XIII.
Fu il martedì, giorno in cui Priscilla e Fritzing lasciarono Baker’s Farm per prendere possesso di Creeper Cottage, che la dea volubile che per oltre una settimana li aveva tenuti sotto il riparo della propria ala se li scrollò di dosso. Forse si era stancata della loro goffaggine nell’agire sotto mentite spoglie, forse pensò di avere già fatto abbastanza per loro, forse era una un’amante delle lettere e non le andava a genio il nome del cottage, che lasciava intendere oscure presenze striscianti; comunque sia se li scrollò di dosso. Se avessero prestato abbastanza attenzione, i due non si sarebbero insediati nella nuova casa con tali e tanti sospiri di soddisfazione, con quella piacevole sensazione che fosse cominciata l’era della tanto agognata serenità e realizzazione di sé, felicemente coniugata all’esercizio quotidiano della carità; questo perché, in attesa nel salotto di Priscilla, ben accomodata nella poltrona accanto al fuoco e intenta a scaldarsi i piedi deformi sulla piastra metallica del camino, sedeva la Cattiva Sorte, con gli occhi malevoli ridotti a fessure.
Come già detto, Creeper Cottage era formato da due abitazioni, ognuna con due camere, una soffitta e una cucina, e nel cortiletto sul retro una carbonaia, una porcilaia e la pompa dell’acqua. Grazie ai buoni uffici di Tussie, da Minehead erano arrivati altri mobili. Tussie aveva provveduto di persona, dopo che un accorto interrogatorio a cui aveva sottoposto Fritzing l’aveva reso consapevole di quanti arredi ancora occorressero. Ora c’era un letto anche per Annalise e lenzuola per tutti, e i locali erano stati resi accoglienti per quanto possibile nel breve tempo a disposizione.
L’abitazione era talmente angusta che i lavori riuscirono a concludersi, dopo estenuanti esortazioni da parte di Tussie, entro il martedì mattina. Tussie aveva sorvegliato di persona l’accatastamento della legna nella carbonaia e l’accensione del fuoco che doveva scaldare la sua divina signora, lo stesso che la Cattiva Sorte aveva trovato tanto benefico per i suoi i piedi. I cavalli degli Shuttleworth avevano trottato avanti e indietro tra Symford e Minehead per tutto il venerdì, il sabato e il lunedì; e i domestici e gli inquilini degli Shuttleworth, non essendo più ciechi degli altri, avevano visto chiaramente che il loro Augustus aveva perso la testa per quella donna sbucata dal nulla. Quanto a lady Shuttleworth, si era limitata a un sorriso malinconico e a scompigliare in silenzio i capelli del suo povero Tussie quando, dopo aver mormorato un commento a proposito di come avesse fatto stancare i cavalli, egli l’aveva biasimata ricordandole che era dovere di ognuno fare il possibile per aiutare degli stranieri in difficoltà.
Il lato di Creeper Cottage in cui stava Priscilla confinava con il cimitero; il salotto aveva una finestra coi vetri legati a piombo affacciata a sud, sulla via principale, e una esposta a ovest direttamente sul cimitero. Qui l’erba alta, i soffioni e le margherite crescevano a ridosso della casa, fin sotto la finestra, e una pietra tombale particolarmente alta bloccava in parte la visuale degli olmi e della chiesa. Sopra questa stanza, la camera da letto godeva della stessa vista romantica e un po’ tetra.
Dietro il salotto c’era ciò che un tempo era stata la cucina, al momento trasformata in stanza da bagno. Non c’era ancora acqua corrente, ma la pompa era appena fuori, e nessuno pensava sarebbe stato un problema riempire la vasca da bagno ogni mattina ricorrendo a pompa e secchi. Sopra il bagno c’era la soffitta, adibita a camera da letto di Annalise. Anche a questo riguardo nessuno pensava sarebbero sorti problemi; in effetti nessuno pensava mai a niente di niente. Era un locale semplice, come lo sono tutte le soffitte, con un lucernario nel tetto spiovente attraverso il quale, se ci si sdraiava a letto, era possibile studiare le stelle comodamente distesi. Chi fosse stato di natura frugale e animo saggio avrebbe amato quella soffitta, avrebbe ricavato un salutare piacere da quel luogo spoglio e fresco, sferzato dalle raffiche del paradiso nelle giornate di vento.
Un poeta, poi, ne avrebbe illuminato l’oscurità con la propria grandiosa luce interiore; un amante della natura avrebbe rapidamente scoperto i ragni che ne abitavano gli angoli, e trascorso ore proficue a osservarli. Annalise, invece... che se ne faceva lei di un posto del genere? Perché non è forse vero che tanto meno una persona ha dentro di sé in quanto a cultura e immaginazione, tanto più vuole vedersi circondata dalle tappezzerie della vita? Io credo di sì; e allora il vuoto mentale di Annalise può essere misurato dal fatto che ciò che chiedeva alla vita per non piangere e non torcersi le mani era un palazzo granducale pieno di cibo, salotti e servitori.
Ma né Priscilla né Fritzing avevano idea di cosa passasse per la mente di Annalise, e se anche l’avessero saputo se ne sarebbero dimenticati all’istante, tanto poco importante sarebbe parso loro. Neppure io indugerei oltre se non fosse che proprio il suo vuoto mentale e la sua pochezza determinarono importanti sconvolgimenti a Creeper Cottage, e la pietra ignorata dai costruttori, se non addirittura scartata, si comportò come si comportano a volte tali pietre, piombando sulla testa dei costruttori e schiacciandoli.
Il fatto è che Annalise non solo era incapace di apprezzare la pace, ma era anche molto abile a distruggere quella degli altri; e Priscilla voleva che il suo cottage fosse un luogo pacifico, un tempio, un luogo sacro in cui trascorrere anni ad agire con giustizia, a dedicarsi alla compassione, a camminare con umiltà. D’accordo, non aveva ancora fatto la conoscenza diretta dei suoi inconvenienti, ma aveva una teoria secondo la quale gli inconvenienti erano cose di cui ridere e in qualche modo da aggirare, cose poco importanti per le persone la cui mente è concentrata sulla realizzazione dei propri ideali. «Si può essere felici ovunque» aveva detto a Tussie il lunedì, quando lui aveva dato voce ai propri timori riguardo al futuro benessere di lei. «Assolutamente ovunque: in un mastello, in una valletta ombrosa, in cima a una colonna. Ovunque, purché la tua anima sia illuminata».
«Ma certo» esclamò Tussie, pronto a baciarle i piedi.
«E guardate com’è accogliente il mio cottage» considerò Priscilla, «se lo si paragona a un mastello».
«Sì, sì» convenne Tussie. «Capisco che per uno spirito libero è perfetto. Mi stavo solo chiedendo se... se anche il corpo lo troverebbe sufficiente».
«Oh, al diavolo il corpo» commentò Priscilla in tono leggero.
Tussie però non poteva mandare al diavolo il corpo se era quello di lei; anzi, l’infatuato giovanotto pensava che sarebbe stato difficile riservare il dovuto trattamento a qualcosa di tanto soave e prezioso. E ogni volta che tornava a casa dopo essere stato immerso nella spoglia frugalità di Creeper Cottage si ritrovava a odiare i beni superflui di casa sua; si autoaccusava a gran voce di essere tirchio, effeminato, debole e volgare; si detestava per vivere circondato da un lusso sfrenato mentre lei, creatura amabile e cara, era pronta a costringere la propria bellezza dentro a un mastello, se necessario, o lasciarla esposta agli elementi in cima a una colonna per trent’anni se così facendo avesse potuto tener viva e salvare la propria anima.
In quel periodo, Tussie non riusciva più a sopportare la visione di un domestico azzimato che si precipitava in suo aiuto mentre si toglieva il soprabito senza lasciarsi sfuggire un commento brusco; non riusciva più a stare seduto per tutta la durata di un pasto senza fare paragoni sdegnati tra ciò che stava mangiando e ciò che probabilmente stavano mangiando i più poveri; non riusciva più a salire l’ampio scalone e a percorrere i maestosi corridoi senza adombrarsi; anzi, questi ultimi avevano il potere di suscitare tutta la sua collera per il semplice motivo che le scale su cui i piedini di Priscilla dovevano arrampicarsi ogni giorno erano più simili a una scala a pioli, e che da lei i corridoi erano inesistenti. E allora? Quando portava l’attenzione di Priscilla su quel fatto, lei diceva di non capirne l’importanza.
Sia la porta d’ingresso di Fritzing che la sua si aprivano direttamente sul soggiorno; entrambe le loro scale partivano dalla cucina e portavano alle camere di sopra. Era stata loro intenzione far aprire una porta nella parete divisoria al piano terra, ma la fretta di allontanarsi da Baker’s Farm era tale che non ce n’era stato il tempo. Così, per andare da Fritzing Priscilla doveva uscire in strada, poi entrare di nuovo dalla porta d’ingresso di lui. Se avesse voluto consumare un pasto in solitudine, anche quello lo si sarebbe dovuto trasportare dalla cucina situata nella metà di Fritzing passando dal cortile sul retro oppure dalla strada.
Ogni volta che si sedeva a tavola, circondato da abili inservienti, adagiato nel lusso, come diceva tra sé, Tussie pensava a tutto questo. La madre, parecchio provata, doveva prestare ascolto ai numerosi commenti adirati ed enigmatici scagliati attraverso la tavola dal suo caro ragazzo, che era sempre stato gentile. Per di più, un giorno si era impuntato, rifiutandosi una volta per tutte, con una determinazione che l’aveva lasciata senza parole, di mangiare dell’altro cibo di primissima scelta. «È assurdo» esclamò Tussie. «Non c’è da stupirsi che io sia un tale bamboccio. Come potrei essere diverso, con lo stomaco imbottito di amido? Mi sa tanto che questa roba mi ha riempito le vene di latte, invece che di buon, onesto sangue».
«Mio caro, lo farò buttare dalla finestra» annunciò lady Shuttleworth, sorridendo coraggiosa davanti al volto scarno e imbronciato del povero Tussie. «Ma ora cosa ti darò da mangiare? So già che rifiuterai la carne».
«Fammi preparare delle lenticchie» esclamò Tussie. «Costano poco».
«Costano poco?»
«Madre, mi sembra offensivo sprecare tanto danaro per quello che ci mettiamo addosso o ci mettiamo dentro. Non potremmo avere di meno e dare il resto ai poveri?»
«Ma io do già il resto ai poveri; lo do sempre. Ce n’è in abbondanza per noi e per i poveri».
«E allora dai di più. Insomma» si stizzì Tussie, «non possiamo vivere con più modestia? Non hai mai pensato che siamo parecchio volgari?»
«No, caro. Non posso dire di averci mai pensato».
«Beh, invece lo siamo. Tutto ciò che abbiamo oltre al necessario ci rende volgari. E sono sicuro che anche tu converrai che essere volgari non è una bella cosa».
«È una cosa orribile» disse la madre indugiando a sistemargli la cravatta con immensa tenerezza.
«È difficile non esserlo, quando si è ricchi» ragionò Tussie. «Non ti è mai passato per la mente che questa casa ridicolmente grande, l’ammasso di oggetti che contiene, e tutti i nostri soldi finiranno inevitabilmente per tenerci fuori dal paradiso?»
«No, a dire il vero no. Immagino tu abbia passato del tempo a riflettere su cose quali crune di aghi e cammelli che ci passano attraverso» disse la madre senza smettere di sistemare e dare buffetti alla cravatta.
«Già, verissimo» convenne Tussie, riflettendo con aria miserevole sulle borse di denaro che l’avrebbero trascinato giù nell’oscurità. E d’un tratto aggiunse: «Ti dispiace far mettere un letto singolo – uno piccolo, di ferro – nella mia camera?»
«Un letto singolo? Ma c’è già un letto, caro».
«Quella piazza d’armi è adatta tutt’al più a una donna malata. Io sono stufo di rotolarmici dentro».
«Ma caro, in quel letto ci si sono rotolati, come dici tu, tutti i tuoi antenati. Non è un peccato non continuare le tradizioni?»
«Sii buona, mamma, e lascia che me ne distacchi. Una branda, ecco cosa vorrei. Devo dare io l’ordine o puoi farlo tu? Ah, e ti ho detto che ho licenziato Bryce?»
«Bryce? Perché, cos’ha fatto?»
«Oh, niente, che io sappia, a parte trasformarmi in una specie di bambolotto. Perché dovrei farmi vestire e svestire come se fossi ancora un poppante?»
Ora, tutto questo era decisamente spiacevole, ma per lady Shuttleworth il colpo di grazia arrivò quando Tussie dichiarò che avrebbe rifiutato la maggiore età. La faccia allegra con cui la madre era riuscita ad ascoltare gli altri atti di sfida si fece incredula; anche volendo, Tussie non avrebbe potuto non diventare maggiorenne. «Rifiutare la maggiore età?» ripeté ottusamente. «Ma mio caro, non è cosa che si possa evitare».
«Oh, so che non posso fare a meno di compiere ventun anni, e prendere possesso di tutto questo» disse agitando un braccio con aria sprezzante, «ma lo farò senza ostentazione».
«Non... non capisco» farfugliò lady Shuttleworth.
«Non voglio festeggiamenti, mamma».
«Vuoi dire che non dobbiamo invitare nessuno?»
«Assolutamente nessuno, solo gli affittuari e la gente del villaggio. Voglio che si divertano, e farò di tutto perché passino alcune ore liete. Ma non voglio né gli amici né i parenti».
«Ma Tussie, hanno già tutti accettato».
«Manda delle lettere».
«Tussie, mi stai mettendo in una posizione molto spiacevole».
«Mamma cara, mi dispiace molto. Vorrei averci pensato prima. È che l’idea mi è davvero insopportabile... il pensiero di tutta quella gente che viene qui a fingere di gioire per un essere insulso come me mi dà il voltastomaco».
«Ma tu non sei un essere insulso, Tussie».
«E la spesa, lo spreco per intrattenerli tutti... la tristezza, la noia... oh, vorrei avere solo un mastello – nient’altro che un mastello – e il fegato di vivere come Lavengro, in una valle ombrosa».
«Ma non posso bloccare tutto a questo punto» proruppe lady Shuttleworth angosciata; di Lavengro non aveva mai sentito parlare.
«Sì che puoi, madre. Scrivi e rinvia».
«Scrivere? Che cosa vuoi che scriva? Oggi è martedì, e tutti arriveranno venerdì. Che scusa vuoi che mi inventi all’ultimo momento? E com’è possibile rinviare un compleanno? Mio caro figliolo, è assolutamente impossibile». E lady Shuttleworth, sempre ragionevole e allegra, piena di risorse e molto coraggiosa, prese a torcersi le mani e scoppiò in un pianto irrefrenabile.
La visione insolita e pietosa conquistò Tussie. Per un istante restò sbigottito, ma subito dopo abbracciò forte la madre. Le promise tutto ciò che desiderava. Non riferirò le parole che le rivolse, né ciò che lei gli rispose tra i singhiozzi. Entrambi non menzionarono l’accaduto; ma per anni ripensarono alla scena, a quel prezioso momento di vicinanza, il cuore traboccante, alla vecchia guancia della madre contro quella giovane del figlio e alle lacrime di lei sul viso di lui, come a una delle esperienze più intense, dolci e struggenti della loro vita assieme.
Converranno tutti che, nella settimana trascorsa da quando aveva voltato le spalle alla sua posizione sociale per abitare tra i comuni mortali allo scopo di essere buona e dedicarsi al bene, Priscilla era riuscita a fare parecchio. Aveva portato la discordia in una canonica dove regnava da sempre la pace; infranto le speranze di una madre; causato un aspro litigio tra questa e il figlio: circondandosi di mistero, infatti, aveva esasperato nel giovane una tendenza a ficcanasare che sarebbe altrimenti rimasta latente; aveva sconvolto l’esistenza dell’amabile Tussie facendolo struggere di un amore tanto potente quanto necessariamente senza speranza; aveva reso sua madre preoccupata e infelice, e, conseguimento forse più degno di nota in assoluto, era riuscita a farla piangere.
Perché naturalmente era Priscilla la causa ultima di quelle lacrime, come lady Shuttleworth ben sapeva. Lady Shuttleworth era la seconda moglie del defunto sir Augustus, da lei sposato a quarant’anni suonati. Aveva perduto il marito subito dopo la nascita di Tussie, e al suo funerale aveva versato lacrime copiose, dopodiché non ne aveva mai più versate. Era dunque un conseguimento davvero notevole, da parte di una giovane donna sbucata dal nulla, essere riuscita a spillare lacrime da occhi rimasti asciutti per ventun anni. Ma l’elenco delle malefatte di Priscilla non finisce certo con lo scompiglio portato tra le madri. Non aveva infatti anche interrotto il rispettabile percorso verso la morte di Mrs Jones, inducendola a rincorrere il vizio? Non aveva istigato tutto il villaggio a non osservare il giorno del riposo? Non era riuscita a fare star male i suoi bambini con la pretesa di rimpinzarli di dolci? Il lunedì, un’altra sua iniziativa, seppure a fin di bene, ebbe conseguenze disastrose: andò in visita a un cottage dopo l’altro per fare amicizia con le madri dei bambini, lasciandosi dietro ovunque un piccolo dono in denaro. Il denaro era stato un tale conforto per Mrs Jones, che prima di uscire di casa aveva chiesto a Fritzing di riempirle bene il borsellino: e in ogni cottage lo stato di necessità le era balzato agli occhi così lampante che ancor prima di arrivare a metà giro il borsellino era già vuoto, e lei era dovuta tornare a casa per ricostituire le scorte.
Quel pomeriggio era estremamente felice, così come le madri a cui aveva fatto visita. Anzi, queste ultime non parlarono d’altro per tutto il giorno, discutendone al di sopra delle siepi divisorie, scambiandosi visite per paragonare le banconote, andando incontro ai mariti in tutta fretta al ritorno dal lavoro per annunciare la notizia. In un sol colpo Priscilla le aveva trasformate in qualcosa di molto simile a una torma di avide mendicanti. E nonostante Priscilla avesse ingiunto a Mrs Jones di nascondere la banconota da cinque sterline, tutta Symford ne era al corrente, così come dell’altra banconota da cinque sterline che Mrs Morrison si era portata via. A Symford non si parlava d’altro che di Priscilla. In una sola settimana aveva sconvolto quel villaggio con sovvertimenti forieri di peccato; quando il martedì lei e Fritzing si trasferirono a Creeper Cottage, erano ormai l’oggetto del più accanito interesse di tutta la regione, e il resoconto delle loro ricchezze, della loro avventatezza e della scelta eccentrica della loro dimora aveva viaggiato per valli e colline fino a Minehead, dove era diventato argomento di molti interessanti commenti sulla stampa locale.
Si insediarono nel loro cottage all’ora del tè. Le prime azioni di Priscilla furono lanciare un’esclamazione di fronte alla piacevole visione del fuoco di legna e prendere posto sulla poltrona per scaldarsi. Noi sappiamo già chi c’era lì seduta; fu così che Priscilla fu subito accolta nel grembo della Cattiva Sorte e afferrata senza via di scampo dalle dita fredde e ossute di quella sgradevole signora. Colta da un brivido, sollevò lo sguardo su Fritzing per commentare stupita come, nonostante la stanza fosse piccola e il fuoco grande, si gelasse, ma le parole le morirono in gola e lo sguardo fu calamitato da un punto della parete dietro la testa di lui. «Guarda» sussurrò, puntando l’indice terrorizzata. Fritzing si voltò rapido, e fece appena in tempo a staccare tutta una fila di ritratti a colori di poco valore appesi alla parete e metterli a faccia in giù sotto il tavolo prima che Tussie entrasse a chiedere se poteva rendersi utile.
I ritratti erano quelli di tutti i principi regnanti di Germania, ed erano stati messi in cornice e donati dal rappresentante dei mobilieri di Minehead al momento del trasloco di Priscilla e Fritzing; la stampa che aveva calamitato lo sguardo di Priscilla mostrava le sembianze, sorridenti, del suo augusto genitore. Era maestoso, con l’alta uniforme e le varie onorificenze, e c’era un destriero, e una tenda dall’aria ovviamente costosa fermata da un cordone e sullo sfondo del fumo che levava su una battaglia furiosa tra schieramenti opposti.
Al di fuori di tutta questa magnificenza, serpeggiavano gli insignificanti boccioli di rosa della tappezzeria a buon mercato di Priscilla. Date le circostanze, il sorriso di suo padre le risultò agghiacciante. Fritzing lo percepì e, afferratolo, in un impeto di disperata energia lo scagliò sotto il tavolo, da dove continuò a sorridere, come Priscilla ricordava con un brivido colpevole, a nient’altro che alla tela cerata. «Non credo riuscirò a dormire sapendo che non ha niente di meglio da fissare che la tela cerata» mormorò intimorita a Fritzing mentre Tussie varcava la soglia.
«Provvederò affinché vengano rispediti tutti indietro» la rassicurò Fritzing.
«Come, quella gente ha consegnato qualcosa di sbagliato?» domandò ansioso Tussie, che sentiva gravare sulle proprie spalle tutta la responsabilità del loro ménage.
«Oh, solo delle stampe di poco valore» si affrettò a rispondere Priscilla. «Si chiamano oleografie, o qualcosa del genere».
«Razza di impertinenti» commentò Tussie con veemenza.
«Immagino l’abbiano fatto con le migliori intenzioni, ma... preferisco le pareti disadorne».
«Li farò restituire, signore» disse Tussie a Fritzing che si passava nervoso le mani tra i capelli. La vista del suo granducale padrone che gli sorrideva, proprio lui che mai più avrebbe voluto sorridergli di nuovo, e per giunta proprio dalle pareti di Creeper Cottage, l’aveva scioccato.
«Siete molto servizievole, giovanotto» gli disse con un inchino distratto allontanandosi per riporre cappello e ombrello; Priscilla, che interpretò la visita del giovane come un cattivo presagio, suonò il campanello che nella sua sollecitudine Tussie aveva fatto mettere sul tavolino, e ordinò ad Annalise di portare il tè.
Quando il campanello l’aveva convocata giù da basso, Annalise si trovava sulla soglia della soffitta, in balia di uno stupore troppo smisurato per proferire parola. Ma si presentò davanti alla padrona con il viso composto e l’aria rispettosa di sempre, e andò da Fritzing per chiedergli dove si trovasse la servitù. «Sua altezza granducale vuole il tè» annunciò la giovane facendo la sua comparsa nel salotto di Fritzing, dove l’uomo era in piedi, concentrato sulla fattura dei mobilieri che aveva trovato sul tavolo.
«E tu portaglielo» ribatté lui con impazienza senza neppure alzare la testa.
«A chi devo dare l’ordine?» si informò Annalise.
«A chi devi dare l’ordine?» ripeté Fritzing sospendendo per un attimo l’attento esame del documento per guardarla meravigliato. In una mano teneva la fattura e nell’altra il fazzoletto che usava per asciugarsi la fronte.
«Dove trovo il cuoco?» chiese Annalise.
«Dove trovi il cuoco?» ripeté Fritzing, il cui sguardo si faceva sempre più meravigliato. «Oh, questa casa è talmente smisurata» disse con sferzante sarcasmo, «che il cuoco dev’essersi sicuramente perso. Hai guardato nella carbonaia? Potrebbe trovarsi lì».
«Herr Geheimrath, dove trovo il cuoco?» chiese Annalise sporgendo il mento.
«Nella tua stanza c’è uno specchio, Fräulein?»
«Il più piccolo che abbia mai visto. Mi ci posso specchiare solo mezza faccia alla volta».
«Allora, Fräulein, la metà faccia che vedi riflessa è la metà faccia del cuoco».
«Non capisco» disse Annalise.
«Eppure è chiaro come il sole. Il cuoco sei tu, mein liebes Kind».
Ora toccò ad Annalise fissarlo meravigliata, e per un istante, mentre Fritzing le girava le spalle e con la matita si metteva a fare addizioni sul margine del conto, restò immobile a scrutarlo col viso che virava dal bianco al rosso. «Herr Geheimrath, io non sono una cuoca» precisò infine ingoiando la propria indignazione.
«Cosa, sei ancora qui?» esclamò lui guardandola in cagnesco. «Essere insignificante, corri subito in cucina. Ti sembra bello fare aspettare la principessa?»
«Io non sono una cuoca» ribadì Annalise in tono di sfida. «Non sono stata assunta per fare la cuoca, non ho mai fatto la cuoca né mai la farò».
Fritzing lanciò il foglio sul tavolo e si avvicinò ad Annalise per guardarla dritto negli occhi con aria truce. «Non sei una cuoca?» esclamò. «Tu, una ragazza tedesca, figlia di povera gente, non ti vergogni a dire una cosa del genere? Dovresti andare a nasconderti per la vergogna. No, tu non sei né mai sarai un essere così utile, necessario e degno di rispetto come un cuoco. Te lo dico io cosa sei – te l’ho già detto una volta e ora te lo ripeto – sei una canaglia, cara la mia Fräulein. E in quegli angoli della tua miserevole natura dove non sei una canaglia, perché sono pronto a concedere che non esiste uomo o donna del tutto malvagio, ecco, negli angoli dove la tua canaglieria è intermittente, sei una totale e stupida nullità».
«Non starò ad ascoltare altro» esclamò Annalise.
«Non starò! Non farò! Non sarò! Inettitudine fatta persona, fila in cucina a cercare un po’ di saggezza tra le pentole!»
«Io non sono la schiava di nessuno» sbottò Annalise, «non sono la prigioniera di nessuno».
«Ma sentitela un po’! E chi ha mai detto che lo sei? Non ti ho forse appena detto le due vere cose che sei?»
«Però sono trattata come una prigioniera, come una schiava» singhiozzò Annalise.
«Razza di screanzata, come osi attardarti per dire sciocchezze del genere quando la tua augusta padrona aspetta il tè? Corri, sbrigati! O vuoi che ti faccia correre io?»
«Sua altezza granducale mi ha detto anche di prepararle il bagno per questa sera» lo informò Annalise.
«Bene, e allora?» esclamò Fritzing dopo avere agguantato di nuovo il conto e ripreso ad addizionare con furia. «Preparalo».
«Non vedo rubinetti».
«Donna, non ce ne sono».
«E come faccio a preparare il bagno se non ci sono rubinetti?»
«O inefficienza fatta persona! Inettitudine travestita da donna! Devo essere io a insegnarti come fare il tuo lavoro? Non hai visto la pompa? Pompa l’acqua. Riempi d’acqua i secchi. Porta i secchi... devo continuare? Possibile che non sia la natura stessa a suggerirti come si usa un secchio?»
Annalise arrossì violentemente. «Alla pompa non ci vado» dichiarò.
«Cosa, non ubbidisci agli ordini di sua altezza granducale?»
«Alla pompa non ci vado».
«Ti rifiuti di preparare il bagno?»
«Alla pompa non ci vado».
«Ti rifiuti di preparare il tè?»
«Non sono una cuoca».
«Intendi forse ribellarti?»
«Mi rifiuto di dormire in una soffitta».
«Cosa!»
«Mi rifiuto di mangiare».
«Cosa!»
«Mi rifiuto di lavorare».
«Cosa!»
«Me ne vado».
«Te ne vai?»
«Me ne vado» ripeté Annalise battendo un piede. «Esigo la mia paga, con l’aumento che mi era stato promesso, poi me ne vado».
«E dove mai vorresti andare, o ritratto dell’impudenza, in un paese la cui lingua molto fortunatamente non capisci?»
Annalise guardò dritto negli occhi furibondi di Fritzing con l’aria di sfida di chi tira fuori la carta vincente. «Dove?» esclamò con uno sprezzo agghiacciante per una persona così esile e fino a quel momento silenziosa. «Prima di tutto andrò dal giovane gentiluomo che parla la mia lingua, e gli racconterò tutto. Poi col suo aiuto me ne andrò dritta, ma dritta filata, mi avete sentito?», e qui batté di nuovo il piede, «a Lothen-Kunitz».