III.

Attraversarono la Manica da Calais, in turbonave. Il percorso più breve sarebbe stato Colonia-Ostenda-Dover, cioè quello proposto da Fritzing, visto che ogni minuto era prezioso, ma Priscilla era fermamente intenzionata a verificare di persona se le turbonavi fossero stabili come si diceva. Beh, si rivelò talmente stabile che si sarebbe detto fosse ancora buona e tranquilla sulla terraferma; era per via della calma piatta, spiegò Fritzing, e in caso di calma piatta... con molta pazienza Fritzing spiegò a Priscilla come si comportano le imbarcazioni in casi del genere, e non appena ebbe finito lei disse che allora avrebbero potuto benissimo fare la traversata via Ostenda.

«Proprio così, vostra altezza, e a quest’ora saremmo già a Londra» rispose Fritzing.

In effetti, scegliendo Calais avevano perso tempo e denaro, e Fritzing anche le staffe.

Come ricorderete, Fritzing aveva sessant’anni, e non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Anzi, non chiudeva occhio da diverse notti: un inferno che andava ben oltre quello che una normale anima non più nella prima giovinezza era chiamata a sopportare.

Fremendo sul sedile, a bordo del treno tra Colonia e Calais aveva maledetto ciascuno dei suoi ideali di tutta una vita, li aveva definiti folli, aveva agitato il pugno al loro indirizzo; si era ormai ridotto in uno spaventoso stato mentale. Ma alla sua cara principessa non rivelò nulla di tutto questo, e nel discorrere con lei sulla turbonave ostentò la fronte spianata del filosofo; si considerava però un uomo messo a dura prova, e nei confronti della cameriera Annalise si comportò esattamente come si comportano gli uomini messi a dura prova di fronte a degli esseri indifesi. Purtroppo però Annalise era solo apparentemente indifesa. Se fosse stato più avvezzo alle fughe, Fritzing lo avrebbe saputo, e nei momenti di maggiore calma lo intuiva, per quanto confusamente: perché in verità era Annalise che teneva in pugno lui e Priscilla.

A quel punto, neppure Annalise stessa ne era consapevole. Era ancora sbalordita dalla promozione ricevuta, e nell’ambiente nuovo ed estraneo della turbonave sembrava così piccola e insicura che a lui venne spontaneo rivolgersi a lei in un tono che dovette suonare del tutto familiare a chi avesse già avuto a che fare con uomini messi a dura prova. Insomma, nei confronti di Annalise si comportò come, nottetempo, si era comportato nei confronti dei propri ideali: agitò il pugno al suo indirizzo, la definì folle. Perché aveva rotto l’ombrello di Priscilla, cioè l’ombrello comprato due giorni prima a Gerstein, presumibilmente abbastanza robusto da sopportare un uso ragionevole per qualche tempo.

A Calais c’era la nebbia, e una pioggerella fine. Priscilla, non desiderando scendere sotto coperta, aveva mandato Fritzing a prendere l’ombrello; quando lui lo chiese ad Annalise se lo vide presentare in due pezzi. Il che sarebbe stato sufficiente a far agitare un uomo saggio – gli uomini saggi, si sa, si agitano per un nonnulla; ma Annalise aveva aggiunto che l’ombrello si era rotto da sé. Probabilmente era la verità. Cosa ci si poteva aspettare da un ombrello tanto economico?

Tuttavia Fritzing trovò la spiegazione esasperante, e sprecò un sacco di tempo per spiegarle con parole appassionate che si trattava di un oggetto inanimato, e che gli oggetti inanimati non prendono mai iniziative e dunque non possono rompersi da sé. Parole alle quali Annalise, con una determinazione infausta in quanto rivelatrice del carattere, replicò ripetendo che l’ombrello aveva sicuramente fatto tutto da solo. Fu allora che Fritzing agitò il pugno e la chiamò folle. Era uscito così scosso dal colloquio che, dopo essersi allontanato e averci riflettuto, tornò da lei una seconda volta, agitò il pugno e la chiamò canaglia.

Non mi soffermerò ulteriormente sull’episodio dell’ombrello, gravido di insegnamenti.

Nel frattempo, la principessa provava una gran felicità. Se ne stava seduta inosservata su una sedia a sdraio, sentendosi finalmente proiettata nel Mondo Ideale. Alcuni di noi conoscono il fascino di quella sensazione, e tutti noi conosciamo il fascino delle cose nuove; e per lei passare inosservata era una novità incredibilmente eccitante.

Nessuno la guardava. I passeggeri la superavano camminando avanti e indietro sul ponte come se neppure esistesse. Anzi, uno di loro, che andava di fretta, le pestò un piede e passò oltre mormorando appena una scusa. Intorno a sé, vedeva facce indifferenti, facce inconsapevoli. Era assolutamente meraviglioso. E da Gerstein in poi non avevano avuto inconvenienti. Fritzing l’aveva sottratta allo sguardo indagatore della madre, alla fine diventato estremamente gelido e penetrante; Annalise, docile e ansiosa di compiacere, l’aveva aiutata a coricarsi nel vagone letto sull’espresso per Bruxelles; e la mattina aveva provato una gioia addirittura infantile nel vedersi presentare un vassoietto con del pessimo caffè da un inserviente indaffarato, che l’aveva sbattuto sul tavolino e si era precipitato fuori senza nemmeno degnarla di uno sguardo.

Che meraviglia. La principessa aveva riso deliziata e bevuto il caffè, fondi e tutto quanto. Oh, la libertà benedetta di non essere importanti! Era meraviglioso, si disse, era come liberarsi completamente del proprio corpo e poter girare in forma di spirito invisibile. Era poi andata a sedersi sul ponte e aveva rammentato, con una certa esultanza, i viaggi del passato, ora finiti per sempre: il treno granducale, con lei a bordo sempre più floscia per il tedio, proprio come gli immancabili bouquet che si afflosciavano sul tavolo; la folla di curiosi lungo tutte le banchine; i funzionari che si profondevano in inchini ovunque guardasse. Naturalmente la contessa Disthal era sempre al suo fianco, e quando doveva salutare graziosamente dal finestrino, l’ansia di elargire un sorriso di meno era inferiore solo a quella della donna che teme di elargirne uno di troppo. Beh, era tutto finito, ora; finito per sempre, come finisce un incubo quando ti svegli in un bel mattino di primavera col profumo di rugiada. E non aveva timori.

Conoscendolo come lo conosceva lei, era certa che quando il granduca avesse scoperto la sua fuga non avrebbe tentato di riaverla indietro; semplicemente avrebbe tirato una riga sul ricordo di lei, l’avrebbe cancellata dalla mente (dal cuore, lo sapeva, non aveva bisogno di essere cancellata, perché non vi era mai entrata); e una volta superato il primo impeto di collera, collera dovuta solo e unicamente allo scandalo, avrebbe ripreso la vita di sempre, mentre lei – oh, meravigliosa nuova vita! – sarebbe nata un’altra volta per godere di ogni benedizione.

Ora, come potrei io, fragile vascello gravato da un carico di interrogativi sui quali la vita vortica con un rombo di beffarde risposte contraddittorie, arrogarmi il diritto di stabilire se Priscilla avrebbe dovuto avere rimorsi di coscienza? Non mi assorda forse il fragore delle risposte, tutte in apparenza giuste eppure così diverse, che questo semplice interrogativo porta con sé? E il fragore delle risposte a un interrogativo tanto complesso come quello sui rimorsi di coscienza, non mi assorderebbe forse per sempre?

Lascerò dunque fuggire la principessa dalla casa e dal padre, se così ha deciso, senza neppure tentare di imbiancare a calce quelle parti della sua condotta che possano apparire offuscate. Mi limiterò a narrare, senza commenti. Cioè, ci proverò, perché i commenti mi sono sempre molto cari. So però di non poter procedere finché non avrò fatto notare che, benché Priscilla si stesse allontanando dal granduca, si stava avvicinando al possesso della propria anima; e sono in molti a ritenere tale possesso prezioso al punto da essere in assoluto la cosa principale per cui valga la pena vivere.

Per Priscilla, dunque, la traversata fino a Dover si svolse con tranquillità. Non così per Fritzing. Lui, anima tormentata e bersaglio principale delle frecce della dea, passò tutto il tempo aggrappato al parapetto che correva lungo il fianco della turbonave per tenersi in equilibrio; e poiché era un giorno di calma piatta, non si faticherà a capire quale tremenda burrasca stesse infuriando dentro Fritzing. Già; e la burrasca divenne uragano quando Fritzing intercettò alcuni frammenti di conversazione tra due inglesi che passeggiavano avanti e indietro.

Durante il primo passaggio uno aveva detto all’altro: «Non ho mai sentito niente di tanto infame».

Fritzing, persona dalla vita irreprensibile e dai nobili principi, non avrebbe dovuto trasalire; invece, pieno d’ansia, si era messo all’ascolto del resto.

«Già» aveva risposto l’altro, che aveva un giornale sotto il braccio, «si meriterebbero tutto il male...»

Ed erano usciti dalla portata d’orecchi. Ma chi era stato infame? E fino a quale punto? Era stato allora che aveva dovuto aggrapparsi al parapetto per tenersi saldo in attesa che i due ripassassero.

«Immagino già cosa farà il governo in merito» fu il successivo brandello di conversazione.

«Sono curioso di vedere cosa diranno i giornali stranieri» fu quello dopo.

«Non ho mai sentito niente di tanto immorale» fu quello dopo ancora.

«Una creatura così innocua e innocente...» fu l’ennesimo.

E l’ultimo brandello in assoluto – per quanto i due continuassero a passare avanti e indietro, dopo queste parole Fritzing non udì più nulla – fu la breve e singolare espressione: «Demòni».

Demòni? Ma di cosa stavano parlando? Demòni? Era così, dunque, che il pubblico bollava le persone irreprensibili in cerca di pace? Demòni? Cosa, lui e... no, Priscilla mai. Lei era senz’ombra di dubbio la creatura innocua e innocente di cui parlavano, e lui doveva essere quell’altra cosa. Ma perché plurale? Poteva solo supporre trattarsi di lui e Annalise insieme a formare quel sulfureo plurale. Aumentò la stretta sul parapetto.

Chi avrebbe mai immaginato che la faccenda sarebbe finita così presto sui giornali? Chi avrebbe mai immaginato che la notizia della fuga avrebbe suscitato parole tanto accese? A Dover avrebbero trovato ad aspettarli le forze dell’ordine indignate. La sua principessa stava per essere messa in una posizione impossibile. Oh, cosa aveva combinato? Santo cielo, cosa aveva combinato?

Si afferrò al parapetto e posò lo sguardo sconsolato oltre il fianco dell’imbarcazione, sull’acqua oleosa. Alcuni passeggeri indugiarono per guardarlo, prima perché pensavano stesse per dare di stomaco per il mal di mare – cosa incredibile, vista la calma piatta – poi perché erano certi che volesse suicidarsi. Verificato che non si apprestava a fare né l’una né l’altra cosa, quelli persero interesse e se ne andarono via, lasciandolo completamente e sprezzantemente solo.

«Fritzi, sei preoccupato per qualcosa?» chiese Priscilla raggiungendolo nel punto dove stava immobile e con lo sguardo fisso, nonostante fossero arrivati a Dover.

Preoccupato! Quando tutta l’Europa stava per piombare loro addosso? Quando agli occhi di tutto il mondo lui era un criminale, un complice, un favoreggiatore, un corruttore di gioventù? Amava la principessa al punto da non curarsi minimamente dei rischi che lui stesso correva; ma quanto a quelli che correva lei? Colto da un parossismo d’urgenza si precipitò dai propri ideali e principi in cerca di giustificazione e conforto, frugò tra essi in maniera febbrile e li fece finire gambe all’aria.

Lo avevano abbandonato. Erano diventati un mucchio di ciarpame inanimato. Non un solo angolo della sua mente riusciva a trovare un brandello di conforto o giustificazione con cui chiudersi le orecchie per renderle sorde alle parole dei due inglesi, e gli occhi per renderli ciechi all’orrenda visione che era certo li aspettasse sulla banchina di Dover: infuriate forze dell’ordine pronte a piombargli addosso e portarlo via per sempre dalla sua principessa.

Priscilla lo guardò meravigliata. Non la ascoltava nemmeno; con aria atterrita passava in rassegna le schiere di volti concentrati sull’approdo della nave.

«Fritzi, se sei preoccupato dev’essere perché non hai dormito» disse Priscilla posandogli la mano sulla manica; per quale motivo infatti doveva avere quell’aria stralunata se non perché aveva i nervi a pezzi? Dopotutto la sera prima era stato lui ad affrontare il poliziotto col coraggio di un leone; lui a chiederle in severo tono di biasimo, quando il suo coraggio sembrava venir meno, se fosse pentita. «Sei pentito?» gli aveva chiesto, emulando la severità di lui.

«Vostra altezza...» fece per dire lui con voce bassa e spaventevole, mentre gli occhi non smettevano di scrutare le figure sulla banchina.

«Shh... shh... nipote» lo interruppe lei sorridendo.

Fritzing si voltò e la guardò come un uomo può guardare per l’ultima volta ciò che gli è stato più caro nella vita, e non disse nulla.