XVIII.
La Cattiva Sorte si ostinava a seguire i passi di Priscilla. Una volta entrata a Creeper Cottage, l’oscura signora non fece mancare le sue attenzioni neppure per un’ora. Pervase il luogo di un’atmosfera densa e maligna. Fritzing non poté più uscire per una boccata d’aria senza che in sua assenza si verificassero accadimenti di portata devastante. Ovviamente era stata la Cattiva Sorte a far sì che toccasse lavorare per prima al cottage proprio all’unica ragazza di Symford influenzabile dalla tentazione di ritrovarsi tra le mani una banconota da cinque sterline; se Emma fosse venuta al cottage il giorno dopo, o se la pioggia fosse continuata anche solo mezz’ora in più, trattenendo Fritzing in casa, lei, ne sono certa, si troverebbe ancora a Symford a mettere in pratica le proprie fiacche virtù sul padre o sul suo John, probabilmente ormai suo davvero. Diventò invece una ladra, un’anima smarrita, una faccia bandita per sempre dalla grazia divina.
È così che le circostanze si prendono gioco di noi, e fu così che tutta Symford si prese gioco di Priscilla. Fritzing, intanto, non sapeva niente dell’ammanco. A Priscilla non aveva mai detto nulla delle loro difficoltà finanziarie; la sua idea era tenere l’esistenza di lei sgombra da nubi nel modo più completo e duraturo possibile. Inoltre trovava inutile affrontare l’argomento con qualcuno che non avrebbe certo potuto aiutarlo. Aveva riposto il denaro nel cassetto, e la convinzione che fosse ancora lì intatto e al sicuro gli era di qualche conforto nelle notti insonni.
Il martedì mattina non accadde niente di particolare, tranne che la seconda delle venticinque domestiche continuava a rompere oggetti. Priscilla stava aiutando Fritzing a riporre i libri ordinati da Londra, e al quinto fragore di qualcosa che finiva in cocci, un fragore così potente da far tremare tutto Creeper Cottage, disse che era forse il caso di comprare nuove stoviglie.
«Sì» rispose Fritzing lanciandole un’occhiata colpevole.
Era parecchio in crisi per la mancanza di idee su come farsi arrivare il denaro dalla Germania, ma si aggrappava alla speranza che qualche altra notte insonne gli avrebbe schiarito la mente e mostrato la via; nel frattempo c’era sempre la banconota da cinque sterline nel cassetto.
«E presto avrò bisogno di nuovi vestiti, Fritzi» proseguì Priscilla spolverando i libri a mano a mano che lui glieli passava.
«Vestiti, vostra altezza?» ripeté Fritzing raddrizzando la schiena per guardarla.
«Le cose che mi hai comprato a Gerstein... beh, sono graziose, molto particolari, ma non vorrai chiamarle vestiti. Le conserverò, le farò mettere in una bacheca e le terrò sempre accanto a me quando torneremo a vivere felici».
«Torneremo a vivere felici, vostra altezza?»
«Sì, intendevo dire di nuovo ben sistemati» rettificò subito Priscilla. Spolverò i libri in silenzio per qualche momento, poi cominciò ad allinearli sugli scaffali.
«Sarà meglio che scriva a Parigi» disse poi.
Fritzing sussultò. «Parigi, vostra altezza?»
«Sì, lì hanno le mie misure. Questo vestito non durerà ancora per molto. In pratica non me lo sono mai tolto. E l’acquazzone che ha preso ieri non gli ha certo giovato. Tu non fai caso a queste cose, ma se ci facessi caso probabilmente ne vedresti la gravità».
«Vostra altezza, se scrivete a Parigi dovete dare il vostro vero nome, il che è impossibile. E loro non spediranno un bel niente in Inghilterra, non conoscono nessuna cliente di nome Neumann-Schultz».
«Già, però assieme all’ordine potremo spedire anche i soldi. Ecco la soluzione».
«Sì, certo» rispose Fritzing con voce distorta dall’esasperazione; e subito aggiunse, con stizza: «Posso chiedere a vostra altezza granducale di avere la bontà di non mettere il mio Eschilo, un’edizione pregiatissima, a testa in giù sullo scaffale? Di solito solo le cameriere e simili individui ignoranti trattano i libri in questo modo. Mentre voi, altezza, siete stata da me addestrata, così confido, a trattare in ben altri e più riverenti modi ciò che ci hanno lasciato i grandi spiriti del passato».
«Scusami» disse Priscilla girando rapidamente Eschilo per il verso giusto; e lanciandosi in una lunga e amareggiata dissertazione sull’abitudine delle persone senza levatura intellettuale di maltrattare i libri, Fritzing riuscì a darsi una calmata e almeno per il momento a riportare l’attenzione di Priscilla su argomenti meno irti di complicazioni che non i vestiti parigini.
Verso le due e mezza erano ancora seduti a tavola davanti alle uova e al pane e burro che Priscilla ordinava tre volte al giorno e che Fritzing mangiava con incondizionata obbedienza, quando la carrozza degli Shuttleworth si fermò davanti al cottage e ne emerse lady Shuttleworth. Fritzing, uomo di grande educazione, si fece rapidamente incontro alla donna, allontanando il valletto e offrendole il braccio. Ne ricevette un’occhiata distratta, e si sentì chiedere se sua nipote fosse in casa.
«Certo» rispose Fritzing conducendola nel salotto di Priscilla. «Devo chiederle se vuole ricevervi?»
«Sì» rispose lady Shuttleworth apparentemente senza badare alla bizzarria della domanda. «Tussie non sta bene» annunciò a Priscilla quando questa apparve. Pur guardandola dritto in viso sembrava non vederla, ma guardare oltre, come se lei fosse trasparente, mentre le labbra recitavano una lezione a memoria.
«Davvero? Mi dispiace» replicò Priscilla.
«Ha preso freddo domenica scorsa alla vostra festa. Non avrebbe dovuto fare la gara di corsa con i ragazzini. Lui non è... molto resistente».
Priscilla la fissò con aria interrogativa. Il viso dell’anziana signora era calmo e composto, ma le ultime parole erano state pronunciate con una certa esitazione.
«E allora perché lo ha fatto?» chiese Priscilla, vagamente a disagio.
«Già, mia cara... perché? Dovreste dirmelo voi».
«Io?»
«Martedì sera» riprese lady Shuttleworth, «quando è uscito di casa per venire qui stava già male. Ma ha voluto uscire a tutti i costi. C’era un tempo terribile, non certo adatto all’uscita di un ragazzo cagionevole come lui. E da quanto ho capito non è rimasto qui. È andato in giro per comprare qualcosa dopo l’orario di chiusura, vagando un’infinità di tempo per cercare di svegliare i proprietari del negozio».
«Sì» rispose Priscilla con una fitta di rimorso. «Io... è colpa mia. L’ha fatto per me».
«Sì, mia cara. Da allora è ammalato. Sono venuta a chiedervi di venire da me per... per convincerlo che siete felice. È molto... preoccupato».
«Preoccupato?»
«Teme che siate infelice. Sapete» aggiunse con un sorriso tremulo, «Tussie è molto gentile, molto altruista. Si carica sulle spalle i fardelli di tutti. Lo perseguita l’idea che la vostra vita sia insopportabilmente scomoda, e si angustia perché non può venire a mettere a posto le cose di persona. Così pensavo che se vi vedesse allegra e sorridente, mia cara, forse potrebbe farcela».
«Forse potrebbe farcela?» ripeté Priscilla. «È così grave?»
Lady Shuttleworth le scoccò un’occhiata e non rispose.
«Vengo subito» assentì Priscilla. E suonò il campanello.
«Ma non dovete avere l’aria infelice» disse lady Shuttleworth posando la mano sul braccio della ragazza, «perché altrimenti rendereste le cose cento volte peggiori. Dovete promettermi di mostrarvi il più possibile spensierata».
«Sì, sì, lo farò» promise Priscilla mentre il cuore le sprofondava in petto al pensiero di essere la causa delle sofferenze del povero Tussie. Ma lo era poi davvero? si chiese durante il tragitto. Cosa aveva fatto, se non accettare un aiuto offerto con spontaneo entusiasmo? Non poteva esserci niente di male. Non faceva altro da quand’era nata, e quando permetteva alle persone di essere servizievoli loro erano felici, e di certo non si ammalavano subito dopo. E allora questo significava che non bisognava permettere agli altri di fare qualcosa per te, altrimenti, se finivano per bagnarsi i piedi o cose del genere, i loro malanni sarebbero stati tua responsabilità? Era dispiaciuta per la malattia di Tussie, molto. Era talmente buono e gentile che non poteva non piacere. E difatti a lei piaceva. Le piaceva come tanti altri, forse anche di più. «Siete molto infelice, temo» disse all’improvviso a lady Shuttleworth, colpita dall’espressione del viso della donna, appoggiata all’indietro nel suo cantuccio.
«Non so più a che santi votarmi» fu la risposta di lady Shuttleworth. «Mi chiedo, per esempio, se io non stia facendo un grosso errore».
«Perché, cosa state facendo?»
«Vi sto portando da Tussie».
«Oh, ma vi prometto di essere allegra. Gli dirò che siamo sistemati a meraviglia. E potrà constatare di persona quanto io sia ben accudita».
«Eppure temo ugualmente che possa... che possa...»
«Vi assicuro che abbiamo ogni comfort. Se ne renderà conto anche lui. Pensate, ho reclutato venticinque cuoche».
«Venticinque cuoche?» ripeté lady Shuttleworth guardandola a occhi sgranati, dimentica dei suoi dispiaceri. «Ma allora la nostra aiuto cuoca...?»
«Oh, se n’è andata quasi subito. Non riusciva a sopportare lo zio. All’inizio è dura abituarsi a lui. Bisogna conoscerlo bene e a lungo prima di affezionarcisi. Ma credo che un’aiuto cuoca non abbia particolare interesse a farlo».
«Ma mia cara, venticinque cuoche?»
Priscilla le spiegò il perché e il percome fossero arrivati a quel numero. Lady Shuttleworth, consapevole dell’ordine regnato fino a quel momento nel villaggio e del basso livello dei salari, pensò di non avere mai conosciuto una ragazza votata a combinare guai come Priscilla. Ma il pensiero non impedì a un tenue raggio di divertimento di penetrare il suo animo nero come l’inchiostro.
Quando lady Shuttleworth, toltasi il cappellino ed eliminata qualunque traccia rivelatrice della sua uscita, entrò in camera del figlio per dirgli che al piano di sotto c’era Miss Neumann-Schultz, questi era seduto a letto sostenuto da numerosi cuscini, e respirava a fatica.
«Di sotto? Qui? In questa casa?» esclamò Tussie col fiato mozzo.
«Sì. È... venuta a trovarti. Vuoi che la faccia salire?»
«Oh, mamma!»
Lady Shuttleworth si precipitò fuori dalla stanza. Come poteva sopportarlo? si chiese incespicando, forse per la visione leggermente sfocata dalle lacrime. Scese da basso con l’eco di quell’«Oh, mamma!» che le pulsava nelle orecchie.
La temperatura di Tussie, già elevata, nei pochi minuti di attesa si alzò ulteriormente. Il giovane ordinò all’infermiera di sistemare una sedia comoda nel punto esatto da lui indicato, di sprimacciare i cuscini e nascondere le boccette dei medicinali. Poi si accertò che la veste da camera di flanella che era costretto a indossare quand’era malato, dell’azzurro più intenso mai visto, gli venisse ben sistemata sopra il petto scarno.
L’infermiera lo guardava con disapprovazione. Non le piaceva che i suoi pazienti fossero felici. Forse non aveva tutti i torti. Penso infatti sia sempre meglio essere attenti e cauti, risparmiare le forze, dimostrarsi assolutamente prudenti e mortalmente grigi. Proprio come si deve evitare il veleno, bisognerebbe evitare di fare ciò che i poeti definiscono vivere troppo alla grande. Chi è davvero prudente non vive mai alla grande, e non dovreste farlo neppure voi, se non volete correre rischi.
La ricompensa è assicurata, mi dicono: si vive più a lungo; si guadagna, cioè, qualche anno in più di quelli che si raggruppano verso la fine, anni in cui sei imboccato, trasportato e lavato da persone perlopiù brontolone. Chi vuole essere una fiamma, destinata a essere spenta dallo stesso soffio di vento che un tempo l’ha ravvivata fino al suo massimo splendore? Ma se non sei una fiamma niente potrà mai spegnerti. Il vento che soffia non ti fa guizzare. Le tempeste passano oltre lasciandoti illeso. E se poi hai il dono di essere particolarmente tronfio e insensibile vivrai fino a novant’anni, e neppure uno spiffero potrà scalfirti.
Priscilla salì da lui talmente decisa a mostrarsi allegra che cominciò a sorridere ancor prima di varcare la soglia. «Sono venuta a dirvi che ci siamo sistemati splendidamente, giù al cottage» esordì prendendo la mano esile e bollente di Tussie. Esteriormente il sorriso le aleggiava ancora sulle labbra, ma interiormente si era spento all’istante, tanto strano e malconcio sembrava il giovane.
«Davvero? Sul serio?» disse Tussie in un rantolo nel posare l’altra mano esile e bollente su quella di lei, assorbendone tutta la frescura.
La disapprovazione dell’infermiera si accentuò. Non le risultava che sir Augustus avesse una fidanzata, ma se anche l’avesse avuta il momento non era dei più adatti per le smancerie. Anche a lei non era passato inosservato il tono con cui lui aveva esclamato «Oh, mamma!», e bastava guardarlo negli occhi per capire che la febbre si era alzata. Chi era quella giovane donna trasandata? Era sicura che nessuna tanto trasandata potesse essere la fidanzata di sir Augustus, per cui giunse alla conclusione che lady Shuttleworth fosse ammattita.
«Infermiera, starò qui io per un po’» annunciò lady Shuttleworth. «Vi chiamerò quando avremo bisogno».
«Ma signora, sir Augustus non dovrebbe...» esordì l’altra.
«Non lo farà, state tranquilla. Andate pure a riposare un poco».
L’infermiera dovette andare. Di solito la gente andava, se era lady Shuttleworth a ordinarlo.
«Sedetevi... no, anzi, state un attimo così, se non siete stanca. Siete venuta a piedi?» chiese Tussie. Ansimava; il respiro era corto e poco profondo.
«Temo siate molto malato» disse Priscilla lasciando la propria mano tra le sue e abbassando su di lui un viso che nessuno sforzo avrebbe potuto rendere sorridente.
«Oh, guarirò presto. Come siete stata gentile a venire. Non avete più patito la fame dopo quella volta?»
«No, no» rispose Priscilla accarezzandogli le mani con la mano libera e dando loro dei colpetti incoraggianti, come si farebbe con un bambino malato.
«Dite sul serio? Da allora non ho pensato ad altro. Ho sempre avuto davanti agli occhi la faccia che avevate quella sera. Cos’è successo? Cos’è successo mentre ero fuori?»
«Niente, assolutamente niente» si affrettò a rispondere Priscilla. «Ero stanca. Avevo la luna storta. Mi capita, sapete. Mi arrabbio facilmente. Poi preferisco stare da sola finché mi passa».
«Ma che cosa vi ha fatto arrabbiare? Ho forse sbagliato...?»
«No, mai. Siete sempre stato buono e gentile con noi. Fin da quando siamo arrivati siete stato il nostro angelo custode».
Tussie se ne uscì in una risata stridula, che subito si trasformò in un attacco di tosse. Lady Shuttleworth stava ai piedi del letto e lo osservava con un viso da cui ogni gioia sembrava essersi dileguata per sempre. Priscilla si sentiva sempre più infelice e in trappola, costretta a stare lì in piedi ad accarezzargli le mani, senza sapere bene cosa dire.
«Oh, davvero un bell’angelo custode» si schermì Tussie ansante quando gli fu di nuovo possibile parlare. «Guardate come sono ridotto, e costretto a letto per chissà quanto tempo, senza poter fare niente per voi».
«Ma non c’è niente da fare. Ora siamo ben sistemati. Davvero. Dovete credermi».
«Siete solo ben sistemata o anche felice?»
«Oh, siamo molto felici» affermò Priscilla con tutta l’enfasi che riuscì a mettere nella voce; e di nuovo, senza molto successo, provò a costringere le labbra a sorridere.
«Ma allora, se siete felice, perché avete quest’aria afflitta?»
Fissava il viso di lei con occhi ardenti e lucidi: l’infermiera si sarebbe spaventata. Ora in Tussie non c’era più traccia di timidezza. Del resto, di rado chi ha quaranta di febbre è timido.
«Afflitta?» ripeté Priscilla. Cercò di sorridere; guardò lady Shuttleworth con aria impotente; abbassò di nuovo lo sguardo su Tussie. «Perché siete malato, ed è tutta colpa mia» balbettò in risposta; e con suo orrore e immensa vergogna due lacrime, grosse e impossibili da nascondere, le rotolarono giù per le guance atterrando sulle loro mani allacciate.
Tussie si sforzò di tirarsi a sedere dritto. «Guarda, mamma, guarda» esclamò ansante, «la mia bella Ethel, la mia bella, incantevole Ethel sta piangendo... e sono stato io a farla piangere. Ora non potrai più negare che sono un bruto... guarda, guarda cos’ho fatto!»
«Oh» mormorò Priscilla in preda all’angoscia e allo stupore. Che il poverino stesse delirando? E cercò di sottrarre le mani.
Ma Tussie non aveva intenzione di lasciarle andare. Le teneva tra le sue in una morsa che sembrava di ferro rovente; si chinò verso di esse e prese a coprirle di baci appassionati.
Lady Shuttleworth era inorridita. «Tussie, lascia andare Miss Neumann-Schultz. Adesso devi stare tranquillo. Lasciala andare, caro. Magari... tornerà un’altra volta» disse con calma.
«Oh, mamma, lasciami in pace» esclamò il ragazzo, adagiandosi sui cuscini col viso appoggiato alle mani di Priscilla. «Che cosa ne sai tu? Questo è il mio tesoro... mia moglie... il sogno del mio spirito... la stella della mia anima...»
«Adesso basta!» esclamò lady Shuttleworth avvicinandosi al capezzale con tutta la velocità consentitale dalle gambe tremanti.
«Sì, sì, vieni qui, se vuoi, mamma. Vieni vicino, ascolta mentre le dico quanto l’amo. Non mi importa se mi sentono. Perché dovrebbe? Se non fossi malato mi importerebbe. Sarei muto per la timidezza, lo sarei stato per sempre. Oh, ringrazio di essere malato, sì, perché sono libero di dire tutto quello che voglio, tutto...»
«Tussie, non dirlo» lo supplicò la madre. «Meno dirai ora tanto più riconoscente sarai in futuro. Lasciala andare».
«Ma sentila!» esclamò Tussie smettendo un attimo di baciarle le mani per guardare in faccia Priscilla e sorridere con una sorta di compassionevole stupore. «Lasciarti andare! È forse possibile lasciare andare la vita? La propria speranza di salvezza? Il proprio prezioso istante di perfetta felicità? Quando sarò guarito tornerò debole e stupido come sempre, un timido pagliaccio, incapace di parlare...»
«Ma è uno stato di grazia» balbettò la povera Priscilla.
«Cosa, amarvi?»
«No, no, non poter parlare. È sempre meglio...»
«No, non lo è. È sempre meglio essere sinceri con sé stessi, mostrare onestamente i propri sentimenti, come sto facendo ora. Sì, come sto facendo ora...» E riprese a baciarle le mani.
«Tussie, questo non è parlare con onestà» disse lady Shuttleworth in tono severo. «È parlare nel delirio della febbre».
«Sentila! Si è mai visto un uomo venire interrotto in questo modo proprio mentre fa la sua proposta di matrimonio a una ragazza?»
«Tussie!» proruppe lady Shuttleworth.
«Ethel, vuoi sposarmi? Ti amo tanto. È una ragione assurda, la più meravigliosamente assurda delle ragioni, ma so che è l’unica per cui tu potresti...»
Priscilla ne fu molto scossa e colpita: scossa per la pietà, colpita dai rimorsi. Costernata, abbassò lo sguardo su di lui intento a baciarle le mani con amore disperato, travolgente. Cosa doveva fare? Lady Shuttleworth cercò di tirarla via. Cosa doveva fare? Se Tussie traboccava d’amore, lei traboccava di pietà.
«Ethel, Ethel...» articolava Tussie col fiato corto baciandole le mani, poi sollevando su lei lo sguardo, quindi riprendendo a baciargliele.
Priscilla fu travolta dalla compassione. Chinò il capo, e per un istante posò la sua guancia sull’assurda veste da camera di flanella di Tussie con espressione tenera, dolente.
«Ethel, Ethel, vuoi sposarmi?»
«Caro Tussie» rispose con un tremulo bisbiglio, «prometto che ti darò una risposta non appena sarai guarito. Ma non ancora. Non adesso. Prima devi ristabilirti. Poi, se vorrai ancora una risposta, te la darò. Lo prometto. Ora lasciami andare».
«Ethel» la implorò Tussie guardandola con occhi supplici. «Mi daresti un bacio? Solo uno... per aiutarmi a vivere...»
Mossa dal desiderio di offrire conforto, si chinò di nuovo e gli diede un bacio, un bacio misurato, quasi cauto, sulla fronte.
Tussie lasciò andare le mani di lei e si reclinò sui cuscini in uno stato di assoluta beatitudine. Chiuse gli occhi e rimase immobile mentre lei scivolava silenziosa fuori dalla stanza.
«Cos’avete fatto?» esclamò lady Shuttleworth tremante una volta fuori portata d’orecchi in corridoio, e con la porta ben chiusa dietro di loro.
«Non so... non so capacitarmi» gemette Priscilla torcendosi le mani. E appoggiandosi alla balaustra, lì, sotto gli occhi di tutti scoppiò in un pianto amaro e irrefrenabile.