XVI.

Partì per Cambridge il mattino dopo. Il semestre non era ancora cominciato, ma ci andò lo stesso. Era un Robin svuotato di tutta la sua baldanza, e se in lui era rimasto ancora qualcosa di un fiero rapace, era un rapace alquanto spennacchiato. Il padre ne fu blandamente sorpreso, ma plaudì l’apparente desiderio del figlio di ritirarsi in solitudine per studiare. La madre invece rimase di stucco, e cercò con ogni mezzo di scoprire la vera ragione. Con l’occhio penetrante del genitore – occhio al quale è difficile nascondere certi stati d’animo – intuiva che era successo qualcosa, qualcosa di spiacevole, che lo rendeva pensieroso. Era ignara della sua visita a Creeper Cottage la sera prima, e poiché nel pomeriggio e a cena aveva chiacchierato e si era comportato come al solito, non riusciva a immaginare di cosa potesse trattarsi, né a spiegarsi il perché di quel suo improvviso mutismo; quanto al comportamento, si limitava a preparare bauli in tutta fretta. Decisa a interrogarlo, lo convocò nello studio subito prima della partenza e chiuse la porta.

«Devo andare, mamma» disse lui estraendo l’orologio; lei gli aveva teso molte trappole fin da dopo colazione, ma lui era sempre riuscito a evitarla.

«Robin, vorrei dirti quanto ti trovo meraviglioso».

«Meraviglioso? E perché mai? Solo un paio di giorni fa dicevi cose completamente diverse».

«Ti chiedo scusa per quanto ho detto domenica».

«Una madre non dovrebbe mai chiedere scusa» ribatté Robin avvilito.

«Neanche se è pentita?»

«No, neanche in quel caso».

«Ebbene caro, facciamo pace. Non andare via arrabbiato con me. Apprezzo molto che tu voglia partire. Sei il mio caro ragazzo». E gli mise le mani sulle spalle.

Lui estrasse di nuovo l’orologio. «Senti, devo proprio andare».

«Non pensare che una madre non veda e non capisca».

«Io non penso un bel niente. Arrivederci, mamma».

«Trovo meraviglioso che tu voglia andartene, voltare le spalle alle tentazioni, liberarti dalle spire di quella ragazza orribile».

«Spire?»

«Il mio Robin» e gli accarezzò la guancia, la stessa che Priscilla aveva schiaffeggiato, «non deve buttarsi via. Nutro grandi ambizioni per te, mio tesoro. Mi si spezzerebbe il cuore se sposassi una che non è nessuno, se non ancora peggio».

Robin la fissò con espressione indecifrabile: «Sai, mamma» disse, togliendosi le sue mani dalle spalle, colto dal desiderio di lasciarsi andare a una caustica risata, «al mondo non c’è niente di più divertente della saggezza di cui fanno mostra le persone che parlano di cose di cui non sanno nulla. Si sentono sagge in misura proporzionale alla loro ignoranza. Immagino tu ti aspetti un discorsetto divertente da parte mia. Posso dirti che non sarebbe divertente nemmeno la metà del tuo. Perderò il treno, se non mi lasci andare, e in tal caso mi ritroverei di nuovo esposto a quelle... come le hai chiamate? Ah, sì, spire. Spire!» E se ne uscì con una risata a gola spiegata. «Arrivederci mamma».

Lei lo guardò senza capire. Robin le sfiorò la fronte coi baffi e si affrettò verso la porta con una misteriosa espressione d’ilarità.

«Solo una cosa voglio dire» soggiunse infilando di nuovo dentro la testa.

Lei gli si avvicinò di un passo, piena di aspettativa. «Dimmi, tesoro mio, dimmi tutto ciò che hai in cuore».

«Oh, niente di speciale. Solo: che Dio aiuti il povero Tuss». Non aggiunse altro. Lo sentì ridere lungo il corridoio; ma molto prima che il calesse arrivasse a Ullerton, Robin aveva smesso di ridere e ripreso l’aria spennacchiata.

Nel Somersetshire quel giorno pioveva; una pioggia costante e molesta che spogliava gli alberi delle foglie prima del tempo, dando all’improvviso l’impressione che la stagione fosse molto più inoltrata. Dalle finestre di Creeper Cottage si vedevano rivoli d’acqua correre giù dal fianco della collina verso il villaggio deserto, e volute di bruma sospese sui terreni ondulati più in lontananza. Col trascorrere della giornata, la pietra tombale gocciolante davanti alla finestra di Priscilla si faceva via via più umida e scura. Nei camini il fuoco bruciava con difficoltà, era umida anche la legna. Nella luce grigia del giorno la tela cerata e la tappezzeria creavano un’atmosfera di desolazione. La pioggia si infiltrava sotto le due porte d’ingresso, formando pozze che nessuno asciugava.

Dopo una notte passata a fissare il buio, Priscilla si alzò tardi e mandò a chiamare Fritzing per riferirgli cos’aveva fatto Robin. Non sarà difficile immaginare l’orrore del pover’uomo. La sera prima, quand’era arrivato, lei era già a letto, con l’unico desiderio di essere lasciata sola con la sua collera. In salotto Fritzing aveva trovato soltanto Tussie, che stringeva tra le braccia una gigantesca latta di biscotti; in viso aveva un’espressione così tragica che Fritzing pensò fosse successo qualcosa di terribile. Tussie era tornato al cottage esultante, carico di biscotti e sardine, ma aveva trovato la ragazza in piedi presso il tavolo col viso contratto, ammutolita, gli occhi fiammeggianti. Non aveva degnato il cibo di uno sguardo, né aveva rivolto la parola a lui. Con gli occhi lo aveva sfiorato per un attimo senza vederlo, come se neppure esistesse, poi era andata nella stanza adiacente e di lì al piano di sopra, a letto. Sapeva che era andata a letto perché a Creeper Cottage si sentiva tutto.

Nel rincasare qualche minuto dopo senza la cuoca che aveva sperato di trovare, Fritzing si era rallegrato per le sardine e i biscotti – erano biscotti allo zenzero – e mentre lui mangiava, con aria distratta e tutto assieme, l’infelice Tussie era rimasto a osservarlo chiedendosi che sapore potesse mai avere quella bizzarra combinazione. Poi, dopo una colazione in tarda mattinata, Priscilla convocò Fritzing per raccontargli l’affronto di Robin. Per lui, già gravato da molte preoccupazioni e attanagliato dall’ansia, fu un gran brutto colpo. «Ho sempre disprezzato il duello, ma adesso è arrivato il momento di battermi» annunciò una volta recuperata la parola.

«Batterti? Tu? Fritzi, te l’ho detto solo perché qui mi sento priva di protezione, e tu devi tenerlo a distanza dovesse mai tentare di tornare. Ma non ti batterai. Non basta che mi abbia insultato? Dovrei pure permettergli di fare del male o uccidere il mio Fritzi? E poi in Inghilterra nessuno si sfida a duello».

«Questo è tutto da vedere. Ora vado a casa sua e lo insulto per mezz’ora. Alla fine probabilmente sarà lui ad avere voglia di sfidarmi. Potremmo andare in Francia...»

«Oh Fritzi, non dire queste cose terribili. Stai qui, lascia perdere. Nessuno deve sapere...»

«E invece ci vado, e lo insulto» ribadì Fritzing con un’inflessibilità che la ridusse al silenzio.

Un istante dopo lo vide passare davanti alla finestra, sotto l’ombrello, che camminava rapido senza badare alle pozzanghere. Aveva dipinte in volto violenza e distruzione.

Ma quando Fritzing arrivò alla canonica, Robin era già a Ullerton. Quando la domestica gli disse che era partito, lui la ignorò e insistette per essere ricevuto dal padre. E quando Mrs Morrison si offrì come sostituta del parroco, Fritzing ignorò anche lei. Con granitica ostinazione giunse infine al cospetto del brav’uomo. Fritzing credette alla partenza di Robin solo quando glielo assicurò anche il parroco. «Il mascalzone si è dato alla fuga» annunciò a Priscilla al suo ritorno. Il corpo era fradicio, ma lo spirito infiammato di ardore inestinguibile. «La vostra punizione, vostra altezza, è stata molto efficace».

«Se ne è andato? Allora dimentichiamoci di lui».

«No, vostra altezza. Ho intenzione di raggiungerlo a Cambridge. Se non mi è permesso di sfidarlo lealmente a duello e di eliminarlo con onore da un mondo che di lui ne ha più che abbastanza, allora sarò ben lieto di prenderlo a schiaffi anch’io».

Priscilla lo afferrò per entrambe le braccia. «Diamine, Fritzi, potrebbe essere lui a eliminare te da un mondo che di te non ne ha ancora avuto abbastanza. Fritzi, non puoi abbandonarmi. Non ti lascerò andare. Sono pentita di avertelo detto. Non parliamone mai più. Il solo pensiero mi risulta odioso. Io... io non riesco a sopportarlo» disse. E lo guardò dritto in viso con occhi in cui sembravano brillare le lacrime.

Com’è ovvio Fritzing rimase. Come poteva allontanarsi, anche solo per un’ora, anche solo per cercare una cuoca, quando accadevano cose del genere? Era piegato sotto il peso delle proprie responsabilità. Andò nel suo salotto e trascorse la mattina camminando avanti e indietro tra la porta che dava sulla strada e quella che si apriva sulla cucina, una falcata e mezza per andare e una e mezza per tornare, facendo ciò che tutti i malfattori presto o tardi si ritrovano a dover fare: spremersi le meningi per sfuggire alle complicazioni della vita. E di tanto in tanto l’orrore di ciò che era accaduto alla sua principessa, inavvicinabile e sotto la sua tutela, lo investiva con una nuova ondata di raccapriccio, strappandogli un gemito dalla gola.

L’aiuto cuoca degli Shuttleworth, una donna giovane e capace, sedeva in cucina ascoltando i gemiti e chiedendosi cos’altro l’aspettasse. Ce l’aveva mandata Tussie, tra tremebonde minacce di quanto gliel’avrebbe fatta vedere brutta se si fosse rifiutata. Aveva dato subito il preavviso, ma era stata ugualmente costretta ad andarci, condotta a forza a bordo di un calesse la mattina presto, sotto la pioggia, da uno stalliere che si produceva in elaborate battute a sue spese.

Era molto brava a cucinare, quasi quanto il personaggio di primo piano che era la cuoca degli Shuttleworth. Però, sapeva cucinare solo se c’era qualcosa da cucinare, e a Creeper Cottage riuscì a trovare soltanto l’avanzo dei biscotti e delle sardine. Non intendo dilungarmi al riguardo. Priscilla era riuscita a far colazione poiché la ragazza, dopo avere tentato invano di far scaturire scintille di collaborazione da Annalise, era andata al negozio e ordinato il necessario. Poi aveva rigovernato, mentre Annalise andava rapida avanti e indietro al solo scopo, in apparenza, di guardarla dall’alto in basso. Poi si sedette, domandandosi cosa l’aspettasse. Restò per un bel pezzo in attesa che qualcuno la mandasse a chiamare per darle indicazioni sul pranzo, ma nessuno si fece vivo. Le giungeva incessante il rumore dei passi nella stanza accanto, e di tanto in tanto i gemiti. La pioggia che sferzava la finestra della cucina infieriva con la stessa ostinazione di quei passi che andavano avanti e indietro, e i gemiti le davano particolarmente sui nervi.

Alla fine decise che chi gemeva a quel modo non avrebbe mai ordinato il pranzo, e che era meglio rivolgersi alla signorina. Uscì e bussò alla porta di Priscilla. La principessa sedeva in poltrona presso il fuoco, immersa in pensieri travagliati. Gettò un rapido sguardo distratto alla domestica, poi le chiese di andarsene. «Sono occupata» spiegò Priscilla con le mani posate in grembo.

«Prego, signorina, cosa desiderate per pranzo?»

«Chi siete?»

«Sono... l’aiuto cuoca su alla residenza. L’aiuto cuoca di lady Shuttleworth. Sir August desidera che oggi cucini per voi».

«Cucinate pure, grazie».

«Sì signorina. Cosa desiderate per pranzo?»

«Niente».

«Sì signorina. E il signore... non desidera niente neanche lui?»

«Quando vorrà qualcosa ve lo dirà».

«Sì signorina. Bisognerebbe saperlo un po’ prima, signorina. Non c’è niente in... casa, e bisognerebbe comprare qualcosa».

«E allora compratelo, per favore».

«Sì signorina. Se mi dite cosa piace al signore posso uscire e andare a comprarlo».

«Non so cosa gli piace. Ma non temete di inzupparvi? Mandate qualcuno».

«Sì, signorina. Chi?»

Priscilla la fissò per un istante. «Ah già...» rispose, «me n’ero dimenticata. Non c’è nessuno. Provate a domandare direttamente allo zio cosa vuole. Poi, se non vi dispiace, andate a comprare quello che serve. Mi rincresce che dobbiate uscire con questo brutto tempo».

«Non preoccupatevi, signorina».

La ragazza uscì, e per la prima volta Priscilla prese in considerazione la probabilità che d’ora in poi, per tutta la vita, avrebbe dovuto pianificare e ordinare tre pasti al giorno. Non solo; seppure in modo ancora vago, capiva che ci sarebbero state un’infinità di altre cose terribili da dover pianificare e per cui dare disposizioni. La biancheria, per esempio, doveva essere lavata. Da che parte si cominciava? E i bottoni di Fritzing: prima o poi si sarebbero staccati, richiedendo un lavoro di cucito.

Quando i suoi calzini si fossero bucati avrebbero potuto buttarli via e comprarne di nuovi, ma persino Priscilla capiva che non si poteva buttare via un intero cappotto solo perché mancava qualche bottone. Si sarebbe dunque reso necessario del lavoro di rammendo per Fritzing, e su Annalise non si poteva contare. Questo significava allora che una vita semplice era anche una vita squallida? O forse appariva semplice da lontano, a chi ne era fuori, mentre da vicino era solo una gran fatica? La colse il terrore che la sua anima, la sua anima tanto preziosa, per il cui bene aveva sfidato tutto e tutti, invece di dispiegare le ali alla luce di una vita limpida e gloriosa sarebbe morta soffocata dalle erbacce, proprio come a Kunitz.

Intanto l’aiuto cuoca degli Shuttleworth, non intralciata a ogni piè sospinto da considerazioni sulla propria anima, si era diretta da Fritzing come le era stato ordinato e gli aveva domandato cosa desiderasse per pranzo. Ora, a nessun uomo garba essere interrotto nel bel mezzo dei propri gemiti; e Fritzing, che non aveva fame ed era stato colto di sorpresa dall’apparizione improvvisa di un’estranea che gli poneva domande di natura tanto intima, una persona di cui ignorava l’esistenza tra le mura del cottage, andò su tutte le furie.

«Donna, si può sapere cosa vuoi da me?» esclamò interrompendo il suo andirivieni e affrontandola con sorprendente ferocia. «Ti sembra decente irrompere in questo modo in casa di un uomo? Non hai pudore? Né rispetto per l’altrui intimità? Vattene, te lo ordino!» E con le mani fece gli stessi movimenti con cui in genere si cacciano via le galline o altri volatili da cortile.

Per l’aiuto cuoca degli Shuttleworth, questo fu troppo. Se non avevano interesse loro, si disse. Incredula e furiosa si ritirò in cucina, si infilò cappello e impermeabile e incurante della pioggia, e delle conseguenze, si mise immediatamente in marcia per coprire i tre chilometri di sentieri fradici che la separavano da Symford Hall. Non so cosa sarebbe accaduto se Tussie l’avesse scoperta; presumo qualcosa di brutto. Ma fu salvata dal fatto che Tussie era a letto, preso per la gola da un violento raffreddore. Giaceva impotente in preda a febbre, tremori e palpitazioni, le sofferenze del corpo moltiplicate cento volte dal turbamento della mente a causa di Priscilla.

Perché si era comportata in modo tanto strano, la sera prima? si continuava a chiedere Tussie. Perché era andata a letto senza mangiar nulla? E cosa stava facendo quel giorno? L’aiuto cuoca si stava prendendo cura di lei? La stava tenendo calda e all’asciutto, dato il tempo orrendo? Aveva dormito bene la prima notte nella sua casetta? Povero Tussie. È una sciagura amare troppo qualcuno; è una sciagura, uno spreco; è paralizzante. L’universo rotola via, diventa impossibile metterlo a fuoco; tutto il mondo si riduce a un unico, meschino desiderio; ci si isola volontariamente da sentimenti più ampi e nobili; ci si avvolge in uno spesso mantello di egoismo, fuori dal quale vengono lasciati, al freddo e tremanti, le dolci, tranquille amicizie quotidiane, gli amori sani e normali, i preziosi affetti dei nostri usi e consuetudini.

La madre di Tussie era stata lasciata fuori al freddo, col cuore dilaniato. Lei, la più organizzata delle donne, non era neppure scalfita – tanto era assorta in più gravi crucci – dalla ribellione della servitù: la cuoca, al suo servizio praticamente da tutta la vita, se ne stava andando perché Tussie, prima di dover ripiegare sull’aiuto cuoca, le aveva ordinato di dirigersi all’istante a Creeper Cottage e di restarvi a tempo indefinito; l’aiuto cuoca, anch’ella una valida dipendente, se ne stava andando a sua volta; Bryce, il valletto di Tussie, che tanta cura si prendeva di lui e tanto era esperto in malattie, si era dileguato per l’indignazione. No, tutto questo non importava più. Né importava più che i festeggiamenti per la maggiore età di Tussie fossero stati gettati in un caos senza possibilità di soluzione dalla sua malattia; che bisognasse telegrafare a tutti gli ospiti per disdire; che l’intero villaggio rimanesse sbigottito di fronte a tale delusione; che tutti i progetti e i preparativi fossero stati solo fatica sprecata.

Via via che il primo giorno e poi la prima notte di influenza si trascinavano lenti, la povera madre si ritrovava sempre più in preda a un unico sentimento: il desiderio struggente, travolgente, di fare ciò che sapeva essere ormai impossibile: stringere il suo ragazzo malato tra le braccia, stringerlo forte, con mille premure e tutta la tenerezza del suo cuore, così che niente, nessun dolore, potesse trapassare lo scudo del suo abbraccio d’amore per nuocergli ancora. «Dovreste prendervi miglior cura del vostro unico figlio» fu l’arcigno commento del medico al termine della visita, quella sera. In effetti, Tussie versava in condizioni deplorevoli.

Lady Shuttleworth lo fissò a occhi sgranati, ammutolita.

«È assurdo permettergli di ridursi in questo stato. Ve l’ho già detto più volte. Non è tipo che possa giocare con la sua salute come gli altri giovanotti. Non ha grandi riserve su cui fare affidamento. Vi considero la diretta responsabile di questa malattia. Perché lo lasciate uscire di sera? Perché lasciate che si strapazzi? Siete proprio determinata a perderlo, eh?» la apostrofò. Aveva fatto nascere Tussie, ed era tanto brusco quanto competente, e in quel momento anche molto arrabbiato.

Com’era possibile dirgli la verità, e cioè che l’unica responsabile della malattia di Tussie era Priscilla? Continuò a fissarlo a occhi sgranati, ammutolita, col cuore quasi ormai del tutto infranto.