II.
Fuggirono in bicicletta al calar della sera. La dea bendata che sembra prediligere i peccatori li aiutò in mille modi. Entrambi alquanto ignoranti nell’arte della fuga, senza di lei non sarebbero andati molto lontano. Una volta presa la decisione, Fritzing, ora esasperato, aveva cominciato a pianificare in modo elaborato e febbrile, a fare preparativi e organizzare dettagli senza risparmiarsi. Ma in questo mondo governato dalle leggi, cosa possono fare due peccatori senza lo zampino della Fortuna?
Lei, dama divertita e sorridente, entrò al castello e fece ammalare di influenza la contessa Disthal: la confinò impotente a letto, ve la tenne giorni e giorni inchiodata per la gola. E mentre faceva questo con una mano, con l’altra mandava il granduca nella Prussia orientale, una distanza considerevole: e lui, del tutto ignaro di come venisse manovrato, credeva di dirigersi mosso dall’irresistibile desiderio di svagarsi cacciando i caprioli di un amico prima di imbarcarsi nell’affare del fidanzamento pubblico di Priscilla.
La contessa fu relegata a letto a mezzogiorno di un lunedì di ottobre. Alle tre il granduca partì per la Prussia orientale in incognito, a bordo di un’automobile; e, si sa, è difficile essere raggiunti dalle notizie quando si viaggia in auto. Alle quattro, una delle cameriere di Priscilla, una fanciulla dimessa che era stata presa di mira dalle altre ed era stata scelta appunto per il suo odio verso di loro, lasciò il castello a passo spedito con gli occhi luccicanti e le tasche piene di denaro e partì con l’espresso del pomeriggio per Colonia.
Alle sei, l’ora del cambio della guardia del castello, due persone superarono in bicicletta il passaggio ad arco e attraversarono il ponte. Era buio, e nessuno le riconobbe. Fritzing si era abbigliato in modo sportivo, quasi frivolo; sa il cielo quanto in cuor suo si sentisse frivolo, con quegli abiti quanto mai diversi dai suoi consueti sobri capi d’abbigliamento. Priscilla trovava difficile non ridere, tanto le ricordava un clown. Un cappello con paraorecchi gli nascondeva i capelli grigi, e uno sgargiante fazzoletto attorno al collo gli infagottava il viso; giganteschi occhialoni protettivi coprivano le folte sopracciglia e gli occhi infossati, occhialoni in curioso contrasto con l’azzimata alacrità delle gambe inguainate nelle ghette. La principessa indossava un vestito di serge azzurro, corto e piuttosto malconcio, reduce da un trattamento particolare a opera della cameriera al momento sul treno diretto a Colonia. Viso e capelli erano avvolti in molteplici giri di velo da viaggio.
Nel vedere le due figure oltrepassare i cancelli in bicicletta, le sentinelle si stupirono, e, per un bel pezzo dopo il loro passaggio, continuarono a chiedersi chi mai potessero essere. Lo stesso accadde più in basso, sul ponte; ma una volta superato e ritrovatisi in città i due non dovettero far altro che pedalare sempre dritto. Li aspettava un tragitto di circa quindici minuti fino a Rühl, una cittadina con stazione ferroviaria lungo la linea principale Kunitz-Colonia.
I treni espresso non fermano a Rühl, ma alle otto sarebbe passato un locale che per mezzanotte li avrebbe portati a Gerstein, la capitale del ducato confinante. Lì avrebbero preso la coincidenza per Colonia, dove li avrebbe raggiunti la cameriera; sempre lì Fritzing aveva spedito i bagagli: una semplice borsa per sé e un semplice baule per sua nipote. Il semplice baule era pieno di semplici abiti suggeriti dalla giovane commessa del negozio di Gerstein dove Fritzing li aveva acquistati due giorni prima. Lei gli aveva anche suggerito molti altri articoli che, aveva spiegato, non potevano assolutamente mancare nel guardaroba di una signora; l’uomo, innervosito, temendo che dentro al baule da mandare in stazione sarebbe finito l’intero negozio, aveva tirato fuori due banconote da cento marchi e ordinato alla donna di non superare tale cifra.
La donna era diventata parecchio scontrosa. Gli aveva risposto di non aver mai sentito di nessuna che si fosse vestita da capo a piedi, e in più accessoriata di spazzole, sapone e ombrello, con soli duecento marchi. Fritzing, terrorizzato all’idea di montagne di bagagli che potessero richiamare l’attenzione, e però ora dubbioso a causa dell’assertività della commessa, tirò fuori una terza banconota, accompagnandola a parole pronunciate in tono talmente marcato e definitivo che lei, perdendosi d’animo, si tenne entro i limiti dati, dopo di che si procedette alla confezione del pacco. L’abbigliamento di Priscilla venne così a costare quindici sterline tonde. Non sarà difficile capire perché fosse tanto semplice.
A fatica i due fuggitivi percorsero le vie lastricate di Kunitz. Priscilla traballava sul sellino, e così pure Fritzing. Qualche anno prima, quando era scoppiata la moda, lei andava in bicicletta ogni giorno nel parco del granducato, al capo opposto della cittadina. Poi la bici le era venuta a noia, e aveva smesso; ora invece, nelle due ultime settimane circa, da quando Fritzing le aveva detto che se volevano fuggire dovevano farlo su due ruote, aveva simulato un ritorno di fiamma per quel mezzo e aveva pedalato ogni giorno incessantemente in un cerchio di cui una raggelata e stupefatta contessa Disthal, il cui dovere era stare in piedi e vigilare, era stato l’oltraggiato centro. Ma i ciottoli di Kunitz sono ben diversi dai liscissimi viali del parco.
Chiunque giri in bicicletta per Kunitz sa bene come mettono a dura prova anche i ciclisti più esperti. Naturale, quindi, che i fuggitivi avanzassero lentamente. Fritzing si sentiva balzare il cuore in gola ogniqualvolta superavano un negozio ben illuminato o qualcuno li osservava. Immaginate dunque come il cuore fu sul punto di schizzargli fuori, lasciandolo morto, quando un agente di polizia, che li stava osservando, si portò a passo rapido in mezzo alla strada, alzò una mano e intimò l’alt.
Fritzing, già coi nervi tesi, si spaventò al punto che, nell’obbedire, cadde a terra. Priscilla, per nulla avvezza a ricevere ordini, e concentrata sulle difficoltà del percorso, non capì neppure di doversi fermare e continuò a pedalare con fatica. Per cui l’agente la strappò letteralmente dalla bicicletta cingendola con le braccia e sollevandola con galanteria. La depose cautamente in piedi; era un poliziotto molto affabile, ben diverso da quegli occhi della legge arcigni e spettrali che ci si immagina scandaglino le vie di, diciamo, Berlino.
Ma Priscilla, in preda a una tremenda collera, si sentiva insultata come mai in vita sua. «Come osate... come osate» balbettava senza fiato, dimentica di tutto, tranne che del desiderio incontenibile di prendere a schiaffi il gigante – aveva addirittura alzato la mano per farlo, gesto che sarebbe stato di certo la rovina dei suoi piani e la fine del mio racconto – quando Fritzing, riguadagnata la presenza di spirito, esclamò in tono di inconfondibile angoscia: «Calmati, nipote».
Lei si calmò all’istante, una calma di raggelato orrore.
«Ebbene, signore» esordì Fritzing assumendo un’aria di energica audacia e innocenza, «cosa possiamo fare per voi?»
«Accendere i fanali» fece il poliziotto laconico.
I due ubbidirono; o per meglio dire fu Fritzing a ubbidire, mentre Priscilla rimaneva immobile.
«Ho anch’io una nipote» disse l’agente osservando Fritzing all’opera, «ma non mi sognerei mai di accenderle il fanale. Un uomo non dovrebbe servire la propria nipote. È la nipote che deve servire lui».
Fritzing non rispose. Finì di accendere i fanali, poi tenne ferma la bici per Priscilla e l’aiutò a ripartire.
«Per mia nipote non ho mai fatto niente del genere» ribadì il poliziotto.
Fritzing aveva sulla punta della lingua un: “Al diavolo vostra nipote, signore”, ma se lo ricacciò in gola, producendosi invece in un piacevole commento che essere zio non necessariamente impediva di essere anche gentiluomo, e tirata su da terra la propria bicicletta seguì Priscilla.
Mentre scomparivano dietro l’angolo il poliziotto scosse il capo. “Nessuno accende il fanale alla nipote” disse tra sé, “è contro natura. Perciò quella signorina vivace sarà sì nipote di qualcuno, ma non certo sua”.
«Oh» mormorò Priscilla, dopo che ebbero pedalato per un tratto senza aprir bocca, «sto già degenerando. Per la prima volta in vita mia ho avuto voglia di prendere a schiaffi qualcuno».
«La provocazione era notevole, vostra altezza» disse Fritzing, egli stesso sconvolto dallo spettacolo della principessa sollevata di peso da un poliziotto.
«Pensi che...» disse Priscilla esitando, e lo guardò. Subito esitò anche la bicicletta, e un brusco scarto le fece capire che su quelle strade bisognava rigorosamente tenere gli occhi incollati a terra. «Pensi che...» proseguì dopo avere ripreso l’equilibrio, «il mio nuovo stile di vita mi spingerà a volerlo fare spesso?»
«Dio non voglia, vostra altezza. State per accingervi a condurre una vita quanto mai elevata, consona a un animo premuroso e coscienzioso. Una volta che vi sarete sistemata, sarà una vita molto più protetta dal contatto con cose che suscitano impulsi ignobili di qualunque altra situazione vostra altezza granducale abbia mai sperimentato».
«Se dicendo cose che suscitano impulsi ignobili ti riferisci ai poliziotti» rispose Priscilla, «finora sono stata più che protetta. Non ho mai nemmeno rivolto la parola a uno di loro. Figuriamoci poi», e qui rabbrividì, «averne mai toccato uno».
«Siete già pentita?»
«Santo cielo, no» rispose Priscilla facendo forza sui pedali.
Fuori Rühl, un centinaio di metri circa prima che incomincino le case, lungo il margine della strada si incontra uno stagno. Fu lì dentro che Fritzing lanciò le biciclette, dopo un attimo passato a verificare che nessuno lungo la strada lo stesse osservando. Sapeva che lo stagno era profondo, avendolo studiato il giorno stesso in cui aveva acquistato il nuovo guardaroba di Priscilla; le due bici, una dopo l’altra, vennero scagliate con gran rimorso al centro, dove affondarono tra sinistri gorgoglii. Poi i due si incamminarono di buon passo, diretti alla stazione ferroviaria, provando un immenso sollievo per essere di nuovo sulle proprie gambe. Accanto a loro, del tutto insospettata, camminava la capricciosa, ridente dea bendata, con tutte le intenzioni di divertirsi a far passare ai giocatori di quella partita tutti gli spaventi necessari prima che, finalmente, giungesse alla conclusione.
Alla stazione di Rühl presero il treno puntuali, dopo un’attesa di appena dieci minuti. Era quasi deserta, e i pochi astanti non badarono a loro. Fritzing, dopo essersi guardato attorno con attenzione per controllare se ci fosse qualcuno di conosciuto, fece salire la principessa in una carrozza di seconda classe contrassegnata Frauen, quindi si ritirò rispettosamente in un altro scompartimento. Aveva deciso che la seconda classe era più sicura. In quel paese la gente viaggiava quasi sempre in seconda classe, soprattutto le donne, in tali faccende immancabilmente più parsimoniose degli uomini; e una donna sola in prima classe sarebbe stata oggetto di congetture e curiosità a ogni stazione.
Fu così che Priscilla, nella carrozza contrassegnata Frauen, per la prima volta in vita sua si trovò da sola a stretto contatto con quello cui fino ad allora aveva solo sentito alludere vagamente col nome di pubblico.
Sedette in un angolo provando una bizzarra sensazione di stupore nel vedersi includere nella categoria Frauen, e gettando attraverso il velo una veloce, timida occhiata al pubblico che aveva davanti fu rincuorata dallo scoprire che si trattava soltanto di una confortevole madre col suo bambino.
Non so bene perché l’aggettivo confortevole venga usato tanto spesso per descrivere le madri tedesche. In Inghilterra e in Francia è possibile essere madre senza dover necessariamente essere anche confortevole. In Germania, a quanto pare, non si può. Forse è per via del clima, o forse del cibo; oppure si tratta di semplice mancanza di anima, o del fatto che dentro l’anima non arda un fuoco che consumi a sufficienza. Comunque è così.
Quella madre aveva tutta la bonomia che va a braccetto con l’abbondanza. Stava dando da mangiare al figlio dei belegte Brödchen – panini gustosissimi – e ne offrì subito uno a Priscilla.
«No, grazie» rispose Priscilla facendosi piccina nel suo angolo.
«Su, prendetene uno, Fräulein» disse la madre in tono persuasivo.
«No, grazie» rispose Priscilla rincantucciandosi sempre più.
«In viaggio aiuta a passare il tempo. Anche senza fame grazie al cielo si può sempre mangiare. Prendetene uno».
«No, grazie» ripeté Priscilla.
«Perché tiene quella cosa nera davanti alla faccia? È una strega?» domandò il bambino.
«Silenzio, sciocchino» esclamò la madre deliziata, dandogli un buffetto con mezzo Brödchen. «Lo vedete com’è intelligente, Fräulein? Assomiglia al padre come una mela spaccata in due».
«Davvero?» rispose Priscilla, e subito nella sua mente nacque un’antipatia per il padre.
«Perché non si toglie quella cosa nera?» domandò il bambino.
«Zitto, sfacciatello. La Fräulein se lo toglierà tra un attimo. Non vedi che è appena salita?»
«Mutti, è una strega? Mutti, Mutti, è una strega? Eh, Mutti?»
Il piccolo, con gli occhi spauriti incollati alla testa fasciata dai veli, cominciò a piagnucolare.
«Questo bambino dovrebbe dormire» disse Priscilla con una severità scaturita dalla preoccupazione che la buona creanza la obbligasse a sollevarsi il velo. «Le persone brillanti come lui non dovrebbero viaggiare in treno la sera. È un insulto alla loro intelligenza. Non sarebbe meglio farlo sdraiare e addormentare?»
«Sì, sì. Glielo ripeto da quando siamo partiti da Kunitz», Priscilla rabbrividì, «ma lui non vuole saperne. Hai sentito cos’ha detto la Fräulein, Hans-Joachim?»
«Perché non si toglie quella cosa nera?» piagnucolava il bambino.
Come poteva la povera Priscilla, per quanto desiderosa di essere gentile, togliersi il velo e mostrare il suo viso noto a quella probabile abitante di Kunitz?
«Toglietevelo, Fräulein» la implorò la madre vedendo che lei non accennava a farlo. «Quando mio figlio si mette qualcosa in testa nessuno ha requie finché non l’ha ottenuta. Mi ricorda tanto suo padre».
«Non avete mai provato» le domandò Priscilla, prendendo tempo, «con un piccolo schiaffo? Uno leggero» aggiunse subito, poiché la madre la guardava storto, «solo per dargli una calmata. Non c’è bisogno di calcare la mano, sapete...»
«Ach, è una strega. Mutti, è una strega!» gridò il piccolo nel sentire quelle parole di cattivo auspicio, e affondò il viso, burro e tutto quanto, nel grembo della donna.
«Su, su, povero piccolo» lo consolò la madre scoccando un’indignata occhiata a Priscilla. «Povero ometto, nessuno ti prenderà a schiaffi. La Fräulein non si riferiva a te, piccolino. Si riferiva ai bambini cattivi, come i figli degli Schultz e tuo cugino Meyer. Fräulein, se non vi togliete il velo temo che gli verranno le convulsioni».
«Oh, mi spiace tanto, ma proprio non posso» rispose l’infelice Priscilla cercando di rintanarsi il più possibile nel suo angolino.
«È una strega, Mutti!» strepitava il piccolo. «È una strega, ti dico. Per questo è tutta nera e non vuole fare vedere la faccia!»
«Ora sta’ zitto, sta’ zitto e chiudi gli occhi» lo quietò la madre coprendogli gli occhi con le mani. E a Priscilla, con un evidente principio di sfiducia: «Ma Fräulein, si può sapere per quale motivo volete nascondervi?»
«Nascondermi?» le fece eco Priscilla, ora decisamente afflitta. «È che ho... ho... temo di avere un’infezione alla pelle. Per questo porto il velo».
«Ach, povera Fräulein» disse la madre, illuminandosi all’improvviso di un vivace interesse. «Dormi, Hans-Joachim» ingiunse brusca al figlio che cercava di alzare la testa per interrompere con sempre nuovi dubbi una conversazione che si stava facendo eccitante. «Una vera sfortuna. Si tratta di uno sfogo?»
«Oh, spaventoso» rispose Priscilla con voce fievole.
«Ach, povera Fräulein. Quando una donna è sposata gli sfoghi non hanno più importanza. Perché un marito deve amare la propria moglie nonostante gli sfoghi. Ma per una Fräulein ogni brufolo è importante. Tra le mie conoscenze c’è una giovane signora la cui felicità è stata rovinata dai brufoli. Le sono venuti nel periodo sbagliato».
«Davvero?» mormorò Priscilla.
«State andando da un dottore?»
«Sì... cioè, no... ci sono appena stata».
«Ah, siete stata a Kunitz, dal dottor Kraus?»
«S-sì, esatto».
«E cosa vi ha detto?»
«Che devo tenermi sempre protetta dal velo».
«Perché è troppo brutto da vedere?»
«Immagino di sì».
Scese il silenzio. Priscilla, esausta, si appoggiò all’indietro sul sedile e chiuse gli occhi. La madre la scrutava attentamente; con una mano accarezzava Hans-Joachim, con l’altra lo teneva giù.
«Quand’ero ragazza» saltò su la madre, così inaspettatamente che Priscilla sobbalzò, «ho avuto anch’io gravi problemi di pelle. Ecco perché ho grande esperienza, in materia. Mostratemi il viso, Fräulein. Potrei dirvi come curarlo».
«Oh, neanche per sogno... assolutamente neanche per sogno» esclamò Priscilla, tirandosi dritta con la schiena e parlando con enfasi. «Non potrei mai... no, mai e poi mai».
«Ma mia cara Fräulein, che problema vi fate se a vedere è una donna?»
«Per quale motivo vorreste vedere?»
«Per aiutarvi».
«Non voglio essere aiutata. Non mi farò vedere da nessuno, da nessuno. È troppo... troppo orribile».
«D’accordo, d’accordo, non agitatevi. Lo so, le ragazze sono vanitose. Se qualcuno può aiutarvi, quello è il dottor Kraus. È un medico eccellente, vero?»
«Sì» rispose Priscilla appoggiandosi all’indietro sul sedile.
«Il granduca è un suo grande ammiratore. Ha intenzione di conferirgli un titolo nobiliare».
«Davvero?»
«Sì dice... forse sono solo pettegolezzi, ma del resto è un tale bell’uomo... che la contessa von Disthal stia per sposarlo».
«Perbacco» esclamò Priscilla, allarmata, «che lui lo voglia o meno?»
«Certo che lo vorrà. Lei è un ottimo partito».
«Ma peserà almeno cento chili. E sembra sua madre. Inoltre lui non è di nobili natali».
«Nobili natali? Certo, al momento non è ancora nobile, ma viene comunque da un’eccellente famiglia. E poiché è impossibile essere sempre così malati come la contessa, qualche malattia deve simularla. E perché simulare se non per vedere il medico? A Kunitz corre voce che lo mandi a chiamare ogni giorno».
«Sì, è vero. Ma questa volta è malata sul serio. Temo che la poveretta abbia preso freddo mentre stava a guardare... santo cielo, vostro figlio dorme come un angioletto. Bisognerebbe chiedere a Levallier di fargli il ritratto in questa posizione».
«Ah, quant’è tenero. Ha la stessa espressione di suo padre quando dorme. A volte non riesco ad addormentarmi dalla gioia che provo di fronte a un quadro così meraviglioso. Ma cos’è successo alla contessa Disthal? È stato il dottor Kraus a dirvelo?»
«No, no. Io... l’ho sentito dire... voci che girano».
«Ah, sarà di nuovo tutta scena. Beh, per lui non sarà un grande affare. Sapete che lei è la dama di compagnia della principessa Priscilla? Quella molto amata, coi capelli rossi. La contessa fa vita comoda. Le altre due principesse hanno fatto passare alle loro dame un mare di guai, ma Priscilla... oh, lei è un modello. Tutta Kunitz è fiera di lei. Si dice che sia proprio come dovrebbe essere una principessa, e si può stare tranquilli che non dirà mai qualcosa né si comporterà mai in un modo non consono alla sua posizione. L’avete vista? Spesso attraversa la città, e la gente corre per vederla, felice come una pasqua. Noi di Gerstein siamo invidiosi. Il nostro ducato non ha principesse come lei da mettere in mostra. Secondo voi è poi così bella? Io l’ho vista spesso, ma non la trovo granché. Quando c’è di mezzo una principessa la gente esagera sempre. A mio marito non piace. A suo parere non è quello che lui chiama il tipo classico. I capelli, per esempio... ma a quello ci si potrebbe passare sopra. E poi le persone davvero belle hanno sempre le ciglia scure. E il naso... mio marito spesso ci ride sopra, dice che il naso della principessa...»
«Oh» la interruppe Priscilla con un filo di voce, «ho un mal di testa terribile. Credo che proverò a dormire un po’, se non vi dispiace smettere di parlare».
«Ma certo. Dev’essere snervante avere tutto il giorno quella cosa soffocante attorno alla faccia. Se solo non foste così restia... cosa volete che sia uno sfogo della pelle quando si è tra donne? Comunque non voglio costringervi. Conoscete molta gente a Kunitz? I Levisohn li conoscete bene?»
«Oh» sospirò Priscilla, sfinita, appoggiando la testa e chiudendo gli occhi, «e chi sarebbero?»
«Chi sarebbero? Chi sarebbero i Levisohn? Ma mia cara Fräulein, se conoscete Kunitz non potete non conoscere i Levisohn. Dico, i Levisohn sono Kunitz. Sono persino più importanti del granduca. Le danno lustro, impongono lo stile. Dovete conoscere lo splendido negozio che hanno all’angolo della Heiligengeiststrasse? Forse» proseguì lanciando un’occhiata al malridotto abito di serge della principessa, «non li frequentate, però dovete pur conoscere il loro negozio. Noi ci serviamo lì».
«Davvero?» intercalò Priscilla, approfittando di un istante di pausa.
«E naturalmente sarete al corrente della storia di lei?»
«Oh, oh» sospirò Priscilla, voltando la testa da una parte all’altra sui cuscini, cercando invano un po’ di tranquillità.
«Non è una storia adatta alle orecchie di una Fräulein».
«E allora non raccontatemela, ve ne prego».
«No, infatti. Non sono cose per Fräulein. Però si vede che deve essere stata una gran bella donna. E lui, Levisohn, è stato abbastanza furbo da sfruttare l’occasione per diventare un favorito a corte. Il granduca...»
«Non ho voglia di sentir parlare dei Levisohn» disse Priscilla tirandosi a sedere di scatto e articolando bene ogni parola. «Detesto i pettegolezzi. E non permetto che se ne facciano in mia presenza».
«Che arroganza» disse la madre, stupefatta. Era la prima volta che qualcuno diceva a Priscilla una cosa del genere.
Sotto il velo il viso le si fece scarlatto. Per un attimo rimase seduta con gli occhi lampeggianti, e la mano in grembo si contrasse convulsamente. Possibile che stesse pensando di dare a quella madre confortevole l’ammonizione cui solo per un soffio era sfuggito il poliziotto? Non so cosa sarebbe accaduto se la dea benevola, vedendo precipitare la situazione, non avesse fatto fermare il treno appena in tempo a una stazione secondaria e permesso a una signora ansante e carica di pacchi di arrampicarsi dentro alla carrozza. Lo sguardo stupito della madre fu dirottato per forza di cose sulla nuova arrivata. E un pacco ficcato a forza tra le sue mani riportò Priscilla alla ragione.
«Danke, danke» esclamò la signora senza fiato, nonostante nessuno le avesse offerto aiuto; e issandosi all’interno augurò alle compagne di viaggio un rumoroso buonasera.
La donna, evidentemente una persona ben organizzata, sistemò i pacchi in modo rapido e ordinato sul ripiano portabagagli, tirò su i finestrini, chiuse con determinazione i ventilatori, si tolse il mantello, si tirò indietro il velo, e sedendosi con un sospiro incredibilmente lungo e profondo fissò le altre due donne per cinque minuti buoni senza battere ciglio. Al termine dei cinque minuti lei e la madre cominciarono a chiacchierare come mosse da un impulso comune. E al termine di altri cinque minuti si erano dette dov’erano dirette, da dove venivano, chi erano i loro mariti oltre al numero, all’età e al peso dei loro figli, e snocciolato tutti gli aggettivi che potevano risultare utili per descrivere le rispettive domestiche.
Gli aggettivi, quanto mai offensivi, presero parecchio tempo. Mentre le due si dilungavano Priscilla chiuse gli occhi, grata di essere lasciata in pace, sentendosi i nervi tesi allo stremo; poi scivolò gradualmente in un sonno agitato la cui caratteristica principale era l’angosciosa ripetizione, come una serie di martellate sul cervello, delle parole: Stai degenerando... degenerando... degenerando.
«Lieber Gott» sussurrò infine, ripiegando le mani in grembo, «non lasciare che degeneri troppo. Ti prego, fa’ che non provi il desiderio di prendere a schiaffi la gente. Lieber Gott, è così barbaro da parte mia. Non mi era mai capitato, prima d’ora. Ti prego, non farmi più provare questo desiderio».
E scivolò in un sonno placido e leggero.