VI.

Mentre Fritzing perdeva le staffe a casa dell’agente, Priscilla sedeva al cimitero, al sole. Il cimitero di Symford, la chiesa e i due tanto agognati cottage sorgevano su una piccola altura che si innalzava come un’isola dalla vallata. Seduta sotto gli alberi, Priscilla osservava lo scenario tranquillo ai suoi piedi, lasciando vagare i pensieri lungo sentieri felici.

La valle era già in ombra, ma la cima delle colline sul lato ovest era tinta d’oro dai raggi del sole del tardo pomeriggio. Il fumo azzurro usciva dai comignoli dei cottage e saliva dritto nel cielo pallido; i corvi si posavano sui rami degli olmi sopra la sua testa, e di tanto in tanto una foglia ingiallita volteggiava lenta ai suoi piedi. Priscilla si sentiva il cuore colmo di pace. Sarebbe stata buona; avrebbe condotto una vita bella e pura; e tranquilla, di conforto ai poveri, e appartata, libera dalla confusione. Mai più avrebbe avuto bisogno di fingere, di lottare contro la propria coscienza. Aveva scelto la parte migliore, e rinunciato a tutto per seguire la via della saggezza; la sua vita futura ne sarebbe stata la dimostrazione. Chi non conosce la pace interiore che discende su colui che fa buoni propositi e vi tiene fede, finché non scopre all’improvviso di averli tutti infranti? Ma è poi davvero grave infrangerli?

Non basta farne per rinvigorire lo spirito, e regalare istanti di smisurata beatitudine? E chi rinuncia ai buoni propositi per paura di non saperli mantenere, non perde forse tantissimo? In attesa, al cimitero, Priscilla sperimentava questi beati momenti di elevazione, invisibilmente circondata dai più encomiabili buoni propositi che si possano immaginare.

Il reverendo Edward Morrison, il parroco che ho definito venerando, nel sopraggiungere lento lungo il sentiero sotto braccio al figlio, con l’intenzione di recarsi in chiesa alla ricerca di un libro di sermoni andato smarrito, vide la schiena pensosa di Priscilla sotto l’olmo e capì all’istante trattarsi di una schiena sconosciuta. Conosceva tutte le schiene di Symford, e poiché di rado i turisti si inoltravano fino al loro villaggio, e mai in quel periodo dell’anno, non poteva, si disse, essere la schiena di un turista. Né poteva essere la schiena di un’ospite degli Shuttleworth: era stato da loro quello stesso pomeriggio e aveva trovato lady Shuttleworth lieta per il breve periodo di solitudine che lei e il figlio si stavano godendo prima del previsto afflusso di invitati ai festeggiamenti per la maggiore età del ragazzo.

«Robin, chi è quella donna?» chiese il parroco al figlio.

«Non ne ho idea» rispose Robin.

«Si prenderà un raffreddore» disse il parroco.

«Credo anch’io» rispose Robin.

Quando, dieci minuti più tardi, uscirono di chiesa, Priscilla era ancora nello stesso posto.

«Si prenderà di certo un raffreddore» ripeté il parroco preoccupato.

«Pare molto probabile anche a me» gli fece eco Robin chiudendo la porta a chiave.

«È seduta su una tomba».

«Già, su quella del vecchio Dawson».

«Poco saggio» considerò il parroco.

«Irriverente» rincarò Robin.

Il vicario riprese il figlio sotto braccio – questi, che lo superava in altezza di tutta la testa e le spalle, era tornato da Cambridge per una vacanza ormai quasi giunta al termine – e, spinto dalla curiosità, si incamminò al suo fianco lungo il sentiero che li avrebbe condotti proprio davanti alla giovane donna seduta sulla lapide.

Priscilla, completamente immersa nei suoi sogni radiosi, con occhi colmi di radiosità sollevò lo sguardo sulle due figure che si stagliavano tra lei e il tramonto.

«Mia giovane cara signora» esordì il parroco affabilmente, «non temete di prendervi un raffreddore? In questa stagione c’è parecchia umidità, di sera, e il sedile che avete scelto è molto freddo».

«Non ho freddo» rispose Priscilla sorridendo a quella visione benevola.

«Penso ugualmente che non dobbiate stare seduta qui» replicò il parroco.

«Sto aspettando mio zio. È andato a comprare un cottage, e dovrebbe tornare da un momento all’altro».

«Comprare un cottage?» ripeté il parroco. «Mia giovane cara signora, lo dite come se fosse andato a comprare un tramezzino».

«Cos’è un tramezzino?»

«Un tramezzino?» chiese il parroco sbalordito, poiché nessuno gli aveva mai fatto una domanda del genere.

«Ah, sì, lo so...» rettificò subito Priscilla col viso pervaso da un leggero rossore. «È una cosa che si mangia. E c’è un modo particolare per parlare di tramezzini?»

«C’è di sicuro per parlare di una cosa così... beh, eccezionale come comprare un cottage».

«La trovate eccezionale? A me sembra molto bella e del tutto naturale». Priscilla sollevò lo sguardo sul parroco e sul figlio esaminando attentamente e in tutta calma prima l’uno poi l’altro, mentre loro la guardavano dall’alto; e ogni volta che i suoi occhi si posavano su Robin trovavano quelli di lui che la fissavano con aperta sorpresa e ammirazione.

«Perdonatemi» disse il parroco, «se vi sembro indiscreto, ma è un cottage di Symford che vostro zio intende acquistare? Non mi pare ce ne siano in vendita».

«Quello là, vicino all’entrata» disse Priscilla, voltando appena la testa per indicarlo.

«Ed è in vendita? Santo cielo, è la prima volta che sento di lady Shuttleworth disposta a vendere un cottage».

«Non so ancora se vorrà venderlo» precisò Priscilla, «ma Fr... lo zio è disposto a pagare qualunque cifra. Io devo averlo. Altrimenti potrei... potrei morire dal dispiacere».

Il parroco fissò perplesso quel viso rivolto verso l’alto. «Santo cielo» ripeté dopo una breve pausa.

«Dobbiamo pur vivere da qualche parte» dichiarò Priscilla.

«Direi proprio» esclamò Robin con tale vigore che lei lo scrutò con rinnovata curiosità.

«Ci mancherebbe altro» gli fece eco il parroco. «Nel frattempo soggiornate qui?»

«Non ditemi al Cock and Hens» intervenne Robin.

«Stiamo a Baker’s Farm».

«Ah, sì. La povera Mrs Pearce sarà felice di avere dei pensionanti. Povera donna, povera donna».

«Più che povera a me sembra sporca» disse Robin; e negli occhi di Priscilla lampeggiò un improvviso scintillio.

«Intendete quella coi buchi nel grembiule?» chiese.

«Credo proprio di sì. Di solito ce li ha» rispose Robin.

Risero entrambi, mentre il parroco scuoteva impercettibilmente la testa. «Ah, poveretta. Ha avuto una vita tutta in salita. A quanto pare non sono capaci... non sanno fare propria l’arte di sbarcare il lunario» disse il parroco.

«Una grande arte» soggiunse Robin.

«Forse li si potrebbe aiutare» affermò Priscilla, già progettando tra sé di darsi da fare con loro.

«Oh, non sono quel genere di persone che si riesce ad aiutare. E temo che lady Shuttleworth disapprovi troppo gli indolenti per decidere di ridurre l’affitto».

«Lady Shuttleworth non sopporta chiunque non abbia l’aria felice e non si rattoppi il grembiule» fu il commento di Robin.

«Ma è suo, il grembiule» obiettò Priscilla.

«Difatti» convenne Robin.

«Beh, spero vi trattino bene» disse il parroco; e non potendo aggiungere altro senza dover ammettere una certa indiscrezione, cominciò a strappare via Robin da lì. «Vi vedremo con vostro zio domenica in chiesa, spero» disse in tono benevolo, e si levò il cappello mostrando la chioma candida come la neve.

Priscilla esitò. Tecnicamente era protestante: in occasione del matrimonio tra la madre e il granduca cattolico si era stabilito che un figlio sì e uno no sarebbe stato di fede cattolica. Priscilla era la secondogenita, dunque, delle tre figlie, l’unica non cattolica e, dunque, lì a Symford sarebbe potuta andare in chiesa ogniqualvolta l’avesse voluto. Fritzing, però, la rendeva esitante: lui era ciò che il parroco avrebbe definito un miscredente, e non andava mai in chiesa.

«Appartenete alla Chiesa d’Inghilterra?» indagò il parroco vedendola esitare.

«Ma papà, non è mica inglese» intervenne Robin.

«Non è inglese?» gli fece eco il parroco.

«Parlo inglese così male? chiese Priscilla con un sorriso.

«Oh no, lo parlate in maniera eccellente» disse Robin, «soltanto le “r”, sapete...»

«Eh, già. No, non sono inglese. Sono tedesca».

«Davvero?» disse il parroco con tutto l’interesse dovuto a un fenomeno eccezionale, dato che la presenza di un tedesco a Symford era cosa davvero eccezionale. «Mia giovane cara signora, che cosa straordinaria. Non ricordo di avere mai incontrato un tedesco dalle nostre parti, prima d’ora. Ma voi parlate inglese benissimo, non avrei mai detto che siete straniera. Le orecchie di mio figlio sono molto più sensibili delle mie, ormai. Mi riterrete imperdonabilmente curioso se vi chiedo cosa vi ha indotto a scegliere Symford come luogo in cui stabilirvi?»

«Mio zio è stato qui l’anno scorso e Symford gli è piaciuto al punto da decidere di trascorrervi gli anni che gli restano».

«E immagino che voi starete con lui per prendervene cura».

«Sì» rispose Priscilla, «considerato che» e spostò lo sguardo dall’uno all’altro, ritenendosi estremamente scaltra, «entrambi non abbiamo nessun altro al mondo».

«Ah, povera bambina... siete orfana».

«Non ho detto questo» replicò Priscilla prontamente, arrossendo; lei, da sempre troppo orgogliosa per mentire, come poteva mentire a quel pio venerando dai capelli candidi?

«Ah, bene, bene» disse il parroco con fare vagamente tranquillizzante. «Arrivederci a domenica, magari. Che io sappia, non vi è motivo per cui un membro della Chiesa tedesca non debba partecipare alle funzioni della Chiesa d’Inghilterra». Sollevò di nuovo il cappello e cercò di trascinare via il figlio.

Ma Robin indugiava. Priscilla vedeva nei suoi occhi tanta curiosità. Pensò di dare forse un’impressione di eccessivo mistero, ed essendo quella l’ultima delle sue intenzioni decise di elargire qualche informazione in più: «Lo zio ha insegnato le lingue straniere per anni e ora è vecchio e stanco. Il più grande desiderio di entrambi è vivere in campagna e stare tranquilli. È stato lui a insegnarmi l’inglese, ecco perché lo parlo bene. Si chiama Schultz» concluse, tutta presa dal desiderio di spegnere quella luce inquisitrice nello sguardo di Robin.

Il parroco accennò un inchino, e Robin chiese con estrema cortesia, ma ancora con quella luce nello sguardo, se potesse dunque rivolgersi a lei chiamandola Miss Schultz.

«Temo di sì» fu la desolata risposta di Priscilla. Quel nome aveva un suono davvero grossolano. Miss Schultz? Già che c’era avrebbe potuto scegliere qualcosa di romantico, dato che Fritz, assorbito da mille incombenze urgenti, finora non aveva avuto tempo di discutere con lei in merito ai nomi.

Robin le lanciò un’occhiata penetrante: la risposta gli era sembrata quanto mai bizzarra. E sgranò ancor più gli occhi quando lei, guardandolo con l’aria di chi abbia avuto una pensata felice, lo informò che il suo nome di battesimo era Ethel.

«Ethel?» ripeté Robin.

«È un nome molto bello» affermò Priscilla compiaciuta.

«La nostra domestica si chiama Ethel, e si chiama così anche la ragazzina che spinge la carrozzina del figlio del giardiniere» fu l’impetuoso commento di Robin.

«Questo non lo rende meno bello» rispose Priscilla.

«Eppure» l’interruppe il vicario con aria mite, «Ethel non è un nome tedesco».

«Sono stata battezzata con il nome di mia madre» annunciò Priscilla pacatamente; e almeno queste ultime parole erano vere, perché anche la defunta granduchessa si chiamava Priscilla. Poi però fu presa dalla sensazione di impegolarsi nei dettagli insidiosi in cui scivola chi ha dei segreti, finendo poi per lasciarseli sfuggire, e presa dal panico si alzò dalla tomba.

«Allora siete mezza inglese» affermò Robin trionfante, con gli occhi luccicanti. La scrutava intensamente con l’aria assertiva e autoritaria, la testa alta, e il bel volto acceso dall’interesse. Ma una persona con l’educazione di Priscilla non si lasciava certo scomporre dallo sguardo di un Robin qualunque, per quanto autoritario; non era stata forse la sua attività principale, fino a quel momento, sopportare sguardi insistenti con aggraziata indifferenza? «Non ho detto questo» rispose lanciandogli una breve occhiata; e rivolgendo a padre e figlio un fugace sorriso composto di garbo e gelo aggiunse: «È davvero molto umido qui. Credo sarà meglio non aspettare lo zio» e accennando un inchino si allontanò senza ulteriore indugio.

Camminò a passi molto lenti, le gonne raccolte mollemente in una mano, il corpo che esprimeva la più totale inavvicinabilità e padronanza di sé. Mai i due uomini avevano visto tale autocontrollo. La osservarono in silenzio mentre risaliva il sentiero e usciva dal cancello; poi Robin abbassò lo sguardo sul padre, si sistemò bene sotto il braccio la mano di lui e con un sorriso disse: «Vieni, papà, andiamo a casa. Siamo stati congedati».

«Da una giovane donna alquanto affascinante» commentò il vicario sorridendo.

«E molto gelida» aggiunse Robin con una scrollata di spalle, dato che non gli piaceva essere congedato.

«Già... una padronanza di sé davvero singolare, data l’età» convenne il parroco.

«Mi chiedo se tutte le nipoti di insegnanti tedeschi siano come lei» disse Robin con una risata.

«Non saranno tutte altrettanto benedette dalla natura, credo».

«Oh, non mi riferivo al viso. Anche se è di certo molto più bella della media».

«È di una bellezza decisamente fuori dal comune, figlio mio. Non stare a cavillare».

«Miss Schultz... Ethel Schultz» mormorò Robin; e aggiunse sottovoce: «Buon Dio».

«Non è colpa sua se si chiama così. Il nome ci viene imposto».

«È un nome terribilmente ordinario. MacGrigor, che ha passato un anno a Dresda, mi ha detto che tutti i tedeschi si chiamano Schultz».

«Tranne quelli che non si chiamano così».

«Vedo, papà, che hai ritrovato il gusto per la battuta» disse Robin con un sorriso.

«Sta arrivando qualcuno di gran fretta» disse il parroco, la sua attenzione distolta da una figura che si avvicinava rapida; Robin alzò lo sguardo e vide Fritzing attraversare il camposanto a lunghi passi: aveva il cappello ben calato sugli occhi, come se se lo fosse schiaffato in testa con più vigore del solito, le mani profondamente infilate nelle tasche, l’ombrello, senza il quale non usciva mai di casa, nemmeno nelle giornate più smaglianti, sotto il braccio, mentre le lunghe gambe tracciavano scorciatoie profane sopra fosse e tombe con tutta l’indifferenza per il decoro di chi è immerso in pensieri spiacevoli. Symford non era avvezza a simili saltelli sulle tombe; così, quando Fritzing fu a pochi metri da loro e in procinto di proseguire la sua marcia spedita sulle restanti pietre tombali diretto all’albero sotto cui aveva lasciato Priscilla, il parroco, alzando la voce, lo esortò a tenersi sul sentiero.

«Che aspetto bizzarro» commentò Robin. «Un altro straniero. Dico, non sarà... sì, non sarà mica lo zio?» si domandò, eppure non aveva mai visto uno zio e una nipote meno somiglianti tra loro.

Fritzing era l’ultimo uomo sulla terra intenzionato a infrangere regole locali o a urtare suscettibilità, per cui, distolto dalle sue sgradevoli elucubrazioni dalla voce del parroco, desisté immediatamente dal proseguire per la via più breve. Tornando sul sentiero si sollevò il cappello e si scusò con il garbo di cui non mancava mai di fare mostra fintantoché nessuno lo faceva arrabbiare.

«Mi chiamo Neumann, signore» disse nel presentarsi alla maniera tedesca, «e vi chiedo umilmente scusa. Stavo cercavo una signorina, e...» così dicendo diede un colpetto agli occhiali per rimetterli a posto, come se non volessero ubbidirgli, e scrutando l’olmo sotto cui aveva lasciato Priscilla aggiunse, colto da subitanea ansia: «Non riesco a vederla da nessuna parte».

«Intendete Miss Schultz?» chiese il parroco sconcertato.

«No, no, signore. Non intendo Miss Schultz» rispose Fritzing scrutando gli alberi circostanti chiaramente stupito e angosciato.

«Una signorina è andata via di qui più o meno cinque minuti fa» annunciò Robin.

«Giovane e alta con un vestito azzurro?»

«Sì. Miss Schultz».

Fritzing gli scoccò un’occhiata severa.

«Signore, cosa c’entro io con Miss Schultz?» domandò.

«Oh, suvvia» lo esortò Robin allegro, «non è lei che state cercando?»

«Io sto cercando mia nipote, signore».

«Sì. Miss Schultz».

«No, signore» ribadì Fritzing controllandosi a fatica, «non Miss Schultz. Non so chi sia Miss Schultz né mi interessa un...»

«Signore, signore» si intromise precipitosamente il parroco.

«Signore, di Miss Schultz non mi interessa un pfennig».

Il parroco assunse un’aria perplessa. «C’era una signorina» disse, «seduta sotto quell’albero laggiù. Aspettava lo zio che era andato, così ci ha detto, dall’agente di lady Shuttleworth per il cottage accanto all’entrata. Ci ha detto che suo zio si chiama Schultz».

«Ci ha detto di chiamarsi Ethel Schultz» soggiunse Robin.

«Ci ha detto che alloggia a Baker’s Farm» disse il parroco.

Fritzing fissò per un istante prima l’uno poi l’altro, quindi, sollevando di pochi centimetri il cappello con un gesto meccanico, girò i tacchi senza aggiungere una parola e uscì dal cimitero ad andatura rapida; dopo aver percorso la discesa si inoltrò su per la salita che portava alla fattoria.

«Un tipo strano, vero?» disse Robin mentre si dirigevano a passo lento verso l’uscita seguendo la figura in volata.

«Non capisco» disse il parroco.

«C’è qualcosa di strano».

«Non ha detto di chiamarsi Neumann?»

«Sì. E aveva l’aria di voler prendere a pugni chiunque avesse osato contraddirlo».

«Non posso credere che a Symford siano contemporaneamente presenti due diverse coppie tedesche di zio e nipote» rifletté il parroco.

«Già anche solo una è un avvenimento raro».

«Ma se così fosse» disse Robin in tutta sincerità, «per favore vediamo di coltivare gli Schultz, non l’altra».

«Non capisco» ripeté il parroco sempre più perplesso.