolse il sigaro dalle labbra e ringhiò: «Bentornato!».
«Ben trovato!».
«Dove diavolo eri».
«A letto».
Lavery allungò il sigaro verso il posacenere. «Forse dormi troppo». La cenere cadde fuori. «Ci hai mai pensato?».
«Ci penso sempre».
«E…?».
«È quello che mi fa addormentare».
Lavery ci rinunciò. Sapeva che non era il caso di litigare con Ding, era quel tipo di testa matta che vedeva un umorismo paranoico in ogni cosa. Non era aggressivo, non aveva motivazioni né ambizioni e non sembrava gli importasse affatto di aver successo. Il tipo di successo che lui, Lavery, si era ritagliato per se stesso. Erano cresciuti entrambi nello stesso quartiere e avevano iniziato a lavorare insieme in un giornale locale della California. Lavery si era distinto sin dall'inizio: aveva le palle e il cervello necessari e sapeva intrallazzare in modo spregiudicato. Man mano che saliva di livello – redattore capo notturno, responsabile cittadino, direttore editoriale, offerte da parte di riviste, sempre in ascesa – portò Ding con sé perché era un bravo ricercatore e scriveva bene. Sapeva come usare le parole e quello che non conosceva non era ancora stato scritto.
A Lavery questo piaceva, era il primo pensiero positivo della giornata. Voleva appuntarselo. Sulla scrivania c'erano due lampade, un paio di scarpe da tennis, delle piante – tutte morte –, dei telefoni, dei registratori, un elefante viola, una giarrettiera rossa, delle manette, un metro a nastro e un milione di altri oggetti necessari. Ma non un taccuino e una penna. Tornò a essere imbronciato. Quella non sarebbe stata la sua giornata di sicuro! Per fortuna sarebbe finita presto, il prima possibile. Solo altre dieci o dodici ore. Si poggiò allo schienale della poltrona, sconfitto.
«Abbiamo un problema», disse, rivolto a Ding.
Il mattino precedente, Amos Finch s'era svegliato come al solito alle sei. Con un sospiro nostalgico, memore del piacere, lasciò che la bionda laureanda nel suo letto continuasse a dormire. In piedi davanti a lei, osservò i capelli arruffati, la schiena armoniosa curva in posizione fetale, le gambe piegate, le braccia rivolte all'ingiù. Sembrava così piccola. Un corpo di bambina con la sensualità di una donna, gli piacevano le donne minute, trovava che fossero le più passionali e le più aperte alle diversità sessuali. I loro piccoli seni e glutei lo facevano sentire di nuovo come il ragazzo che aveva vagato per i fertili campi del Midwest della sua giovinezza. In una mezza dozzina di occasioni si era portato a letto delle ragazze minuscole e gli erano sempre piaciute molto. Il suo sogno segreto era dormire con una nana.
Mentre osservava la figura nuda stesa sulle lenzuola rosa, fu sopraffatto dal desiderio erotico e si rificcò a letto. Le raddrizzò delicatamente le gambe e la girò sullo stomaco. Mentre premeva forte su di lei da dietro, lei sospirò piano, ancora mezza addormentata. Il suo corpo era caldo e umido e odorava deliziosamente di lui. Le scivolò dentro con facilità, stimolato dai suoi sospiri di piacere. In quella crescente eccitazione, decise che il lavoro poteva aspettare qualche ora, forse anche fino alla consegna della posta. Stava aspettando una lettera.
Big Jim Oates fece un sogno. Si era candidato a governatore con un programma sul rispetto della legge e dell'ordine. Era una gara all'ultimo sangue e sul filo di lana. Entrambi i contendenti attendevano che l'ultimo elettore della California arrivasse camminando lentamente verso di loro. Migliaia di persone assistevano in silenzio al suo avvicinarsi. Oates osservava intensamente la figura che cominciava a vedersi. Era un uomo di costituzione media e scuro di aspetto. Mentre avanzava i passi sul pavimento ricoperto di moquette cominciarono a rimbombare. C'era qualcosa di familiare in lui, qualcosa che Oates non riusciva a percepire. L'uomo si avvicinò di più, passo dopo passo, e il rumore divenne sempre più forte fino a diventare insostenibile. D'un tratto Oates lo vide chiaramente! Quel volto! Ora lo riconosceva, era il volto del diavolo. Vincent Mungo! Oates estrasse prontamente il revolver di servizio e gli sparò sei colpi a bruciapelo. Mungo neanche se ne accorse. Continuò con la sua andatura lenta e costante fino ad arrivare davanti alla folla che si era raccolta dietro di lui. Fermo, in silenzio di fronte ai due candidati, Mungo aveva atteso un attimo prima di voltarsi verso Oates. Poi si era avvicinato, i loro volti ora a pochi centimetri di distanza. Oates vide la follia negli occhi di Mungo. Vide anche qualcos'altro. Vide che aveva perso. «Hai perso», gli disse Mungo a bassa voce. Si voltò verso l'altro candidato e gli diede la mano. Mentre si allontanavano assieme, sottobraccio, Oates gli sparò di nuovo sei colpi contro, poi altri sei, e poi ancora e ancora e ancora…
Si svegliò coperto di sudore, battendo le ciglia. Un incubo, era stato solo un maledetto incubo! Guardò l'orologio digitale accanto la letto: le 4,10. Con un gemito si voltò verso sua moglie che dormiva nel lettino gemello. Scorgeva solo la testa, al di sopra del lenzuolo a fiori, nella camera con l'aria condizionata. I suoi occhi si soffermarono sui capelli, che erano ormai grigi ma che una volta erano stati del colore del grano, oro scuro nel cielo d'estate. Aveva amato il colore di quei capelli e aveva amato lei, e quando si erano sposati le aveva promesso che sarebbe diventato qualcuno, qualcuno di cui sarebbe stata orgogliosa. Lei gli aveva detto che era già orgogliosa di lui più di quanto fosse immaginabile e da quel momento in poi l'aveva amata ancora di più, con una tenerezza che sapeva sarebbe durata fino alla morte. Qualunque cosa dovesse fare nella sua vita professionale, qualunque bene o male fosse stato costretto ad affrontare, qualunque donna si fosse preso per le sue necessità sessuali, lei sarebbe sempre stata la sua amata, la donna del suo cuore.
Tramite le conoscenze politiche di uno zio, era diventato vice nell'Ufficio dello Sceriffo della California. Le sue maniere dirette e i suoi modi affabili gli erano stati utili al servizio della polizia. Soprattutto si era dimostrata utile la sua capacità di trattare a livello politico, che lo aveva fatto salire di grado fino al comando della propria sezione in diversi uffici locali, prima di arrivare a Forest City. Quell'ultima destinazione era estremamente vantaggiosa per lui: non era lontana da Sacramento e dal vero potere. Ambiziosissimo, gli anni avevano acuito il suo desiderio di cariche pubbliche.
Guardò di nuovo l'orologio. Ancora soltanto le 4,11. L'ora del lupo. L'ora, più di ogni altra, in cui le persone morivano e più bambini venivano alla luce. Non ne sapeva il perché, ma sapeva che era vero. Tutti i poliziotti lo sapevano. L'ora del lupo. In quel momento Vincent Mungo era il lupo, ma la sua ora sarebbe presto giunta. O almeno lo sperava.
Oates si appoggiò silenziosamente con la schiena al cuscino e si mise le mani dietro la testa. Se non riusciva a dormire, sarebbe rimasto lì al buio coi suoi pensieri. Lo faceva spesso. Il suo sonno era discontinuo e passava molto tempo sveglio. Nel corso degli anni, quei momenti erano spesso diventati i più tranquilli della sua giornata. Gli erano ugualmente familiare l'ora del diavolo e quella della pistola. Ma lo aveva un po' scosso che l'incubo di Vincent Mungo gli fosse venuto durante l'ora del lupo. Per un uomo realista, ma per molti versi superstizioso, quello non era un buon segno.
L'8 agosto era tornato tristemente da Los Angeles a mani vuote. Mungo era scomparso ancora una volta, svanito senza lasciare traccia dopo aver commesso un omicidio spaventoso. Per quanto fosse stata una delle più vaste cacce all'uomo mai condotte nella zona di Los Angeles, con quasi centomila agenti delle forze dell'ordine a cercare dappertutto – malgrado l'incerta entrata in scena dell'FBI, dati i sospetti di un illegale passaggio del confine di Stato – Vincent Mungo era scomparso.
Era un demonio, ammise Oates riluttante, un demonio mascherato. Qualunque fosse il suo travestimento, doveva essere uno dei migliori. In quasi trent'anni di lavoro nella polizia Oates non aveva mai visto nessuno prendere in giro tanta gente con così pochi strumenti. Se fosse dipeso da lui, quel figlio di puttana di Mungo avrebbe ricevuto una medaglia d'oro prima che gli sparassero, lo impiccassero o lo gasassero. Che sarebbe stato ucciso, in un modo o nell'altro, era una certezza. Era solo una questione di tempo. Di quello Oates era sicuro. Era anche certo che se lui fosse arrivato per primo, Mungo sarebbe stato già morto. Un'occhiata al corpo devastato della ragazza gli era bastata. Mungo era un vero mostro e doveva essere distrutto.
Lo sceriffo guardò nel buio della camera da letto, mentre i suoi pensieri erano rivolti all'omicidio legale. Cinque giorni a Los Angeles erano stati più che abbastanza per lui. La gente là era diversa da quella della metà settentrionale dello Stato, più frenetica e più insicura, più portata alle mode e ai sentimenti superficiali. Anche se bene accolto, era stato contento di andarsene. Non credeva che gli sarebbe piaciuto lavorare nel sud della California, benché vi fosse vissuto alcuni anni da giovane. Sacramento sarebbe stata perfetta. Lì si trovava tutto il potere politico che poteva desiderare.
Ricordò un articolo che aveva letto sulla pena capitale e si chiese come una buona rivista come il «Newstime» potesse pubblicare immondizia del genere. Avevano preso davvero un grosso granchio: il nome e l'età di Chessman erano probabilmente le uniche cose corrette che avessero scritto.
Lui a quei tempi c'era e si ricordava del caso, anche se non vi era stato personalmente coinvolto. Sapeva, per esempio, che Chessman non era stato identificato solo da due donne, come scritto nell'articolo, ma da una mezza dozzina di persone come loro assalitore e rapinatore. Sapeva che Chessman già da teenager era un teppista e un ladro d'auto che girava armato di pistola. Da amici, guardie a San Quentin, aveva saputo che Chessman era rimasto un delinquente anche dopo gli anni di prigione e perfino dopo che la condanna lo aveva spedito nel braccio della morte. Ma più di tutto, sapeva che Chessman era colpevole dei crimini per cui era stato giustiziato. Era stato catturato in un'auto rubata che aveva una luce rossa lampeggiante simile a quelle usate dalla polizia. Sia lui che l'automobile erano stati riconosciuti da testimoni. E non solo in uno o due casi, ma per tutta una serie di reati. Per Oates era sufficiente. Tutto il resto erano solo giochetti da avvocati.
Sapeva anche un'altra cosa che non era citata nell'articolo. Chessman a diciannove anni aveva sposato una graziosa ragazza dai capelli lucenti come seta e con uno splendido sorriso. Oates aveva avuto una cotta per lei quando era un giovanotto e viveva a Glendale.
Guardò di nuovo l'orologio. Ancora dieci minuti e l'ora si sarebbe conclusa. Niente più lupi. Avrebbe voluto che i suoi problemi passassero con la stessa facilità. Vincent Mungo. Bang! Fine di Vincent Mungo.
Sprimacciò il cuscino e vi poggiò la testa. Sei ore dopo avrebbe dovuto incontrare i dirigenti della polizia e della pubblica sicurezza di Sacramento. Era così? Controllò di nuovo: 10 agosto alle 11 del mattino. Giusto! Mancavano sei ore. La sveglia era impostata alle 7,30.
Intanto che scivolava nuovamente nel sonno, si chiese se avrebbe mai avuto l'opportunità di incontrare Vincent Mungo, dopotutto.
Mentre l'aereo dello sceriffo si dirigeva verso nord a una altezza di ventiduemila piedi, in quella mattinata limpida dell'otto agosto, un'elegante Lincoln Continental nera si fermò di fronte a un ristorante popolare di Fresno tutto cromo e neon. L'autista, dopo aver scambiato poche parole col passeggero seduto dietro, uscì dall'auto e di diresse verso il locale. Una volta dentro si rivolse al cassiere; era gentile ma deciso. Un attimo dopo apparve Don Solis. Lo chauffeur gli disse che fuori c'era un uomo che voleva vederlo. Poteva uscire?
Solis lo guardò. Riconobbe gli occhi, inflessibili, disinteressati, ma che notavano tutto. Anche lui era stato così una volta. Non proprio così bravo, in realtà. Quello era un uomo pericoloso da non sottovalutare. Lo seguì fuori.
Gli affari erano scarsi a quell'ora e c'erano poche automobili nel parcheggio. Si diressero verso la limousine, dove lo chauffeur gli aprì lo sportello posteriore. Non sapendo cosa aspettarsi, Solis s'irrigidì. Quando si chinò a guardare all'interno dell'auto, i suoi occhi e la sua bocca si spalancarono per la sorpresa…
George D. Little viveva per la propria famiglia e per il suo lavoro. In quest'ordine. Uomo di modeste passioni, George era innamorato della propria vivace signora e delle loro tre deliziose figlie, cui aveva regalato una grande casa nella zona migliore della città, un ranch con bei cavalli da monta, automobili, viaggi e vestiti. Per offrire loro quello stile di vita, lui vendeva morte. Funerali, per la precisione. Era proprietario di una delle più importanti agenzie funebri dello Stato, che aveva ereditato dal padre. Conosceva il lavoro, sapeva tutto sui cadaveri e su come guadagnarci, con le bare, i fiori e le funzioni private. Negli anni ne aveva tratto un buon tenore di vita, anzi, più che buono, e se lo era goduto tutto.
La moglie lo considerava un po' noioso e fin troppo assennato, ma lo amava per la sua premura e per la generosità e gli dava ciò di cui aveva bisogno, o che almeno si meritava, sia sotto forma di compagnia, sia in camera da letto. Qui erano state concepite tre bambine. Lui avrebbe voluto dei figli maschi che continuassero l'impresa di famiglia, ma aveva imparato subito ad amare le voci delle femmine di casa. Gli rallegravano notevolmente la vita e quando erano diventate delle giovani donne lui le aveva adorate. Niente era troppo per loro.
Due di loro fecero tutto per bene, almeno agli occhi del padre. Accettarono lo stile di vita dei genitori e la loro posizione nella società del luogo, si godettero il benessere e, in linea di massima, si comportarono come ragazze per bene con nient'altro nella testa che l'immediato presente.
Il problema fu la figlia più grande. Non si adattava, era insoddisfatta. A tredici anni voleva diventare una cavallerizza da rodeo, a sedici la prima donna astronauta. Quando ne compì diciotto, il vero scopo della sua vita le fu finalmente chiaro. Sarebbe diventata una stella del cinema. Era carina, intelligente e avrebbe sfondato alla grande. Quando le sorelle le risero in faccia, si limitò a digrignare ancora una volta i denti prima di allontanarsi. E quando i suoi genitori si rifiutarono di starla a sentire, rimase in silenzio. Un giorno se ne sarebbero pentiti tutti, continuava a ripetersi. Se ne sarebbero accorti, ma sarebbe stato troppo tardi.
Mary Wells Little odiava il posto dove viveva, odiava i cavalli e, soprattutto, odiava l'attività di suo padre. Funerali! Che schifo! Quel che voleva, ciò di cui aveva bisogno, erano il glamour, luci sfavillanti, divertimento. Il mondo dello spettacolo, ecco cosa faceva per lei. Sarebbe andata a Hollywood e sarebbe diventata una stella del cinema. Poi l'avrebbero invitata al Johnny Carson Show e si sarebbe seduta accanto a lui e avrebbe parlato di un mucchio di cose interessanti. In gran parte di se stessa, naturalmente. Poi, dopo, sarebbero andati insieme a cena e a ballare. Lui l'avrebbe stretta tra le braccia e avrebbero volteggiato sulla pista per ore e ore e, all'alba, l'avrebbe condotta nella sua casa sulla spiaggia, davanti all'oceano, dove avrebbero fatto l'amore con passione. Lei non aveva ancora diciotto anni ed era vergine e voleva che Johnny Carson fosse il suo primo amore. Ti prego, dio, fa che succeda! Ti prego! Ti prego!
L'anno successivo Mary Wells aveva diciannove anni e non era più vergine, ma voleva ancora diventare una stella del cinema e apparire al Johnny Carson Show. La sera giaceva a letto e lo guardava in televisione dalla lontana California. Dopo un po', le sue lunghe gambe da pony si aprivano e lei lo sentiva dentro di sé, sopra di sé, sopra tutta se stessa. Lui era il simbolo di tutto ciò che desiderava, era la fine del suo arcobaleno. Lei sarebbe arrivata a lui, se solo avesse potuto andarsene di casa. Ci sarebbe riuscita, in un modo o nell'altro. Doveva farlo. «Johnny», sussurrava, mentre lo guardava e lo sentiva dentro di sé. «Aiutami, ti prego. Ti prego, Johnny! Ti prego!».
L'estate successiva disse addio ai suoi genitori. Aveva finito il primo anno di college e le era bastato. A quasi vent'anni, sarebbe andata a Hollywood. Loro diedero in escandescenze, supplicarono e piansero, ma lei se ne andò di casa. Non potevano fermarla. Sulla porta, suo padre, esausto, la prese a parolacce e le disse di non farsi più vedere. Non faceva sul serio, ma lei sì. Si ripromise di non tornare mai più in quella casa, né in quella città.
La settimana successiva, si trovò un piccolo appartamento a Los Angeles. Cambiò il suo nome in Kit e iniziò a guardarsi intorno. Era giovane, piena di energie e pronta a conquistare il mondo.
A un anno di distanza il suo mondo si era sgretolato. Aveva fatto del suo meglio, ma la fortuna non le aveva arriso. Lentamente era passata dall'ingenuità innocente all'indifferenza totale. Aveva cominciato a scambiare sesso con offerte di lavoro o anche solo promesse di offerte. Poi era passata a fare sesso in cambio di regali. Aveva trovato diversi lavori part-time, principalmente di notte, per avere il tempo di cercare degli ingaggi cinematografici durante il giorno. Dopo un po' i suoi tentativi si erano fatti sempre più rari, fino a cessare del tutto.
Aveva accettato un impiego in una sala da ballo perché le serviva il denaro. Era un lavoro duro e lei lo odiava, e una sera, appena finito, si era fermata qualche minuto all'aperto per respirare l'aria calda e soffocante. Un giovanotto l'aveva vista dall'altro lato della strada e si era affrettato a seguirla. All'angolo della strada l'aveva raggiunta…
Il corpo fu restituito al padre dall'ufficio del medico legale il 5 agosto. Avevano tentato di ricomporlo, di dare un qualche tipo di forma a quello sfacelo, ma lui se ne intendeva di quelle cose e non era possibile ingannarlo. Poiché era in qualche modo un addetto ai lavori e aveva passato la vita tra i cadaveri, gli fu finalmente concesso di leggere il rapporto del coroner. Diversamente da un profano, comprese perfettamente cosa c'era scritto e vide esattamente cos'era stato fatto alla sua bambina. Le lacrime gli velarono gli occhi e deglutì a fatica. Quello che aveva fatto una cosa del genere era un diavolo; un uomo non avrebbe potuto commettere un tale scempio senza perdere la ragione. Oppure era un pazzo pieno di rabbia, di furia omicida. Vincent Mungo era tutto questo e anche di più.
George D. Little riportò la figlia maggiore nel Kansas per seppellirla. Non disse a sua moglie e alle altre due figlie cosa ne era stato di Mary Wells. Il giorno seguente la seppellì in una cassa sigillata nel lotto di famiglia, nei pressi di una macchia d'alberi in un cimitero scrupolosamente curato. Solo i familiari più prossimi assistettero alla cerimonia.
Il 7 agosto il padre, afflitto, tornò a Los Angeles. Non si aspettava che la polizia catturasse l'assassino della sua bambina. Un mezzo demonio, Vincent Mungo era fuori della portata della legge. Era rimasto libero per un mese, contro ogni previsione. Lo sarebbe rimasto, a meno che non venissero usati dei rinforzi.
A Los Angeles, con discrezione, il padre fece delle ricerche basandosi su alcune informazioni ricevute da certi uomini d'affari del suo paese. La sera del suo ritorno a L.A., sedette in una malfamata discoteca topless nei pressi del Sunset Boulevard in attesa di un uomo che forse avrebbe potuto rintracciare Vincent Mungo. Rintracciarlo, per poi ucciderlo. Non solo ucciderlo, farlo a pezzi.
George Little non era un uomo violento, né era incline ad attacchi di collera. Ma sapeva che non sarebbe stato capace di mantenere il suo equilibrio mentale se non avesse fatto ogni cosa in suo potere per raddrizzare l'enorme torto subito da lui e dalla sua famiglia. Doveva fare tutto il possibile e intendeva farlo fino in fondo. Solo allora avrebbe potuto ritrovare la pace con i suoi, col suo lavoro e con se stesso.
Attese con impazienza nel locale, circondato da ragazze a seno nudo che si dimenavano a ritmo di musica.
Il senatore Jonathan Stoner stava sonnecchiando quando il telefono interruppe il suo pisolino. Aveva dormito poco nei tre giorni successivi alla scoperta dell'ultima vittima di Vincent Mungo. Aveva dovuto concedere interviste a giornalisti che venivano da ogni parte dello Stato. Era già apparso in televisione e alla radio e un'altra dozzina di apparizioni erano previste nei giorni successivi. Stava ricevendo molte richieste di conferenze da parte delle comunità locali e delle scuole. Improvvisamente tutti lo volevano. La sua durissima accusa a Mungo soddisfaceva la brama del pubblico di un'incarnazione del male. Mungo era il diavolo e lui l'eroe. Tutto il resto era facile.
Il telefono squillò di nuovo, assordante. Scosse il capo per riprendersi. Se non riusciva a dormire sul serio presto sarebbe crollato. Prese la cornetta.
«Stoner».
La voce di Roger era leggermente ritardata, come se venisse da lontano.
«Buone nuove», disse forte. «Cinque college confermati, più due apparizioni in TV a Denver e Houston, per ora. Ce ne saranno certamente delle altre. Pensano tutti che lei abbia in mano qualcosa di grosso».
«Dove sei ora?».
«A Houston».
Stoner si morse un labbro mentre pensava.
«Ascoltami bene. Stamattina mi ha chiamato Danzinger da Kansas City. Lui e i suoi sono molto interessati a quello che sta accadendo qui. Vogliono saperne di più. Tu corri lì e stringi un accordo. Quando torna comodo a loro». Fece una pausa. «Si tratta di una cosa grossa, Roger. Se li portiamo dalla nostra parte, significa avere un accesso a tutto il Midwest. Capisci? Quindi vacci subito e mettiti d'accordo. Per me va bene la settimana prossima, ma prima lo facciamo meglio è».
«Okay. Che facciamo con le altre scuole della lista? Ce n'è almeno una dozzina che dovrebbe accettare».
«Dovrai occupartene per telefono quando ritorni. Se mi vogliono…».
«Non è quello il problema, che diamine. La questione è riuscire a ottenere gli spazi televisivi nelle grandi città. È dura all'inizio, almeno fino a quando non si ottiene l'effetto valanga».
«Se mai l'otterremo».
«Senta. Io ora vado a Kansas City, poi mi occuperò di quante più scuole possibili sulla strada del ritorno. Va bene?».
Stoner pensò velocemente.
«Va bene», sospirò. «Ma torna quanto prima. Sono sprofondato fino al culo nella posta e in tutto il resto».
Telefonò a sua moglie per dirle che avrebbe lavorato fino a tardi. Sì, sempre di corsa. Come sempre. Poi chiamò la sua amica e le disse che l'avrebbe raggiunta presto. Quello di cui aveva bisogno era un po' di rilassamento e di sano riposo.
John Spanner non ci aveva creduto quando l'aveva sentito dal giornale radio. Dopo un mese di libertà, Mungo era praticamente introvabile: evidentemente aveva un travestimento perfetto e i mezzi per sopravvivere. Perché mettere tutto a repentaglio per un momento di rabbia? No, non aveva senso, e tutto ciò che Mungo aveva fatto fino a quel momento era stato assolutamente sensato. Talmente sensato che Spanner aveva sempre più dubbi sul modo di determinare la sanità mentale di qualcuno. O la sua follia, se per quello.
La sua reazione era stata di credere che qualcuno stesse imitando Mungo, come quell'operaio aveva fatto due settimane prima. Era un buon sistema per dirottare le indagini su un omicidio. Per l'opinione pubblica un assassino conosciuto era più facile da accettare della paura dello sconosciuto. Troppo spesso anche per la polizia. Con un omicida in libertà, la responsabilità poteva essere palleggiata dall'uno all'altro, mentre in un'indagine su un assassinio dove l'identità del killer era ancora da determinare, le responsabilità erano chiaramente circoscritte. Il che spiegava perché la polizia generalmente accettasse la teoria degli omicidi multipli e perché i potenziali assassini spesso copiavano il modus operandi di assassini molto conosciuti. Come Vincent Mungo.
Ma quando vennero diffusi maggiori particolari sull'omicidio di Los Angeles, specialmente quelli relativi allo spaventoso smembramento del corpo, Spanner si convinse che questa volta non si trattava di un semplice imitatore. Mungo era tornato al mondo con una furia vendicatrice. Se possibile, quest'ultimo omicidio era anche più selvaggio di quello dell'altro malato di mente la notte della fuga.
Per Spanner si trattava di un segno inquietante. Molto esperto in quel campo e per natura e temperamento in sintonia con le variazioni del comportamento aberrante, vide o credette di vedere uno schema emergente che avrebbe potuto far precipitare lo Stato in un regno di terrore. Sempre assumendo che Mungo fosse ancora all'interno dei confini. Il suo travestimento sembrava permettergli libertà di movimento, per cui avrebbe potuto allontanarsi con facilità e andare ovunque desiderasse. Libero di muoversi e di fermarsi come chiunque altro, sarebbe stato la peste discesa tra gli uomini, o un lupo tra le pecore. Spanner preferiva non soffermarsi sulle possibili conseguenze.
Non riusciva a scacciare la convinzione che le dissennate mutilazioni inferte ai corpi fossero la chiave dell'improvvisa passione di Mungo per l'omicidio, dopo una vita di comportamento non criminale. La gente uccideva all'improvviso per un'infinità di motivi o anche per nessuno. Ma lo scempio perpetrato doveva avere radici in qualcosa di terribile nel passato dell'uomo, qualcosa che non lo abbandonava. E questo era il motivo per cui aveva corso il rischio di far saltare la sua copertura, la sua nuova identità, qualunque essa fosse. L'aveva fatto perché doveva farlo. Questo significava che sarebbe successo ancora e ancora. Fino a quando non fosse stato catturato o ucciso.
La prospettiva fece sussultare Spanner. Se aveva ragione a proposito di uno schema attuale che aveva la sua matrice nel passato, sarebbe stato virtualmente impossibile prevedere dove o quando Mungo avrebbe colpito di nuovo, a meno di non conoscere la vicenda personale chiusa nella mente impazzita dell'uomo. Lui, Spanner, aveva letto tutti i fascicoli su Mungo sin dall'inizio: non c'era niente che giustificasse la furia attuale oltre al fatto che era paranoico. Negli articoli dei giornali non c'era niente riguardo alla provenienza e alla famiglia.
Senza nessuna motivazione o opportunità su cui lavorare, senza nessuna idea sulla sua attuale identità o sul travestimento, la polizia era impotente. Poteva solo attendere che commettesse un errore o che fosse colto sul fatto. Ogni volta che sfuggiva alla cattura significava che un'altra vittima innocente sarebbe stata orrendamente massacrata.
Spanner aveva la sensazione che prima di fare un errore Mungo sarebbe diventato un omicida seriale. Sapeva inoltre di trovarsi, come chiunque, di fronte al più pericoloso, al più inafferrabile omicida del mondo: l'uomo che uccide a caso senza un motivo evidente. Un uomo del genere era impossibile da fermare. Senza neanche una descrizione, era invisibile. Il solo pensiero di un mostro come quello, libero di muoversi in una città, in uno Stato, e perfino in una nazione, fece rabbrividire Spanner e lo riempì di terrore, come avrebbe fatto con qualunque altro poliziotto.
Il 5 agosto chiamò finalmente il dottor Walter Lang presso il suo nuovo posto di lavoro, a circa seicentoquaranta chilometri a sud dello Stato. Era domenica ed erano passati due giorni dal ritrovamento del corpo di Mary Wells Little. Lang conosceva il curriculum di Mungo e, ancora più importante, lo aveva visitato e aveva parlato con lui. Forse Spanner avrebbe potuto ottenerne qualche risposta utile.
All'ospedale gli dissero che il dottore era fuori ma che sarebbe rientrato alle 18,30 e che lo avrebbe richiamato.
L'atmosfera a Willows era eccezionalmente tranquilla il mattino del 4 agosto, perlomeno così sembrava a Henry Baylor dopo la conferenza stampa del pomeriggio precedente e le interminabili telefonate e riunioni. Di solito si prendeva il sabato libero e trascorreva un tranquillo weekend a casa con sua moglie. Ma quel weekend era diverso. Il capo di un istituto come il Willows doveva trovarsi al suo posto nei momenti di crisi, continuava a ripetersi. Si chiedeva solo quanto, questa volta, fosse grave la crisi.
Non riusciva a capire perché la polizia non avesse ancora catturato Mungo. Avevano la sua foto e la sua descrizione, conoscevano le sue abitudini e i suoi difetti, dove gli piaceva andare e cosa gli piaceva fare. Lui non possedeva niente, non era neanche molto intelligente. Eppure dopo un mese era ancora in circolazione e la polizia non aveva idea di dove si trovasse. Forse era a Los Angeles, perché era lì che aveva già assassinato qualcuno. Ma poteva essere già altrove, ad assassinare qualcun altro, per quanto ne sapevano.
Baylor stava diventando sempre più amaro nei confronti dei poliziotti. Avevano sempre avuto un ottimo rapporto perché, come direttore di un manicomio criminale di Stato, era lui stesso una specie di poliziotto. Ma ora lo stavano mettendo in imbarazzo e forse anche nei guai. Dopo l'evasione di Mungo lui era stato in grado di disfarsi del progetto sperimentale e di far trasferire il dottor Lang, salvando così se stesso. Questo aveva tranquillizzato i dirigenti statali per il momento. Ma ora il nuovo omicidio aveva richiamato l'attenzione su Willows e su di lui. Non sarebbe servito a niente sacrificare qualcun altro del personale; la prossima testa a cadere probabilmente sarebbe stata la sua. Fece una smorfia dolorosa al pensiero che Mungo potesse uccidere ancora.
Rispose al telefono al terzo squillo, ricordandosi che la sua segretaria era fuori. Era Adolph Myers dell'amministrazione penitenziaria della California che chiamava da Sacramento. Si sarebbe tenuto un incontro nella capitale entro un'ora. Sì, al massimo livello. Esatto. A proposito dell'ultimo omicidio, naturalmente. Andavano prese delle decisioni, si dovevano fare alcuni… riassestamenti. Certe persone erano scontente di tutta quella vicenda. Molto scontente. No, era impossibile fare previsioni. Troppo presto, comunque. Se solo la polizia lo catturasse. Sì, c'era sempre quella possibilità. Sì, fra poche ore. Cosa? Sì, certo.
Il dottor Baylor riagganciò il telefono, sapendo che avrebbe ripetuto quel movimento molte volte quel giorno. Avrebbe voluto essere a Sacramento, invece di dover attendere la loro chiamata. Non gli piaceva il disordine e non voleva essere interrotto. Ma più di tutto non gli piaceva essere tenuto in attesa mentre stava aspettando qualcosa.
Frank Chills non riusciva a togliersi l'immagine dalla testa. Erano sul tavolo come due cucchiaiate di gelato, o come una grossa patata, sbucciata e tagliata in due. Lui aveva già visto braccia, gambe e dita tagliate, ma mai niente del genere. Due anni nella Sanità Militare e nove come assistente in ospedale e non aveva mai visto una cosa così.
Buttò giù un altro bicchierino. E non aveva neanche dato un'occhiata nell'altra stanza! Figlio di puttana, disse tra sé, gli sarebbe piaciuto mettere le mani su quel tizio. Lo avrebbe tagliato a pezzettini.
A Frank piaceva bere e pensò che avrebbe fatto bene a farsene un altro. Erano solo le nove e non era ancora del tutto ubriaco, quel venerdì sera. O almeno non abbastanza da cancellare l'orribile ricordo di quella mattina. Prima aveva chiamato l'ospedale e si era dato malato per il suo turno dalle quattro a mezzanotte. Ora l'unica cosa che voleva fare era dimenticarsi la vista dei seni della ragazza. Ordinò un altro drink.
Le edizioni della notte erano già in edicola coi titoli che strillavano all'omicidio. Nascosto in una pagina interna c'era un trafiletto datato venerdì 3 agosto su una donna scomparsa da diverse settimane. Era partita in auto per una vacanza all'interno dello Stato. Si chiamava Velma Adams ed era proprietaria di un ben avviato salone di bellezza nella zona ovest di Los Angeles.
A mezzanotte Frank Chills era così ubriaco che dovette essere accompagnato fino alla porta. Aveva raccontato a tutti nel bar del ritrovamento della ragazza assassinata. Nessuno lo voleva sapere, volevano solo divertirsi all'inizio di un caldo weekend cittadino.
Mentre si trascinava lentamente verso casa, Frank desiderava solo che l'assassino ci provasse con lui. Lo avrebbe fatto a pezzi. Lo avrebbe ammazzato. O dio! Vomitò sul parafango di un auto.
Quando finalmente raggiunse il letto a casa sua, il venerdì notte era ormai sabato mattina.
La chiamata da Sacramento arrivò alle tre e quaranta del pomeriggio di domenica. Il dottor Baylor rispose al telefono. Era molto arrabbiato a causa della lunga attesa, ma controllò le sue emozioni e la voce. Il vertice, gli fu detto, era andato meglio del previsto. La polizia, più del Dipartimento carcerario, stava ricevendo il grosso degli attacchi. Non che questo significasse che erano fuori dai guai. Anzi. Certe misure e riforme sarebbero state prese in tutti gli istituti statali. I dettagli li avrebbero discussi più avanti, assieme ad alcuni cambi del personale. No, non era stato detto niente a proposito dei direttori. Non ancora, almeno.
La telefonata terminò con l'avvertimento che se gli omicidi fossero continuati… Be', allora, poteva accadere di tutto. Baylor, psichiatra conservatore ed efficiente amministratore, capì perfettamente.
Lasciò l'ufficio alle sedici e trascorse la sera del sabato a una noiosa festa, durante la quale l'anfitrione fece suonare della musica fastidiosa e troppo forte. Baylor e sua moglie se ne andarono presto e sulla strada di casa lui si chiese, come faceva spesso, perché alcune persone non sembravano mai diventare adulte. Era come se fossero prese in una distorsione temporale dell'infanzia, intrappolate tra sogni impossibili o incubi inconciliabili.
Domenica sera alle sette e mezzo il dottor Lang telefonò a John Spanner. Si scusò per essere stato fuori, ma era domenica. Spanner a sua volta si scusò per averlo disturbato. C'era qualcosa che voleva controllare col dottore, se non gli dispiaceva.
«Il dottore pensava che Vincent Mungo fosse capace della violenza dimostrata sulla ragazza di Los Angeles?».
«Sì. Certamente».
«Da dove proveniva una rabbia del genere?».
«Furia demoniaca, la definirei. Probabilmente venuta in superficie dopo esser rimasta per anni latente nell'inconscio. Questo tipo di rabbia di solito si risolve lentamente nella persona, ma a volte è rimossa. Poi un giorno esplode e si dà di matto».
«Mungo non avrebbe potuto controllare la propria collera?».
«No, se fosse diventata troppo violenta».
Anche nel caso questo avesse comportato il rischio di essere scoperto e catturato? O ucciso?
«Anche in quel caso». Il dottore fece una pausa. «Ma generalmente questo tipo di collera è accompagnato da una sensazione di invincibilità, e il soggetto non pensa normalmente alla possibilità di essere fermato. Si sente talmente superiore che la sua cattura è impossibile. Non la prende neanche in considerazione. Non seriamente, comunque».
«Questo tipo di collera potrebbe seguire un qualche schema?».
«Potrebbe. In un certo senso tutto è ciclico, e Mungo indubbiamente ha un orologio interno che scandisce un suo ritmo. Ma senza esempi sufficienti, è impossibile individuare lo schema».
«Intende dire senza nuovi omicidi?».
Ci fu un silenzio.
«Temo di sì», disse infine Lang.
«Perché le mutilazioni?».
«Be', le motivazioni sono ovviamente sessuali. Ma quale sia il loro significato per Mungo non si può dire senza studi ulteriori».
«Lei reputa che ciò che lui sta facendo ora sia collegato in qualche modo al suo passato?».
«Tutto è connesso al passato, tenente. Almeno finché c'è memoria. Anche dopo abbiamo i riflessi automatici e il condizionamento cellulare».
«Lo ha visitato lei, dottore. Che opinione si era fatta del soggetto?».
«L'ho trovato marginalmente aggressivo, forse un po' lento di comprendonio. E inoltre pieno di violenza repressa».
«Quindi ciò che sta facendo non la sorprende?».
«Non proprio. Anche se non credevo che ci fosse la scintilla necessaria per esplodere. Ma immagino che non si possa mai dire con sicurezza».
«Ma lei è sicuro che sia Mungo, quello là fuori?».
Seguì un lungo silenzio.
«Dottor Lang?».
«È una cosa curiosa da chiedere».
«Mi chiedevo solo se tutto questo si adatti allo schema mentale che lei si era fatto di Mungo».
«In mancanza di altro, devo dire di sì».
«Un'ultima cosa, dottore. Definirebbe Mungo un sadico?».
«Sì, direi che aveva delle forti pulsioni sadiche. Quel tipo di uomo spesso le ha».
«Queste… pulsioni, possono essere superate con l'età?».
«Di solito no».
Più tardi, Spanner si sedette sulla sua veranda e vi rimase a lungo, fumando la pipa e rimuginando strani pensieri. Quando andò a letto era già il 6 agosto.
«Quello di cui non ho bisogno è un'altra giornata come questa», disse quella notte il senatore Stoner tra le braccia della sua amante.
Sdraiata pigramente sulle lenzuola aggrovigliate, lei lo attirò più vicino, allargando lentamente le gambe.
«Ti aiuto a rilassarti», disse facendo le fusa. «Poi, dopo, mi racconterai tutto».
L'uomo era pesante, duro. Il vestito scuro gli stava preciso.
«George Little?».
Il padre di Kit alzò lo sguardo dal tavolo e strinse le labbra in segno di conferma.
«Facciamo due passi».
Attraversarono la parte posteriore della sala topless e uscirono sul retro. Nel vicolo una grande berlina nera aspettava a motore acceso. L'uomo aprì lo sportello. «Dentro», ordinò.
Mentre George Little entrava nell'auto, un uomo lo osservò dal sedile opposto.
«Mi voleva vedere per un contatto su Vincent Mungo…».
Era la sera del 7 agosto. Dodici ore più tardi, a Fresno, a circa quattrocento chilometri di distanza, un altro uomo entrava in un'altra automobile. Guardò incredulo la figura solitaria sul sedile posteriore.
«Carl?».
L'uomo sorrise. «È bello rivederti, Don». Mosse un dito verso l'autista e riportò la sua attenzione su Solis. «È passato un sacco di tempo».
«Pensavo tu fossi…».
«Morto». Continuò a sorridere. «Lo hanno pensato tutti. È per questo che sono vivo».
«Gesù, non posso crederci». Solis scosse il capo. «Dove diamine sei stato?».
La grossa limousine si mosse senza sforzo nel parcheggio, il motore ronzava silenzioso. Nel lussuoso interno non si sentiva niente.
«Facciamo un breve giro», disse noncurante Carl Hansun. «Puoi lasciare il locale per una mezz'ora?».
«Sì, certo, non c'è nessun problema». Solis non riusciva a crederci. Continuava a pensare che fosse un qualche stupido trucco dei poliziotti. Ma aveva riconosciuto l'alta figura ossuta anche dopo tutti quegli anni. «Quanto tempo è passato?», chiese.
«Ventun anni», rispose Hansun. «Ventun anni e cinque mesi».
«Così tanto?». Una volta a Solis erano sembrati una vita, quando marciva in prigione. Ma ora, seduto accanto al suo amico di allora, gli sembravano trascorsi solo pochi giorni. «Cristo, vuol dire che sto invecchiando».
Hanson fece un'espressione addolorata. «Ho due anni più di te. Non ricordarmelo».
«Quando non ho più avuto tue notizie, ho pensato… be', lo sai».
«L'ho letto sui giornali. Una maledetta sfortuna».
«Poteva andarmi peggio», disse Solis tranquillo. «Sono stato nel braccio della morte per un paio di anni».
«L'ho sentito».
«Ma mi è andata bene. Ho scontato la condanna e sono uscito».
«Sei stato bravo», disse Hansun con calma. «E ora sei un responsabile uomo d'affari. Anche di successo, da quanto ho visto».
Solis scrollò le spalle. «Va bene per me e Les. Ehi, non hai ancora visto mio fratello. Ragazzi! Ci sarà da festeggiare, stasera. Come ai vecchi tempi».
«Magari un'altra volta», disse rapidamente Hansun. «Ora sono un po' sotto pressione». Si appoggiò allo schienale. «Come sta, comunque?».
«Les? Oh, sta bene. Sai com'è Les. Non parla molto». Si chiese perché Carl non volesse festeggiare. Forse stava male. «Stai bene? Voglio dire, la testa e tutto il resto?».
Hansun si picchiettò il cranio. «Mai stato meglio. Mi hanno messo una nuova placca d'acciaio. Questa è garantita a vita». Si accese una Camel e aspirò. «Ho sempre un solo polmone che funziona», disse tossendo. «Non mi è permesso fumare, ma ogni tanto me ne faccio una di nascosto… Sai com'è».
Solis lo studiò per un attimo. «Ti trovo bene, Carl. Sembri uno importante, un pezzo grosso o qualcosa del genere. Come se fossi ricco. Ecco come sembri». Sorrise. «Sei diventato ricco, Carl?».
«Abbastanza».
«Già, ma chi decide quand'è abbastanza?».
Hansun sospirò. «È sempre quello il problema».
«Sei nel racket?».
Un sorriso. «Non proprio. Ho un mucchio di imprese di costruzioni a nord, ci sono andato dopo Los Angeles. Ho messo ogni centesimo nell'affare e ho fatto fortuna». La voce si ridusse a un sussurro. «Ora sono il padrone. Anche di altre cose».
«Deve essere bello, con tutto quel denaro».
«Non mi lamento. Mia moglie e io viviamo bene».
«Sempre sposato».
«Con la stessa donna. Sono quasi trent'anni». Grugnì. «Deve essere amore».
«Deve esserlo davvero».
Viaggiarono in silenzio per qualche minuto. Don Solis si chiedeva cosa volesse Carl dopo ventun anni di silenzio. L'unica cosa di cui era certo, era che non si trattava di una visita di cortesia. Non era necessario chiedergli come lo avesse trovato. Carl sembrava abbastanza ricco da comprarsi tutto e tutti, informazioni comprese.
«Leggi molto i giornali?», chiese infine Hansun.
«Di tanto in tanto».
Altro silenzio.
«Questa faccenda della pena di morte sta diventando parecchio seria».
«Sono solo chiacchiere».
Hansun si voltò a guardarlo. «Sto parlando di affari, ora. Non parlo di chiacchiere».
Solis rimase ad ascoltare.
«La politica giusta aiuta il mondo degli affari a fare soldi. Ma costa un sacco di soldi avere la politica giusta e sono tutti soldi che provengono dal mondo degli affari. È come si dice: una mano lava l'altra». Una pausa. «Noi abbiamo della gente in Idaho – il tipo di gente giusta – e un paio di politici qui in California che vogliamo siano eletti. Loro sanno come dovrebbero funzionare gli affari. Quindi noi ora li aiutiamo, e poi loro aiuteranno noi e tutti faranno i soldi. È semplice».
«Chi intendi per "noi"?».
«Soci in affari».
«E tu hai degli affari anche qui?».
«Su a nord, più che altro».
«Qual è la tua posizione sulla pena di morte?».
Hansun fece una smorfia. «Improvvisamente è diventata una questione importante, in questa parte del paese. Non so perché, ma lo è. Procurerà un mucchio di voti».
«Ne farà anche perdere un mucchio».
«Ed è lì che ci puoi aiutare, almeno in questo Stato».
Solis vide arrivare la palla.
«Hai conosciuto un tipo chiamato Caryl Chessman, vero?».
«Chessman? Certo, in carcere. Ma è stato tanto tempo fa, vent'anni». Si grattò il naso. «Tra l'altro è morto».
«È un personaggio importante da queste parti, la gente se lo ricorda. Principalmente per la controversia sulla pena di morte».
«E allora?».
«C'è gente che vuole usare Chessman», spiegò Hansun paziente, «come pretesto per un argomento delicato. La gente giusta, capisci cosa intendo?».
«Da che parte stanno?».
«La reazione è forte e diventerà più forte. Crediamo che diventerà un importante fattore politico per molti anni. Per la politica dello Stato, almeno».
«Così vogliono di nuovo uccidere Chessman».
«Meglio che lasciarlo libero».
«È morto, per dio».
«Ma noi non lo siamo».
Un altro lungo silenzio.
«E io cosa c'entro?», chiese infine Solis.
«Tu conoscevi Chessman, hai parlato con lui per un paio di anni».
«Come tutti gli altri».
«Ma lui l'ha detto solo a te».
«Che cosa?».
«Che era colpevole. Che altro?».
Solis strinse gli occhi. «Non me l'hai mai detto».
Hansun sorrise. «Te ne sei dimenticato dopo tutti questi anni. Non ci hai mai più pensato. Ma ora che i giornali ne parlano di nuovo, te lo sei ricordato. Ti ha detto che aveva compiuto quelle rapine e quegli stupri e che se fosse uscito lo avrebbe fatto di nuovo».
«Non ti seguo».
«C'è un senatore dello Stato che spinge per la pena capitale e presto dei membri del Congresso lo seguiranno. Noi vogliamo aiutarli il più possibile». Si inumidì le labbra. «Vogliono usare Chessman per dimostrare che la pena di morte protegge i cittadini dai criminali pericolosi. Ma alcuni non credono che Chessman fosse colpevole o pensano che non dovesse morire. Qui entri in ballo tu a dichiarare che era colpevole e che meritava la morte. Hai conosciuto Chessman in prigione dove non si fa altro che parlare del passato. Un sacco di gente ti darà retta».
«I politici sanno questa cosa?».
Hansun scosse il capo. «Per loro tu sei regolare. Non lo sapranno fino a quando non glielo diremo, al momento giusto».
«Non funzionerà mai. I giornali controlleranno».
«Contiamo proprio su quello. Tu sei stato davvero in carcere con Chessman. Ora sei un ex detenuto che cerca di guadagnarsi la vita onestamente con una piccola attività commerciale. Non hai niente da guadagnare e niente da perdere, ma hai sentito comunque di dover fare la cosa giusta. Sei perfetto per questo. Hai tutte le credenziali e nessuno potrà provare che non è accaduto».
«Chiunque era in carcere allora potrebbe fare quello che chiedi».
«Ma hai qualcosa che gli altri non hanno. Tu ora sei rispettabile e sai tenere la bocca chiusa». Hansun guardò rapidamente verso l'amico. «C'è un'altra cosa, Don».
«Cosa?».
«Mi devi un grosso favore», sussurrò Hansun. «E ora te lo sto chiedendo».
«È così, eh?».
«Il ristorante che hai aperto viene da un assegno di dieci testoni».
«Sei stato tu?».
Hansun fece di sì col capo.
A Solis non piaceva. Voleva solo guadagnarsi da vivere e tenersi fuori dai guai. Ora c'era di nuovo dentro. Anche se nessuno poteva confutare la sua storia, sarebbe sempre stato in pericolo a causa della pessima pubblicità, dei fanatici contrari alla pena di morte e dei patiti di Chessman. Avrebbe probabilmente perso il ristorante e se avessero mai scoperto che aveva mentito, avrebbe perso anche la propria vita. Lo avrebbero crocifisso di nuovo in una cella.
Ma non poteva dire di no. Aveva un debito e gliene stavano chiedendo conto. Carl e la sua gente puntavano molto in alto e un rifiuto avrebbe significato una sola cosa. Un giorno avrebbe sentito bussare alla porta, o forse non avrebbe neanche sentito.
«Io che cosa ci guadagno?», disse con la sconfitta nella voce.
Il convegno a Sacramento finì alle 13,30 e lo sceriffo Oates si sentiva come se lo avessero investito con uno schiacciasassi. Era una giornata calda e la gente era arrabbiata. Specialmente i pezzi grossi dell'ufficio del governatore. Come aveva potuto Mungo sfuggire a una rete di centomila uomini, tra poliziotti e altre forze dell'ordine? Era il 10 agosto. Com'era possibile che un uomo, il cui volto era conosciuto, restasse in libertà per quasi quaranta giorni? Non era solo libero, ma anche in grado di uccidere di nuovo. Come diavolo poteva succedere una cosa del genere?
Non c'erano risposte. Un mucchio di teorie da parte di una dozzina di uomini seduti in una sala conferenze, ma niente di definito. Mungo potrebbe essere travestito da donna. Potrebbe essersi fatto segretamente un'operazione di chirurgia plastica. Forse viveva con qualcuno che lo nascondeva; nel qual caso non doveva uscire se non per uccidere. O forse aveva già un nascondiglio ben fornito ancora prima di evadere e i suoi parenti potrebbero essere coinvolti. Il suggerimento più curioso fu che Mungo fosse morto e che il suo ruolo fosse stato preso da qualcuno altrettanto folle. Oates rifiutò quell'idea perché gli sembrava ovvio che l'uomo che aveva mutilato la ragazza era lo stesso mostro che aveva massacrato l'altro evaso, ovvero Mungo.
Privi di risposte, avevano fatto nuovi programmi. Altri uomini avrebbero perlustrato il territorio di Los Angeles, avrebbero bussato a ogni porta se necessario. Sarebbe stato dato nuovo slancio alla diffusione della descrizione di Mungo e alle stazioni televisive sarebbe stato chiesto di collaborare. Una dozzina di investigatori di Stato sarebbe stata assegnata al caso a tempo pieno, istituendo un comando centrale a Sacramento. Infine, una taglia di cinquantamila dollari sarebbe stata offerta per le informazioni che potevano portare all'arresto di Vincent Mungo. La condanna era garantita.
Sulla strada di ritorno per Forest City, lo sceriffo, sollevato di non essere più l'unico responsabile della cattura, ebbe la scomoda premonizione che da sole le nuove proposte non sarebbe bastate. C'era qualcosa di molto strano nella capacità di Mungo di scomparire e riapparire a piacere. E qualcosa di realmente demoniaco nel suo disprezzo per il corpo umano. Oates si trovò a pensare di nuovo ai demoni della sua infanzia.
Quattro giorni dopo, Amos Finch si alzò per la seconda volta quel mattino. Diversamente dal precedente, questo tentativo ebbe successo. La ragazza biondo-fragola continuò a dormire mentre lui faceva la doccia e si vestiva. Davanti alla cassetta della posta sfogliò bollette e pubblicità fino a trovare la lettera che aspettava.
Nella cucina della sua casa nei pressi del campus di Berkeley, si preparò la sua solita colazione con spremuta di arancia fresca, toast leggermente imburrato e caffè nero. Mentre mangiava lesse senza fretta la lettera. La risposta di Sacramento alla sua richiesta era un cortese rifiuto. Non reputavano fattibile in quel momento assegnare dei civili, per quanto esperti, alle indagini su Mungo. Ciò che realmente intendevano – lui lo capiva perfettamente – era che non volevano che un professore curioso ficcasse il naso. Era il 14 agosto. Ci avevano messo tre settimane per dirgli di no. Ne fu amareggiato.
Fu anche divertito dalla mancanza di immaginazione delle autorità che non si rendevano conto di avere bisogno di tutto l'aiuto possibile. Anche senza essere al corrente delle informazioni riservate, lui avrebbe potuto dire loro un paio di cose. Per esempio, che Vincent Mungo non aveva ucciso quella ragazza a Los Angeles.
Nell'omicidio di Willows, solo il viso era stato distrutto, probabilmente da Mungo. A Los Angeles invece il corpo era stato massacrato mentre il viso era rimasto intatto. Se non esisteva un motivo logico dietro a quegli scempi, se, come sembrava certo, erano entrambi semplici espressioni di una furia cieca, la conclusione era inevitabile. Gli omicidi erano opera di due diverse persone. I maniaci omicidi operavano secondo schemi predeterminati, come chiunque altro, ed era estremamente difficile che cambiassero il proprio sistema.
Amos Finch sentiva l'orrore della sua conclusione. Da qualche parte, in California, c'era un secondo maniaco omicida, infinitamente più pericoloso di Vincent Mungo. Privo di un volto, di un nome, sconosciuto e insospettato, era spinto da una tale furia che gli faceva distruggere l'intero corpo delle sue vittime. Sotto la maschera di Vincent Mungo poteva fare qualunque cosa e andare ovunque. Ovunque…