I.

Fino ai ventun anni sua altezza granducale la principessa Priscilla di Lothen-Kunitz era stata una giovane dama molto promettente. Graziosa d’aspetto, ben più di quanto lo siano in genere le principesse, si comportava sempre in modo aggraziato e opportuno.

Faceva quanto le veniva detto; anzi, faceva il proprio dovere senza bisogno di dirle nulla, cosa ancor più apprezzabile. Il padre, da giovane e nella mezza età un uomo dal temperamento focoso e ora un anziano gentiluomo irascibile che amava il buon cibo e si impuntava sulla più stretta osservanza del protocollo, sentiva per la figlia un impeto d’orgoglio ogni volta che gli tornava in mente. La madre, per nascita una principessa inglese di un’eccentricità imbarazzante e inaspettata in una lady di rango reale, eccentricità che fino al termine della sua esistenza aveva continuato a saltare fuori nei momenti meno opportuni, morì quando Priscilla aveva sedici anni. Le sorelle, una maggiore e una minore di Priscilla, erano entrambe molto meno piacevoli da guardare e molto più difficili da governare; tuttavia ognuna aveva fatto un matrimonio adeguato ed era diventata un vanto per il casato, mentre Priscilla... beh, nel suo caso credo sia meglio descriverne la spaventosa condotta.

Ma innanzitutto l’aspetto. Era più alta della media, caratteristica apprezzabile in una principessa che, prima di ogni altra cosa, deve colpire il pubblico col suo portamento dignitoso. Aveva il mento allungato e a punta, e una bocca dolce con labbra piene dalla linea gentile. Il naso non era perfettamente dritto: un lato era impercettibilmente diverso dall’altro, una leggera asimmetria che conferiva al suo viso un fascino a cui mai potrebbero ambire coloro dai cosiddetti lineamenti cesellati.

La carnagione era chiara, del tipo che nelle estati calde o nelle giornate d’inverno, quando il sole batte forte sulla neve, si riempie di lentiggini, l’incarnato liscio e delicato che spesso si accompagna a ciglia e sopracciglia color dell’oro, e capelli più ramati che biondi. Priscilla aveva questo tipo di ciglia, sopracciglia e capelli, oltre a begli occhi grigio azzurri, tranquille pozze di pensiero, come li definiva il poeta di corte quando, nel giorno del suo compleanno, era costretto a prodursi in ufficiali espressioni di estasi; e poiché tutti erano sicuri che non fossero proprio niente del genere, le esternazioni del poeta erano sempre applaudite. In effetti una principessa in possesso di tali pozze sarebbe stata del tutto fuori luogo nel Lothen-Kunitz, addirittura quasi una calamità; non ne avevano forse già avuta una?

Era stato proprio questo il problema con la defunta granduchessa: pensava troppo, nessuno riusciva a fermarla, e di conseguenza la sua vita era un peso per sé stessa e per tutti gli altri a corte. Ma Priscilla era molto tranquilla. Non esprimeva mai un’opinione, per cui tutti erano giunti alla conclusione che non ne avesse. Non criticava mai, non discuteva; era arrendevole, obbediente, mite. Eppure le sorelle, che spesso criticavano e discutevano, che di rado erano state obbedienti e mai in assoluto miti, come già detto erano opportunamente diventate mogli di principi, mentre Priscilla, beh, basta continuare a leggere per sapere cosa divenne Priscilla.

Ora un accenno su dove viveva. Il granducato di Lothen-Kunitz, nel meridione d’Europa, è una ridente regione di fertili pianure, colline rivestite di foreste e ampi fiumi. È uno dei primi posti in cui si ferma la primavera nella sua risalita dall’Italia; e l’autunno, una volta arrivato, vi si attarda, maturo e sereno, con i suoi cieli immobili e le giornate senza vento, ancora per un bel po’ dopo che sassoni e prussiani hanno acceso la stufa e tirato fuori le pellicce. È un luogo dove i fichi si mangiano appena colti, in giardino, e dove i vigneti risplendono sui fianchi delle colline. Lì la gente è cattolica, e il pastore protestante non getta sull’esistenza l’ombra della sua tonaca nera. Lì, nel camminare lungo le strade bianche, si superano le effigi del Cristo in croce lungo il ciglio, silenzioso memento per chi tende a dimenticare la bellezza della pietà e dell’amore. E Kunitz è talmente vicina al cuore delle cose che la mattina, dopo colazione, puoi prendere il treno e nel pomeriggio trovarti al fresco dei portici di piazza San Marco a Venezia, a bere il caffè.

Kunitz è la capitale del ducato, e il palazzo sorge su una collina. È uno di quegli edifici a più livelli e dalle molte finestre, torrette e merlature che il turista ammira dal basso come la materializzazione di un sogno d’infanzia. Un ramo del fiume Loth si snoda ai piedi della collina, separando la famiglia ducale dalla cittadina dai tetti rossi che sorge sulla riva opposta.

Kunitz si estende tutt’intorno alla collina, cingendo il castello come un girocollo di antiche pietre preziose. I frutteti e gli orti ducali si allungano dai piedi delle mura di cinta fino al ciglio dell’acqua, ricoprendo la base del colle di un manto di fiori e frutti. Non esiste spettacolo più bello di queste mura e torrette grigie svettanti dalla nuvola di fiori che si può godere dalla piazza del mercato di Kunitz nel volgere lo sguardo a est lungo la stretta via in un mattino di maggio. E se chi guarda è un sognatore non faticherà a immaginare che là dove lo svolgersi della vita è così incantevole, ogni singolo giorno sarà sicuramente una gemma di perfetto splendore.

Ma la principessa Priscilla sapeva bene come stavano le cose. Per sua sfortuna la vita tra le pareti di palazzo le appariva di una palese volgarità, sempre invasa da lacchè e funzionari di ogni ordine e grado, da troppo cibo, troppi abiti, dallo spreco, corrotta da un febbrile sciupio di tempo, da una spaventosa mancanza di intimità, da un’indicibile tristezza.

Priscilla viveva tutto questo comportandosi sempre in modo consono all’idea di principessa riverita dai funzionari, fingendo immancabilmente di non notare il loro puro servilismo, chiudendo immancabilmente gli occhi davanti all’ipocrisia e al più avido egoismo. Immagina, o turista pieno di illusioni e privo di obblighi, che vaghi tranquillamente nella piazza del mercato, l’orrore di non poter mai stare soli un istante dal momento in cui ti alzi dal letto al momento in cui ti ci infili di nuovo. Immagina l’infinita pazienza che ci vuole per rimanere passivo e ascoltare chi ti parla, per lasciarti intrattenere, divertire e accudire, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Immagina l’insofferenza che deriva, se sei una persona sensibile, dall’essere osservato da occhi penetranti e indagatori, occhi cui non sfugge mai un dettaglio, bramosi di percepire il minimo cambiamento d’espressione e di trarre conclusioni a fini personali.

Le sorelle di Priscilla accettavano tutto questo come l’ordine delle cose: non le infastidiva l’essere osservate con curiosità né il diventare argomento di conversazione, non desideravano mai stare sole e amavano lasciarsi riempire di attenzioni dalle dame di compagnia. Perché loro, beate ragazze, avevano la pelle dura. Priscilla invece era una sognatrice, una poetessa che non scriveva poesie ma il cui animo, per quanto nascosto, era colmo dei desideri e delle passioni da cui nasce la poesia. Come le sorelle, neppure Priscilla aveva mai conosciuto un altro stile di vita; eppure lo sognava di continuo, lo agognava di continuo, ne leggeva di continuo.

La incoraggiava una sola persona, più che sufficiente per chi è determinato a ribellarsi. Questa persona – di età avanzata e causa di tutto lo scompiglio che seguì, poiché non vedo come Priscilla avrebbe potuto fare senza il suo aiuto – era il bibliotecario ducale, Hofbibliothekar, capo e in pratica padrone della meravigliosa collezione di libri e manoscritti, il cui solo catalogo faceva venire l’acquolina in bocca ai dotti di ogni parte d’Europa, li faceva sospirare di un’invidia senza speranza. Anche lui aveva dei funzionari ai suoi ordini, ma diversi dagli altri: giovanotti miti, studiosi e miopi il cui compito, per quel che vedeva Priscilla, era profondersi in un esagerato inchino ogniqualvolta lei e la sua dama di compagnia entravano nella stanza. Il bibliotecario si chiamava Fritzing; in origine era stato un semplice Herr Fritzing, ma per lenti gradi era arrivato al titolo dignitoso e altisonante di Herr Geheimarchivrath Fritzing. In verità, una volta concluso il suo ruolo di insegnante di grammatica inglese per Priscilla, il granduca gli aveva proposto il conferimento di un titolo nobiliare, ma Fritzing, il cui spirito albergava tra gli antichi greci, non riusciva a capire perché mai dovesse trovare desiderabile tale passo.

Quando la dama di compagnia sonnecchiava, Priscilla lo chiamava Fritzi; a volte persino Fritzi caro, nell’affanno della protesta o della perorazione. Ma poi, nel lasciare la stanza con lo stesso incedere solenne di quando era entrata, tallonata dalla custode ora del tutto sveglia, lo salutava con un cenno del capo e un gentile seppur formale «Buon pomeriggio, Herr Geheimrath», come se non avesse mai smesso di rivolgersi a lui in quel modo.

La contessa – la dama di compagnia di Priscilla era la contessa Irmgard von Disthal, una donna massiccia e lenta, figlia nubile di un nobile casato, all’epoca sui cinquant’anni, e per fortuna, o forse sfortuna, di Priscilla, grande appassionata di lauti pasti e dei saporiti sonnellini che ne seguivano – si inchinava a sua volta con le movenze più maestose a lei concesse dalla mole, ma con una freddezza tale che in una qualunque persona meno esperta nelle diverse sfumature di portamento sarebbe sembrata un’espressione di totale disprezzo. Una freddezza perfettamente giustificata, del resto. Non era forse lei una hochgeboren, l’esponente di un antico casato, con un pedigree altisonante fin dove era possibile andare indietro nel tempo? Mentre non era forse lui il figlio di un insignificante contadino della Westfalia, uno che da giovane badava scalzo ai maiali? Vero, aveva un’istruzione, una cultura e una grossa testa piena di cervello, mentre la contessa Disthal aveva la testa piccola, quasi niente cervello, assolutamente niente anima e nessunissima istruzione. Sacrosanto, ma tant’è. La contessa era la contessa, mentre Fritzing non era nessuno, e il sussiego che lei gli riservava era assai più granducale di ciò in cui Priscilla stessa avrebbe mai saputo o voluto prodursi.

Fritzing, talentuoso e fin da giovane parecchio intraprendente – così si spiega l’abisso tra il suo passato di guardiano di porci e il titolo di Hofbibliothekar – aveva passato dieci anni a Parigi e venti in Inghilterra, ove aveva ricoperto diverse mansioni, sempre arrivando molto in alto sulla scala dell’intelletto, giungendo persino, nel corso di tale ascesa, a parlare inglese come i veri inglesi, per quanto in modo più solenne, johnsoniano. Aveva cominciato la sua carriera a Kunitz all’età di cinquant’anni, e amando molto i bambini si era dedicato all’istruzione delle tre principesse; ora che, già da un pezzo, avevano imparato tutto ciò che importava loro di sapere, finse di scoprire in Priscilla un talento per il disegno, proprio lei che non sapeva tracciare una linea dritta, per non parlare poi di una curva, così che potesse continuare a raggiungerlo in biblioteca ogniqualvolta ne avesse avuto voglia con il pretesto di una lezione d’arte. Per il granduca le figlie dovevano sapere un po’ di tutto ma niente troppo bene; e se Priscilla avesse espresso l’intenzione di studiare Shakespeare con il bibliotecario, lui l’avrebbe proibito con sdegno. Non aveva già avuto dieci anni per studiare Shakespeare? Voler continuare oltre era segno d’ingordigia, e il granduca detestava le donne ingorde.

Non aveva però niente da obiettare a qualche lezione di disegno; ed era durante le lezioni di disegno dell’estate in cui Priscilla compì ventun anni che la contessa Disthal dormiva i suoi sonni indisturbati. Faceva molto caldo, e l’ampia sala era fresca e silenziosa. Erano le tre, subito dopo pranzo. Dalle strette finestre aperte entravano l’aria dolce e i profumi del fulgido mondo esterno. Talvolta un’ape sconfinava dai frutteti sottostanti, e ronzava pigra negli angoli ombrosi. Tal altra uno stormo di piccioni si alzava rapido in volo davanti alla finestra, con un bagliore di ali lucenti. Ogni quarto d’ora risuonavano i lenti rintocchi dell’orologio della cattedrale.

Le voci di chi percorreva il fiume in barca fluttuavano anch’esse nell’aria, soavi come una melodia. Più in basso, ai piedi della collina, i tetti rossi della città brillavano al sole. Più lontano, si estendevano i campi di frumento assolati. Oltre ancora, foreste e paesini. E più in là, una fila azzurra di colline. E ancora più in là, si diceva Priscilla, la libertà. Vestita di bianco, sedeva su uno dei profondi davanzali; il capo sul lungo collo esile, dove i ricci dei capelli ramati si inanellavano tanto piacevolmente, era chino sul disegno, e la voce mormorava incessante perché il tempo era poco e le cose da dire tante. Accanto a lei, Fritzing, l’ascoltava attento e le rispondeva. La contessa dormiva nell’angolo più lontano, fresco e ombroso della stanza. Le loro voci la cullavano con la stessa dolcezza del ronzio dell’ape.

«Durante le lezioni di disegno vostra altezza granducale riceve molti consigli da Herr Geheimrath?» le aveva chiesto un giorno la contessa dopo una lezione in cui il loro parlottio era riuscito a penetrare l’incoscienza del sonno.

«Herr Geheimrath è molto scrupoloso» aveva risposto Priscilla con il tono altezzoso del tipo non-è-cosa-che-vi-riguardi, che trovava tanto efficace con la contessa; e intanto aveva espresso sottovoce una richiesta: che il lieber Gott la perdonasse, perché sapeva di aver raccontato una frottola.

In realtà, in questo periodo così convulso della sua vita, l’ultima cosa che il padrone avrebbe potuto dire di Fritzing era che fosse scrupoloso. Non stava forse incoraggiando nella principessa le idee più eccentriche, depravate e pazze? Cioè, eccentriche, depravate e pazze da un punto di vista granducale, perché a Priscilla sembravano invece idee dolcissime e luminose. Fritzing aveva un terrore sacro del granduca. Lui rappresentava tutto ciò che Fritzing, asciutto uomo di cultura, più detestava.

Il modo più generoso per descrivere il granduca è dire che dal punto di vista sia mentale che fisico era l’esatto opposto di Fritzing. Fritzing trascorreva il tempo ignorando il corpo e scavando sempre più a fondo nella mente. L’aspetto ossuto di tali personaggi è del resto noto. Non hanno quasi mai un filo di grasso addosso; e per quanto siano spesso piuttosto brutti, il loro spirito divampa sprigionandosi da occhi meravigliosi.

Lo chiamo il vecchio Fritzing perché all’epoca aveva sessant’anni. A me sembrava vecchio; a Priscilla, ventenne, sembrava coevo delle piramidi e simili vetustà; mentre a chi di anni ne aveva sessantuno non sembrava vecchio neanche un po’. Due cose soltanto tenevano il suo animo inquieto incatenato al servizio del granduca: la biblioteca, unica nel suo genere, e Priscilla. Tolte queste, trovava rivoltante la sua vita a Kunitz. Detestava il protocollo, il trambusto e gli intrighi di corte. Detestava ogni singola dama di compagnia, ogni singolo funzionario. Detestava l’abbondanza volgare, la frequenza e la lunghezza smisurata dei pasti, sapendo che giù in città c’era chi pativa la fame. Detestava soprattutto i lacchè, e, incontrandoli nei corridoi tra il suo appartamento e la biblioteca, li fulminava sempre con crucciato cipiglio; e il potere di uno spirito indipendente e sprezzante è tale che, nonostante tutti fossero al corrente del suo passato di guardiano di porci, mai una volta, loro che dell’insolenza avevano fatto un’arte, osarono mostrarsi sgarbati nei suoi confronti.

Priscilla voleva fuggire. Una cosa terribile. Se non fosse considerata una cosa terribile, se il mondo non la mettesse in cima alla lista delle Azioni Imperdonabili, non ci sarebbe donna, io credo, che in un momento o nell’altro non si darebbe alla fuga. Per poi magari tornare, però lo farebbe.

La riprovazione è tale che persino una cameriera è immancabilmente inseguita da invettive più o meno forbite, a seconda del livello culturale di coloro dai quali è fuggita. Una moglie, poi, è addirittura inseguita dalla rovina sociale, dandosi per scontato che non fugga da sola. Conosco almeno due mogli che sono fuggite da sole. Ben lungi dal desiderare un ulteriore peso a gravare sulle loro spalle prendendosi un altro uomo, erano mosse dall’intento di mettere quanta più distanza possibile tra sé stesse e quello che già avevano. Ma il mondo, spregevole megera dagli occhi abbietti e le labbra lascive, non riuscì a concepirlo, e fu svelto a gettare il suo oscuro manto di condanna sulle loro teste recalcitranti. Una di loro, incapace di sopportarlo, chiese perdono al marito. Era un carattere debole, e ora vive una vita infelice, schiacciata sotto l’orrore imperituro del perdono di un marito offeso. L’altra si prese un cottage e rise in faccia al mondo. Non era forse felice, finalmente felice nel modo giusto? A volte vado a trovarla, e mangiamo i cavoli che coltiva nell’orto. Bizzarro come i delusi riescano a trovare pace tra i cavoli.

Priscilla, dunque, voleva fuggire. Quello che in una cameriera o in una moglie è orrendo, nel suo caso diventava strabiliante. Lo spirito che decide di fuggire senza esservi trascinato da cose quali l’amore o la passione, che soppesa con mente lucida i pericoli e le perdite, e rischia tutto, è, bisogna ammetterlo, quantomeno degno di rispetto. Fritzing lo considerava degno di adorazione, lo spirito più divino che mai fosse divampato in una donna.

Non disse nulla di ciò a Priscilla, anzi, impaurito, e in toni collerici, appassionati, tentò di dissuaderla. Sapeva tuttavia che se lei avesse vacillato lui non gliel’avrebbe mai perdonato: Priscilla sarebbe piombata immediatamente dalle vette ai bassifondi della sua stima, dove grigie schiere di entrambi i sessi si ammassavano in mucchi indiscriminati. Senonché Priscilla non si sognava nemmeno lontanamente di vacillare. Lei, la più poetica delle principesse, fatta in apparenza di avorio e ambra, ed esteriormente così controllata, serena e gentile, internamente ardeva.

Ardeva, aggiungerei, con una fiamma molto pura. Mai nulla che anche solo assomigliasse a un giovane uomo l’aveva alimentata. Era la fiamma più pura tra le fiamme pure, quella che divampa alta al pensiero di nobili ideali quali libertà, bellezza della vita, semplicità e cose simili. Una luce, vorrei far notare, oltremodo rara da trovare nel cuore di una donna. Ma ciò che Priscilla era, era frutto del lavoro di Fritzing. D’accordo, la materia prima era eccellente, ma per dieci anni lui l’aveva forgiata a piacimento.

A cominciare dalle poesie più semplici di Wordsworth – le detestava, ma era sempre meglio insegnarle quelle piuttosto che imbrattarle l’anima con Longfellow e Mrs Hemans – quelle lezioni di letteratura inglese che le autorità ritenevano innocue per lei e le sorelle le avevano aperto gli occhi sull’ampiezza del mondo e sulla piccineria di Kunitz in un modo che null’altro sarebbe riuscito a fare. Con quell’ottimo insegnante, tanto ansioso di guidarla quanto lei di seguirlo, Priscilla aveva vagato per gli splendidi itinerari della cultura, incontrato le più alte personalità di ogni epoca, era entrata in comunicazione con le anime più grandiose, aveva sentito come parlavano, visto come vivevano e constatato che nessuna di loro, neppure una, viveva e parlava come si viveva e parlava a Kunitz.

Immaginate una ragazza manipolata per dieci anni, dieci tra gli anni più malleabili, più simili a cera, per mano di un Fritzing.

Una ragazza cui venga insegnato ad amare la libertà, a vedere la bellezza della semplicità, della tranquillità, delle cose pertinenti allo spirito, cui venga insegnato a capire quanto sia ignobile, quanto intensamente, disperatamente volgare sia trascorrere il proprio tempo dedicandosi ai piaceri materiali più dello stretto necessario, cui venga insegnato che la felicità è possibile solo per chi cerca la gioia nella propria mente e non nel proprio corpo; immaginate come la ragazza, dopo avere ascoltato queste cose quasi ogni pomeriggio della sua vita, sia incline a giudicare le giornate a palazzo, le cerimonie e la vita pubblica, tutte le ore trascorse come se lei fosse un dipinto famoso, eternamente obbligata a stare esposta in posa idonea, a sorridere nel venire osservata.

«Colui che non è mai stato una principessa non può avere la più pallida idea di cosa significhi esserlo».

«Sarebbe più corretto dire colei invece di colui, vostra altezza».

«Beh, comunque sia non ne hanno idea» ribadì Priscilla.

«Vostra altezza, cominciare una frase col singolare e continuarla col plurale costituisce un’infrazione alle regole più elementari».

«Ma i sentimenti, Fritzi... dove metti i sentimenti?»

«Ahimè, vostra altezza, sono anch’essi un’infrazione alle regole».

«Vorrei tanto sapere cosa non lo è, qui dentro» sospirò Priscilla, il mento appoggiato alla mano, gli occhi fissi sulla lontana linea di colline dietro le quali, diceva tra sé, si trovava la libertà.

Già da un bel pezzo aveva smesso di dirlo solo a sé stessa. Credo avesse circa diciott’anni quando aveva cominciato a dirlo anche a Fritzing. All’inizio, prima di comprendere fino a quale punto lei bramasse la libertà, lui le aveva dipinto a colori smaglianti le delizie che si trovavano al di là delle colline, o se è per questo anche al di qua, se eri un normale cittadino e non una principessa. Aveva indugiato soprattutto sulle glorie della vita in Inghilterra, glorie riservate a persone anonime, come era stato lui un tempo, e mai a coloro che il destino obbligava a viaggiare a bordo di carrozze o treni reali. Poi però aveva cominciato a fiutare il pericolo, e si era fatto circospetto; aveva cercato di depistarla con argomenti banali e di carattere generale, come l’incapacità dell’essere umano di fuggire dal proprio sé e con altre osservazioni irrilevanti come il grado di povertà e di infelicità rilevabile nell’East End londinese; si era rifiutato di parlare della Francia, che Priscilla sempre considerava un primo passo verso l’Inghilterra, se non per portare alla sua attenzione come quel paese ribelle non amasse i re; le aveva fatto notare in toni concitati che lei era già stata in Inghilterra; per poi, irritato, concludere chiedendole se sua altezza granducale avesse intenzione di andare avanti col disegno o meno.

In verità, dell’Inghilterra Priscilla aveva esclusivamente visto Buckingham Palace e Windsor Castle. Era stata trasportata dagli uni agli altri dentro a carrozze chiuse e su treni reali, ma tra questi e Kunitz vi era una così stretta somiglianza che con suo grande disagio si era sentita completamente a casa. Non era mancata neppure la presenza della contessa Disthal. Ragion per cui a Priscilla non sembrava affatto di aver visto l’Inghilterra, e non ne faceva mistero. Fritzing replicava acido che era un modo di vederla che molti inglesi le avrebbero invidiato, ma lei, del tutto incredula, gli rispondeva: «Che assurdità».

Negli ultimi tempi, tuttavia, il desiderio di Priscilla aveva preso una forma così definita che lui era arrivato a paventare la semplice parola colline, e a sentirsi gelare il sangue alla parola Inghilterra. Era un uomo combattuto: stava ancora cercando di comportarsi secondo il suo dovere stabilito, e fino a quando non avesse deciso di rinunciarvi era ovvio che si sentisse tale. Forte è la tentazione di fermarmi qui e dilungarmi sulla condizione straziante di chi si trovi in tali ambasce, sui tormenti di cui soffre, e su come il suo animo dovrà arrancare per tutta la vita, se non fosse che devo continuare a raccontare di Priscilla.

Un giorno, dopo numerose settimane di lento avvicinarsi, di girarci attorno senza mai affrontare l’argomento, Priscilla fece un profondo respiro e annunciò a Fritzing che aveva deciso di fuggire. E aggiunse che gli ordinava di aiutarla. Con aria estremamente granducale informò, ordinò e proibì. Proibì, com’è ovvio, il tradimento del suo piano. «Puoi scegliere» gli disse, «tra me e il granduca. Ma se scegli lui con te ho chiuso per sempre».

Inutile dire che scelse Priscilla.

Ora i suoi tormenti erano indicibili. Le ultime lacerazioni della coscienza terrificanti. Poi, dopo notti trascorse a camminare avanti e indietro, si sentì pervadere da una calma improvvisa. Finalmente riusciva a vedere ciò che aveva sempre intuito: un uomo non poteva avere due doveri né servire due padroni. L’unico suo lampante dovere era essere padrone della propria anima e vivere la vita che essa approvava. Per dirla con altre e più brevi parole, invece di essere lui la guida di Priscilla, adesso era Priscilla a guidare lui.

Anzi, faceva ben di più: lo pilotava proprio. Lo spirito che tra mille premure aveva allevato e aiutato a crescere si era fatto più forte del suo; perché alla sua naturale forza si era aggiunta la terribile audacia che scaturisce dalla più totale inesperienza. Cosa può esserci di più inesperto di una giovane principessa tenuta nella bambagia? L’ignoranza di Priscilla in merito al mondo esterno era patetica. I suoi piani facevano gemere Fritzing – lei pianificava e lui ascoltava – e pur tuttavia lui li amava. Priscilla era una donna divina, si diceva Fritzing, la più dolce e nobile che il mondo avrebbe mai visto.

I suoi piani erano questi.

Primo, che avendo trascorso ventun anni sui gradini più alti della scala sociale, ora sarebbe scesa in basso, e avrebbe trascorso i successivi ventuno sui gradini più bassi (qui Priscilla diede le sue ragioni, e non mi soffermerò a descrivere il raccapriccio di Fritzing davanti ai propri passati insegnamenti che sogghignavano beffardi dietro ogni parola da lei detta).

Secondo, che essendo la fuga da Kunitz l’unico modo per scendere in fondo alla scala sociale, sarebbe fuggita.

Terzo, che il luogo migliore e più piacevole in cui vivere in fondo alla scala sociale era l’Inghilterra (qui spiegò con convinzione che le cose belle, impossibilitate ad arrampicarsi con facilità fino in cima, crescono in modo naturale attorno ai gradini bassi: i fiori dell’abnegazione e dell’amore, della temperanza, della carità, della devozione; cose delicate con radici che trovano nutrimento nella buona terra.

Perché, ragionava Priscilla, non ci si poteva certo aspettare di trovare della terra in cima alle scale, giusto? Anche lei aveva radici piene di potenziale, e doveva affondarle laddove il nutrimento naturale stava in attesa).

Quarto, che sarebbero vissuti da qualche parte nella campagna inglese, conducendo una vita molto umile.

Quinto, che lei sarebbe stata sua figlia.

«Figlia?» esclamò Fritzing facendo un salto sulla sedia. «Vostra altezza granducale dimentica che ho degli amici in Inghilterra, tutti perfettamente consapevoli del fatto che non ho mai preso moglie».

«Nipote, allora» stabilì Priscilla.

La osservò in silenzio, cercando di immaginarsela nelle vesti di nipote. Lui aveva due sorelle, ancora uguali a com’erano quando, scalze, lo aiutavano a badare ai maiali in Westfalia. Non dico che non si fossero messe delle calze e non avessero infine lasciato la piccola fattoria per sposarsi. È più che altro alla loro mente che mi riferisco, mente che non si era mossa di un passo da là. Le sorelle assomigliavano al padre, uno zuccone destinato al fallimento; mentre la madre di Fritzing, da cui lui aveva preso, era stata, nei suoi modi rudi e barbari, una donna fuori dal comune. Per Fritzing era impossibile immaginare l’una o l’altra delle sue sorelle come madre di quella incantevole giovane creatura.

Ecco, dunque, nudi e crudi, i piani di Priscilla. La cui realizzazione la principessa affidava totalmente, lo informò, a Fritzing. Dopo diverse giornate trascorse nel tormento del dubbio, Priscilla gli chiese se riteneva preferibile che lei si tingesse i capelli di nero per non farsi riconoscere o li tenesse del loro colore naturale ma si travestisse da uomo con tanto di barba bionda. Fritzing, aveva deciso Priscilla, era molto più bravo di lei a risolvere questioni del genere. «I capelli me li tingerei anche subito» disse, «ma che faccio con queste stupide ciglia? Ci si può tingere le ciglia?»

Fritzing pensava di no. Secondo lui, le ciglia andavano lasciate com’erano; e credo di avere già detto che erano meravigliose. La scoraggiò anche dall’idea di vestirsi da uomo. «Vostra altezza sarebbe solo un ragazzo molto appariscente» le assicurò.

«Potrei mettermi una barba finta» propose Priscilla.

Fritzing si dimostrò fermamente contrario alla barba finta.

Quanto alla parte finanziaria, lei non se ne dava il minimo pensiero. Il denaro, per lei, non era mai un problema. Per cui toccò di nuovo a Fritzing affrontare la questione. Probabilmente le cose si sarebbero protratte ancora a lungo, con infiniti progetti e confabulazioni, e con un nulla di fatto, se un principe – un ottimo partito – non avesse espresso il desiderio di sposare Priscilla.

Non era certo il primo. Altri principi avevano non solo espresso, ma implorato. Avrebbero implorato in ginocchio, se fosse servito a qualcosa. Ma erano tutti poveri, e Priscilla ricca; e il granduca pensava che per una donna ricca fosse sciocco sposare un uomo povero. Il granduca, perciò, prese questi uomini da parte e li fece a pezzetti, mentre Priscilla, indifferente, continuava a dedicarsi al disegno. Ora però il candidato aveva tutte le carte in regola, tanto da non avere bisogno di implorare, gli bastava esprimersi.

C’erano state non poche difficoltà, e notevole ritardo, nel trovargli una moglie, giacché lui insisteva nel volere una principessa che fosse bella e non fosse sua cugina. Ma in Europa non sembrava esistere una figura del genere. Erano tutte sue cugine, tranne due o tre giovani donne che lui, sgarbatamente, definì brutte. A loro volta anche le principesse di Kunitz erano state prese in debita considerazione e, in quanto cugine, scartate; tuttavia, quando uno dei troni più splendidi d’Europa sembrava destinato a rimanere senza regina, il destino portò il principe a un’importante cerimonia pubblica a Kunitz. Fu allora che vide Priscilla e se ne innamorò perdutamente, e l’avrebbe voluta sposare anche fosse stata mille volte sua cugina.

Quella stessa sera espresse le proprie intenzioni a un deliziato granduca, che immediatamente si lanciò in una lode a Dio.

«Sciocchezze» disse il principe con l’equivalente più prossimo fornitogli dalla lingua madre.

Il che fu terribile. Non tanto l’aver detto «Sciocchezze» – il principe era talmente importante che in Europa non vi era granduca a cui non avrebbe potuto dirlo, se avesse voluto – quanto il fatto che ora Priscilla si trovava in imminente pericolo di matrimonio. Tra le molte prediche di Fritzing c’era stata quella, ripetuta spesso e in termini parecchio incisivi, che nulla, per una donna, era più spregevole dello sposare un uomo che non amava; e la morale era che non esisteva principe al mondo all’altezza di allacciarle le stringhe delle scarpe.

Priscilla, per lo più ignara di stringhe, la prese per un’esagerazione, però si disse d’accordo sul resto. L’argomento comunque le era indifferente, perché il padre non le aveva ancora chiesto di sposare qualcuno; e fino a quel momento non serviva sprecare del tempo a pensarci. Ora, però, il pericolo incombeva su di lei improvviso, inaspettato, minaccioso. Seppe di non avere speranza nell’istante stesso in cui vide la faccia del padre, distorta dalla gioia. Le prese la mano e gliela baciò. Per lui era già una regina.

Come di consueto, lei diede l’impressione di comportarsi esattamente secondo i desideri paterni. In effetti disse ben poco, avendo imparato già da un pezzo l’arte del silenzio; ma anche i suoi silenzi riuscivano a essere in qualche modo incantevoli, e il granduca si disse che era perfetta. Quasi senza parole lei gli diede a intendere che era un immenso onore, uno splendido complimento, una sorpresa grande ma anche improvvisa. Sarebbe quindi stata grata a lui e al principe se avessero evitato di parlarne per una settimana o due; se avessero mantenuto il silenzio fino all’apertura delle trattative formali. «L’ho visto ieri per la prima volta» lo supplicò, «è naturale che sia piuttosto sopraffatta».

L’impressione degli occhi di lui, che non si erano mai staccati dalla sua persona, era stata di occhi gentili e piacevoli; se poi avesse saputo che aveva detto «Sciocchezze», chi può dire che il giovane non avrebbe avuto una possibilità? Non appena Priscilla fu sola mandò a chiamare d’urgenza Fritzing. «Cosa ne pensi di un mio eventuale matrimonio con quest’uomo?» gli chiese.

«Se lo sposerete, vostra altezza» rispose Fritzing, il viso una pallida vampa di fervore, «sarete perduta per sempre».