VII.

Symford, paesino innocente, andava a letto molto presto. Per quanto presto fosse, tuttavia, già molto prima dell’ora di andare a dormire quella sera non vi era famiglia a cui non fosse giunta voce degli arrivi a Baker’s Farm. Dalla canonica era trapelata notizia che un’avvenente signorina di nome Schultz, assieme allo zio, aveva preso là delle camere; dalla casa dell’agente era invece trapelata notizia che uno squilibrato di nome Neumann alloggiava là con la nipote; e verso l’ora di cena, mentre il paesino stava ancora congetturando sull’afflusso improvviso di tedeschi imparentati, giunse anche l’annuncio della direttrice dell’ufficio postale, secondo la quale al garzone di Baker’s Farm che andava a ritirare la posta non risultavano presenti ospiti di nome Schultz.

La donna riferì che, quando lei gli aveva chiesto come facesse ad affermare cose del genere dopo avere frequentato tanti anni di catechismo senza temere che la terra si spalancasse per inghiottirlo, lui, dimenticandosi le buone maniere, si era arrabbiato parecchio, ma si era attenuto alla propria versione con un’ostinazione che, alla lunga, l’aveva convinta che alla fattoria ci fossero solo uno zio e una nipote e il loro nome era Neumann. C’era anche un’altra giovane donna, aveva poi aggiunto, il cui nome non era riuscito ad afferrare, che passava le giornate seduta sul letto a piangere e a rifiutarsi di mangiare. Placato dalle scuse della direttrice per l’iniziale scetticismo, aveva finito con l’essere ansioso di fornire ogni informazione in suo possesso; non solo: era persino tornato indietro dopo avere già percorso un lungo tratto di strada perché si era dimenticato di riportare un dettaglio riferito dalla madre: di nome la nipote faceva Maria-Theresa.

«Ma allora che fine ha fatto la nipote che si chiama Ethel?» domandò la moglie del parroco una volta che la notizia fu trapelata dalle pareti della canonica fino al divano dov’era seduta.

«Non lo so» disse il vicario in tono disarmato.

«Forse è quella che piange tutto il giorno».

«Mia cara, ma se noi l’abbiamo incontrata al cimitero».

«Forse si tratta di impostori».

«Mia cara!»

«O di anarchici».

«Kate!»

La moglie del parroco non aggiunse altro, ma si ripromise di andare in visita a Baker’s Farm il giorno dopo. Sarebbe stato terribile se a Symford si fossero infiltrate presenze malvagie, dopo tutta la fatica fatta per conservare la parrocchia nella rettitudine. Inoltre, in quanto moglie del parroco, lei rivestiva una posizione ufficiale: poteva e anzi era tenuta a fare visita a chiunque, una visita – a differenza di quelle tra normali vicini – che non l’avrebbe vincolata a ricambiare con un invito a casa propria.

Forse si sarebbero rivelate persone per bene: in tal caso magari avrebbe invitato la giovane al raduno del martedì sera nella sala parrocchiale; difficilmente alla canonica, per via di sua figlia Netta. Se invece avessero avuto l’aspetto, come temeva, di anarchici o impostori, avrebbe semplicemente lasciato delle pubblicazioni e non si sarebbe fatta trovare nel caso in cui fossero venuti a contraccambiare la visita.

Robin, del tutto ignaro delle elucubrazioni della madre, desiderava ardentemente chiederle di poterla accompagnare a Baker’s Farm come primo passo verso quella vicinanza a cui il suo cuore anelava.

Ma, conoscendo fin troppo bene il carattere della madre, si trattenne e trascorse invece la serata mettendo a punto un piano che l’avrebbe introdotto a Baker’s Farm senza il suo aiuto. Il piano era di una semplicità sconcertante: avrebbe scelto un ombrello dall’ampio assortimento accumulatosi negli anni nel portaombrelli all’ingresso, e sfacciatamente si sarebbe presentato da quel Neumann per chiedergli se lo avesse dimenticato in chiesa. L’uomo avrebbe disconosciuto l’ombrello, magari con nascosta indignazione, ma si sarebbe sentito obbligato a simulare gratitudine. Dopodiché, chi poteva sapere cos’avrebbe potuto orchestrare la fortuna a suo favore?

Mentre Robin tramava, e Mrs Morrison tramava a sua volta, per trovare il modo di entrare a Baker’s Farm il giorno dopo, a Symford Hall una terza persona stava facendo esattamente la stessa cosa: Augustus, speranza di tutti gli Shuttleworth. Nel tardo pomeriggio Augustus – per gli amici semplicemente Tussie – stava cavalcando verso casa a passo lento, essendo un giovane che trascorreva buona parte del tempo a evitare di accaldarsi, quando vide una figura femminile procedere verso di lui lungo la strada deserta. Si trovava nella brughiera sopra Symford, un luogo solitario tappezzato di erica e ginestrone e percorso da viottoli serpeggianti che con esitazioni e ritardi conducono in diversi punti di Exmoor.

Essendo diretto, come qualunque persona di buon senso a quell’ora, verso casa, voltava le spalle al paesaggio naturale e al tramonto. Chissà dov’era diretta la ragazza. Ora infatti vedeva che si trattava di una ragazza, e subito dopo notò che si trattava di una ragazza avvenente. Con il colorito dorato che il sole le aveva appena lasciato sul viso, Priscilla gli veniva incontro come emergendo dal crepuscolo incombente. Tussie, dotato di animo poetico, rimase a bocca aperta a rimirare quella visione. Nel vederlo lei affrettò il passo, e, quando gli rivolse la parola per chiedergli dove si trovasse Symford, lui si tolse prontamente il cappello. «Mi sono persa» spiegò alzando gli occhi su di lui.

«Sto andando proprio lì» rispose lui. «Posso farvi strada?»

«Grazie» disse Priscilla. Lui smontò da cavallo, lei si voltò e si incamminò al suo fianco con la stessa indifferenza con cui avrebbe camminato al fianco della contessa Disthal o davanti a un lacchè al suo servizio. Non parlò; era troppo concentrata su Fritzing e sulla speranza che non fosse troppo preoccupato per lei; Tussie – che Dio protegga il suo candore – pensava invece che fosse timida.

Col passare dei minuti, si convinse che il silenzio di lei fosse dovuto all’imbarazzo e pensò di porvi fine producendosi in un commento sulla bellezza della serata. Priscilla, completamente dimentica di Miss Schultz, gli scoccò un’occhiata glaciale per ricordargli che non stava a lui parlare per primo. Un avvertimento del tutto sprecato, visto che Tussie non poteva ovviamente ricordare niente del genere; ragion per cui lì per lì ascrisse la reazione di lei al disagio di trovarsi lassù sola con un estraneo, e forse alla sensazione che sarebbe stato saggio tenerlo a distanza. Ma bastò un’occhiata al suo profilo per dissipare quell’illusione una volta per tutte, giacché mai gli era capitato di vedere un profilo più sicuro di sé. Ora Priscilla camminava col viso in ombra, e il bagliore dietro di lei creava strani, stupefacenti giochi tra i suoi capelli. Lui ne osservò il profilo: neppure un battito di ciglia mostrava che fosse conscia della presenza di chicchessia.

Teneva gli occhi fissi a terra, ed era profondamente assorta in pensieri venati di rimorso per essersi diretta lassù anziché andare dritta a casa, alla fattoria e, avendo finito col perdersi e accumulare ritardo, per avere fatto patire inutilmente a Fritzing le pene dell’inferno. Aveva già patito tanto, e tutto a causa sua. D’altro canto era la prima volta che andava in giro da sola, una sensazione impossibile da rendere a parole.

Come avrebbe potuto rinunciare alla tentazione di imboccare un delizioso viottolo assolutamente irresistibile, e procedere una svolta dopo l’altra fino a ritrovarsi su in alto, ansante e abbagliata, sul delimitare della brughiera, con Exmoor che si allungava in lontananza, verso il tramonto, in una successione di splendide onde imporporate dal tramonto? Si era inoltrata sempre più, avvinta dalla bellezza del luogo, e quando aveva deciso di tornare indietro aveva scoperto di essersi persa. Poi però era comparso sir Augustus per metterla sulla strada giusta; lei, dopo avergli dedicato un fugace pensiero per classificarlo come persona utile in sella a un bel cavallo, ripiombò in riflessioni di più seria natura sull’angoscia che probabilmente in quel momento attanagliava il povero Fritzi. Per lei, dunque, Augustus non esisteva, proprio come cessa di esistere un cartello indicatore per chi ne abbia preso nota e sia passato oltre.

Lui la osservava, incapace di staccarle gli occhi di dosso. Non aveva mai visto una creatura così incantevole, e certamente mai una con un’aria di tale siderale distacco. Aveva ventun anni, e una forte inclinazione poetica, e mentre lei gli camminava a fianco così slanciata, maestosa e altera, con l’aureola fiammeggiante della chioma e i nobili lineamenti dal cipiglio severo, si disse che aveva in tutto e per tutto l’aspetto di una giovane santa.

Tussie non era audace come Robin. Era un giovane mite che amava la vita tranquilla, i luoghi calmi, le persone placide, i cani amichevoli, persino i canarini, se non cinguettavano in modo molesto. Era cagionevole, e anche permaloso, e si prendeva talmente a cuore la sua poca salute che i suoi amici di più robusta costituzione non lo chiamavano Tussie ma Tosse. Detestava l’idea di invecchiare e avere un mucchio di soldi, oltre a molteplici doveri e responsabilità. Il suo sogno era vivere in pace componendo versi; perdersi in una sorta di dolce, inaccessibile eden, e lì mettersi seduto a cantare, animato da uno spirito alla Omar Khayyam, beninteso nella misura in cui ci si poteva ragionevolmente aspettare che tale spirito discendesse su un giovane che beveva solo acqua. Ripeto, non era audace; e dopo una sola occhiata ammonitrice da parte della giovane santa non osò più parlare per un bel pezzo. Avevano già percorso metà discesa, e ormai non mancava molto a Symford; Augustus temeva che lei potesse eclissarsi all’improvviso, abbandonare il suo fianco e svanire tra le ombre prima che lui riuscisse a scoprire dove alloggiava. Fissò la bocca gentile dalla linea morbida, e aprì la propria per parlare. Ma poi vide il cipiglio severo di lei e la richiuse. Infine, tenendo gli occhi incollati alla sua bocca, e arrossendo, buttò fuori di getto un: «Conosco ogni anima, a Symford e in un raggio di svariati chilometri, ma non conosco...» Si bloccò. Stava per dire: «voi», ma si bloccò.

Priscilla era assorta in pensieri così distanti che si voltò a guardarlo con aria distratta per lo spazio di un istante mentre li riordinava. Poi gli lanciò un’occhiataccia. Non saprei dire perché a Robin fosse toccato un certo numero di sorrisi mentre al povero Tussie soltanto occhiatacce; forse perché nel corso di quella passeggiata la giovane Ethel Schultz era uscita dalla mente di Priscilla, e l’altezza reale era tornata a dominare la scena. Ecco spiegato il motivo per cui lanciava occhiatacce a Tussie e si chiedeva cosa mai fosse preso a quell’uomo per sentirsi in diritto di rivolgerle di continuo la parola. Di continuo! Povero Tussie. Ad alta voce e in tono glaciale gli chiese: «Avete detto qualcosa?»

«Sì» rispose Tussie, gli occhi calamitati dalla bocca di lei, una bocca certamente fatta solo per la gentilezza e per pronunciare dolci parole. «Mi chiedevo se foste ospite alla canonica».

«No» rispose Priscilla, «siamo a Baker’s Farm». E nel nominare quella locanda decadente l’espressione amichevole alla Schultz le tornò in viso, lo sguardo si fece sorridente.

Tussie si fermò di colpo. «Baker’s Farm?» disse. «Beh, allora dovete andare da questa parte; giù per di qua, poi svoltare a destra. È a pochi metri da qui».

«Andate anche voi da quella parte?»

«Io abito al capo opposto di Symford».

«Allora arrivederci e grazie».

«Ve ne prego, lasciate che vi accompagni almeno fino alla strada maestra... è quasi buio».

«Oh, no, non mi perderò di certo, se è così vicino». E con un cenno del capo imboccò la svolta del sentiero.

«Vi... vi trattano come si deve, laggiù?» chiese precipitosamente, arrossendo. «I Pearce sono nostri affittuari. Spero vi riservino con ogni riguardo».

«Oh, ci fermeremo solo qualche giorno. Mio zio è in procinto di comprare un cottage, dunque ci staremo ben poco».

La ragazza Ethel annuì e sorrise per poi svanire nel crepuscolo. Tussie tornò verso casa di umore pensieroso, architettando un piano dopo l’altro per mettere in atto, il giorno dopo, un’incursione a Baker’s Farm che avesse la parvenza dell’improcrastinabilità.

Quando, cinque minuti più tardi, Priscilla emerse dalle ombre del sentiero, trovò Fritzing che si agitava furioso su e giù per la strada davanti al cancello. Corse da lui, lo prese sottobraccio e lo guardò con aria di profonda contrizione. «Caro Fritzi» esordì, «mi spiace tanto. Ti ho fatto stare in pena, vero? Perdonami. È stato il primo assaggio di libertà; invece che alla testa mi ha dato ai piedi, che si sono messi in marcia, e così mi sono persa. Eri preoccupato?»

Terribilmente agitato, lui le diede qualcosa di molto simile a una lavata di capo, e le raccomandò l’estrema opportunità, in futuro, di portare con sé Annalise ovunque andasse.

«Oh, che assurdità, Fritzi» lo interruppe Priscilla sfilando il braccio da sotto il suo.

Lui, con voce tremante, dichiarò di trovare intollerabile l’idea che due estranei avessero osato rivolgerle la parola al cimitero, e che mai si sarebbe perdonato per averla lasciata sola.

«Oh, quante sciocchezze, Fritzi» l’interruppe Priscilla.

Infine, quasi in lacrime, la pregò di riferirgli cosa esattamente aveva detto loro, giacché sua altezza granducale non poteva non capire l’importanza che entrambi si attenessero alla stessa versione.

Priscilla dichiarò di non aver detto nulla, solo cose assolutamente diplomatiche, anzi, addirittura astute; e di come fosse stata piacevolmente sorpresa della naturalezza con cui le erano affiorate alle labbra.

«Perciò, ti prego, evita quest’aria da cane bastonato» concluse.

«Vostra altezza, avete per caso detto che ci chiamiamo Schultz?»

«Sì, visto che è così che ci chiamiamo».

«No, non è vero. Noi ci chiamiamo Neumann».

Priscilla lo guardò strabiliata. «Neumann? Assurdo, Fritzi. Perché dovremmo chiamarci Neumann? Il nostro nome è Schultz. L’ho già comunicato a quelle persone. È tutto a posto».

«A posto, vostra altezza? Alla padrona di casa, così come all’agente, ho detto che siete la figlia di mio fratello, e che noi ci chiamiamo Neumann».

Priscilla rimase esterrefatta. Lo apostrofò severa: «Avresti dovuto interpellarmi. Che diritto avevi di battezzarmi?»

«Pensavo di parlarvene questo pomeriggio, quando fossimo andati al villaggio. Ammetto di essermene dimenticato. D’altro canto non potevo certo immaginare che vostra altezza granducale, lasciata incustodita per un istante, avrebbe informato due estranei che ci chiamiamo Schultz».

«Avresti dovuto comunque interpellarmi» ribadì Priscilla aggrondata. «Si può sapere perché dovrei chiamarmi Neumann?»

«Potrei domandarvi altrettanto legittimamente perché mai io dovrei chiamarmi Schultz» rintuzzò Fritzing.

«Ma perché Neumann?» insisté Priscilla, alterata.

«Perché no?» rispose Fritzing ancor più alterato. Poi aggiunse: «Vostra altezza granducale doveva pur immaginare che mi sarebbe toccato fornire un nominativo all’agente».

«Non ci ho pensato, esattamente come non ci hai pensato tu» dichiarò Priscilla arrestandosi davanti al cancello, a lasciargli intendere che spettava a lui aprirlo. Fritzing eseguì, i due attraversarono il giardino ed entrarono in casa senza parlare. Priscilla andò in salotto e si lasciò cadere in una poltrona imbottita di crine, e reclinando la testa contro la sua ruvidezza si abbandonò a un sospiro affranto.

«Volete che vi mandi Annalise?» domandò Fritzing stagliandosi nel vano della porta.

«Cosa possiamo fare?» chiese Priscilla immersa in riflessioni, lo sguardo fisso sulla punta delle scarpe. «Vieni dentro, e chiudi la porta» proseguì. «Non ti stai comportando affatto come uno zio». Poi ebbe una pensata, e sollevando su di lui occhi tornati d’un tratto gioiosi disse: «E se ci mettessimo un trattino?»

«Un trattino?»

«Sì, così diventeremmo Neumann-Schultz».

«Ma certo» rispose Fritzing con il volto che andava rischiarandosi. Doveva essere davvero molto frastornato per non averci pensato lui stesso! «Farò stampare immediatamente dei biglietti da visita, e così saremo Neumann-Schultz. Vostra altezza, il vostro acume tutto femminile...»

«Fritzi, stai proprio degenerando. A Kunitz non mi avevi mai adulata. Prendiamoci il tè. Ti invito a prenderlo con me. Se lo ordini ci penserò io a servirlo, e mi eserciterò a comportarmi da nipote».

La serata proseguì in armonia; vero, un’armonia a tratti rannuvolata prima dal disappunto di Priscilla riguardo al cottage, poi da una certa insofferenza di cui fece mostra di fronte alle più vistose inefficienze della conduzione domestica di Baker’s Farm, quindi da una spiccata e ricorrente incapacità di adattarsi al nuovo ambiente. E infine, come tempesta che si addensava, Fritzing si lasciò sfuggire di aver detto che lei si chiamava Maria-Theresa. Fu questo un nembo particolarmente scuro, che imperversò minaccioso a lungo; ma che alla fine si dissipò grazie a un compromesso raggiunto dopo lunghe discussioni, in base al quale Ethel avrebbe preceduto Maria-Theresa. Prima che Priscilla andasse a letto si convenne anche che il mattino successivo, subito dopo colazione, Fritzing sarebbe andato da lady Shuttleworth, e non se ne sarebbe congedato finché non si fosse assicurato la proprietà del cottage. Da parte sua, invece, Priscilla promise solennemente di rimanere entro i confini di Baker’s Farm durante la sua assenza.