XXI.
Ed eccomi giunta a quella parte della storia che preferirei di gran lunga non scrivere. Potendo fare di testa mia, propenderei per stare seduta al sole a celebrare i crochi, o comunque nulla di meno fresco e puro dei crochi. L’attraente vivacità dei crochi; il loro profumo lieve e caro, destinato a pochi privilegiati; la loro luminosa trasparenza – penso in particolar modo a quelli bianchi e viola; la loro gentilezza nel non far attendere i cuori che anelano alla primavera più di quanto possano sopportare; la gioia di sedere con un’amica al sole, un’amica a cui come me piace chiacchierare di campi verdi, e parlare di tutto ciò che fiorisce. Ma la storia di Priscilla mi ha talmente catturata, tanto mi è sembrata, fin dal primo momento che l’ho sentita, piena di insegnamenti, che mi sento in dovere di metterla per iscritto dall’inizio alla fine a uso e monito di tutte le persone, principesse e non, convinte che andando in cerca, andando lontano, troveranno la felicità, e non si accorgono che la felicità è sempre stata lì ai loro piedi. Non la vedono perché è troppo vicina. Talmente vicina che corrono il rischio di calpestarla o allontanarla con un calcio. Mentre la felicità è timida, e aspetta di essere raccolta. Come sappiamo, Priscilla andò lontano per cercarla, e poiché mi sono ormai impegnata a raccontare cosa le accadde, ora non devo tacere parte della storia solo perché così mi aggraderebbe. Oltretutto è una parte fondamentale per la catastrofe.
Ebbene, a quel tempo a Minehead viveva un assassino. Non era ancora stato scoperto, e non era un assassino di professione; era un muratore. Ma lo era nel cuore, il che è ugualmente grave. Aveva fatto svariati lavori, nei cui dettagli non intendo addentrarmi; tre o quattro anni prima si era stabilito nell’ovest dell’Inghilterra perché lontano da tutti gli altri luoghi in cui era vissuto; aveva trovato un lavoro a Minehead, si era creato una reputazione rispettabile, si era sposato e aveva fatto amicizia con l’uomo delle consegne che tutti i giorni portava il pane e gli altri generi alimentari al negozio di Symford. All’epoca si trovava in difficoltà finanziarie, e la moglie, alla quale voleva un gran bene, era malata e aveva bisogno di cure costose.
Come già detto, i resoconti sulla generosità e la ricchezza di Priscilla avevano raggiunto Minehead tempo prima, finendo persino sulla stampa locale. L’uomo delle consegne era il più importante latore di notizie poiché ogni giorno vedeva Mrs Vickerton, una donna dalla lingua sciolta; ma anche i domestici degli Shuttleworth, spesso a Minehead per varie commissioni, avallavano e integravano ciò che lei raccontava, abbellendo la storia con quella che ai loro occhi era la parte più importante: i segni inequivocabili che il loro Augustus voleva sposare la ragazza. Ma questo non interessava all’assassino. Sir Augustus e la donna che voleva sposare non rientravano nella sua sfera di interesse: persone troppo ben protette, troppo potenti.
Il suo interesse, invece, andava nella direzione del denaro che Priscilla aveva distribuito tra i paesani: quanto di preciso aveva ricevuto ogni donna, se era stato speso o meno, se questa aveva un marito o dei figli cresciuti; soprattutto voleva sapere del denaro dato a Mrs Jones. In paese tutti, compresi Mrs Vickerton e l’uomo delle consegne, ne erano al corrente, conoscevano addirittura il punto esatto sotto il capezzale dov’era nascosto, sapevano che era stato messo lì affinché non fosse depredato dalla moglie del parroco, che già si era portata via la prima banconota donata da Priscilla. L’uomo delle consegne conosceva l’età di Mrs Jones, e sapeva quanto fosse debole e prossima alla fine. Osservò che una somma del genere non sarebbe sicuramente servita molto a una vecchia che si sarebbe spenta nel giro di qualche giorno, e che averla o meno non avrebbe fatto molta differenza, per lei che non aveva modo di godersela. L’assassino, la cui reputazione a Minehead era così immacolata che nessuno avrebbe osato fiatare al suo riguardo, replicò con amabilità che sicuramente la sola idea di possederla le dava gioia, e non bisognava negare a un anziano le sue piccole consolazioni; poi però quella notte andò a piedi a Symford, arrivando verso l’una, e uccise Mrs Jones. Non entrerò nei dettagli. Penso gli sia stato estremamente facile. Alle sei del mattino dopo era di ritorno con le cinque sterline in tasca, e quel giorno, a cena, la moglie mangiò carne.
Dell’assassino non voglio aggiungere altro, solo che non fu mai scoperto; e nulla potrà indurmi a soffermarmi sull’omicidio. Ma quale fu l’effetto su Priscilla? Ne fu annientata.
Il giorno prima, dopo la visita di Mrs Morrison, si sentiva già infelice, e aveva trascorso gran parte della giornata camminando a passo spedito, come fanno le anime in pena, per chilometri e chilometri nella brughiera tetra e ventosa assieme a Fritzing, l’attimo prima pronta ad ammettere i suoi spregevoli peccati, quello dopo ripudiando indignata le accuse di Mrs Morrison e della propria coscienza, con l’animo piegato e sferzato dal vento dei cattivi presentimenti ma ancora ben ritto sulle sue gambe, ancora battagliero, ancora in grado di trovare rifugio, quando possibile, dietro al sano buon senso che di tanto in tanto sussurrava che l’accaduto era imputabile unicamente alla sfortuna.
Quel giorno coprirono parecchi chilometri, il loro silenzio talvolta interrotto dalle impetuose raffiche di parole che i cambiamenti di umore di Priscilla scagliavano sullo sfondo plumbeo della disperazione di Fritzing. Rincasarono stanchi, affamati, con gli abiti inzaccherati, la mente non molto più illuminata rispetto a quando erano partiti. Come detto, Priscilla era già infelice. Ma l’infelicità che provava era nulla in confronto a quella che seguì. Nella sua ignoranza ritenne quel giorno il giorno peggiore in assoluto, il più tormentato; e quando andò a letto cercò di consolarsi col pensiero che era ormai finito e non sarebbe mai più potuto tornare. Ma il Tempo è prodigo di sorprese, e il sabato mattina Symford si svegliò sbigottita alla notizia dell’assassinio di Mrs Jones.
In quella zona del Somersetshire un fatto di tale portata non accadeva a memoria d’uomo, e per quanto Symford ne fosse agghiacciata si sentiva anche orgogliosa e compiaciuta. La ridda dei sentimenti contrastanti di orrore, compiacimento e orgoglio era elettrizzante. Il paesino si sentì subito innalzato alla ribalta; il suo nome sarebbe stato su ogni bocca; i giornali, forse persino quelli di Londra, ne avrebbero parlato. Da sempre, a dispetto degli sforzi di guida morale di clero e piccola nobiltà, parlare di omicidi dava a Symford un piacere più inebriante di qualunque altra forma di intrattenimento; ed ecco che ora gliene si presentava uno, e non uno di seconda mano da osservare attraverso la stampa e le immagini, ma nel suo seno, davanti ai suoi occhi, sulla soglia delle sue case. Mrs Jones salì incredibilmente nella stima della comunità. Erano tutti onorati di averla conosciuta. Quel giorno nessuno andò al lavoro. La scuola rimase deserta. Le donne non cucinarono il pranzo. I piccini strillarono inaccuditi. Tutta Symford era riunita in capannelli davanti al cottage di Mrs Jones, e via via che il giorno passava e la notizia si diffondeva, arrivavano curiosi provvisti di panini imbottiti dai paesini vicini, da Minehead e da Ullteron, e i capannelli non smettevano d’ingrossare.
Priscilla osservava gli assembramenti dalla finestra. Il fatidico cottage sorgeva ai piedi della collina, in piena vista sia dalla camera da letto che dal salotto. Per evitare di vederlo non le rimaneva che restare seduta in bagno. Quando, la mattina presto, una Annalise pallida e ansante le portò la notizia assieme all’acqua calda, Priscilla si rifiutò di crederci. Annalise non sapeva l’inglese, e doveva avere preso fischi per fiaschi riguardo a chissà quale storia orribilmente storpiata.
La vecchia era senz’altro morta, ma tranquillamente, nel sonno, come c’era da aspettarsi. Cos’era quell’assurdo blaterare di omicidio? Si tirò comunque a sedere sul letto, colta da un brivido, perché Annalise era molto pallida. Alla fine però dovette crederci. Con l’aiuto di gesti, Annalise si era fatta raccontare tutto dalla donna delle pulizie, punto per punto. Aveva imparato più inglese in quei pochi minuti color rosso sangue che da quando era in Inghilterra. La donna delle pulizie aveva cominciato la dimostrazione facendo scorrere lentamente un dito attraverso la gola, da un orecchio all’altro, gesto che Annalise ripeté a Priscilla per maggior chiarezza. Priscilla non sapeva com’era riuscita a scendere dal letto e a vestirsi, quel giorno. Almeno una volta, nel compiere quelle operazioni, si era ributtata giù, il viso affondato tra le mani, scossa da un pianto irrefrenabile. Oh, quell’elemosina fatale; quelle maledette cinque sterline! Annalise, presa dal panico per il timore di essere la prossima vittima, tirò fuori tutta la storia dei soldi mancanti, del chiaro movente dell’assassinio, con una capacità di persuasione, una verosimiglianza nell’esposizione da pugnalare Priscilla al cuore con ogni parola.
«Dicono che la vecchia debba aver gridato, dev’essersi svegliata, altrimenti l’uomo avrebbe preso i soldi senza...»
«Oh, smettila... vattene...» gemette Priscilla.
Quel giorno non scese al piano di sotto. Ogni volta che Annalise cercava di entrare la mandava via. Quando le parlava di mangiare le veniva il voltastomaco. A un certo punto, prese a camminare avanti e indietro per la stanza, ma la vista giù in strada di quei neri raggruppamenti di persone, di poliziotti e di altre personalità dall’aria ufficiale con i loro andirivieni dentro e fuori dal cottage la indussero a tornare nel letto e al cuscino in cui trovare rifugio e isolamento dal mondo. Le acque della vita l’avevano travolta e risucchiata in neri gorghi di disperazione. Riconobbe di essere in errore. Si arrese completamente. Ogni parola pronunciata da Mrs Morrison – una donna orribile, ma mille volte migliore di lei – ogni sua parola, ogni parola offensiva che tanto l’aveva indignata il mattino prima, era vera, era giustificata. Quel giorno Priscilla strappò via dal proprio animo gli ultimi brandelli di autocompiacimento, e restò a fissarli con occhi colmi di orrore come cose ripugnanti, pericolose, malvagie.
Che ne sarebbe stato di lei, e del povero Fritzing, trascinato nella stessa infelicità? Verso l’una le giunse da sotto la voce di Mrs Morrison; sembrava stesse litigando con Fritzing. Priscilla stava ancora piangendo. Erano lacrime amare, brucianti; le lacrime disperate che seguono l’annientarsi di ogni speranza, che bagnano, calde e mortificanti, le rovine di ciò che un tempo era il faro glorioso di un ideale. Era caduta così in basso, si sentiva talmente mortificata e insicura, che scendere da Mrs Morrison e riconoscere la propria spregevolezza le avrebbe ridato la pace; dirle quanto si fosse sbagliata, chiederle perdono per essere stata sgarbata, implorarne la pietà, l’aiuto, il consiglio.
Aveva bisogno di una donna gentile e matura, oh, sì, una donna gentile e matura che tendesse le sue mani fresche e sagge per mostrarle la via. Lei, però, dal canto suo, avrebbe dovuto dare completa confessione di tutto quello che aveva fatto: e come avrebbe reagito Mrs Morrison, o qualunque altra donna per bene, davanti alla sua fuga dalla casa paterna? Non le avrebbe voltato le spalle rabbrividendo per via di ciò che ora capiva essere stata un’orrenda ingratitudine e un profondo egoismo? Al piano di sotto i toni dell’alterco si facevano più accesi. E alla fine le voci erano così concitate che persino attraverso il cuscino Priscilla poté udire l’infuocata conclusione.
«Egregio, vi dico che vostra nipote è a tutti gli effetti un’assassina, una doppia assassina» gridò Mrs Morrison. «Sulla coscienza non ha solo l’omicidio della donna, ma anche l’animo corrotto del colpevole».
La risposta fu un’esclamazione gridata: «Fuori! Fuori!» e la porta d’ingresso sbattuta con violenza.
Per qualche tempo dopo questa scena Priscilla udì un camminare febbrile in salotto e il suono di quelle che sembravano imprecazioni soffocate; poi, una volta divenute più intermittenti, passi cauti che salivano le scale, così cauti e decisi a non disturbare che le scale scricchiolavano e stridevano più di quanto avessero mai fatto. Arrivati in cima si fermarono davanti alla porta, e Priscilla, tenendo sotto controllo i singhiozzi, intuì la presenza di Fritzing che, lì fuori, lottava con sé stesso per respirare senza far rumore. Rimase lì per quella che a Priscilla parve un’eternità. Mentre i minuti passavano, consapevole dell’altro ancora fuori dalla porta, immobile, in ascolto, Priscilla si trovò quasi a gridare. Dopo un bel pezzo Fritzing se ne andò con la stessa ansiosa attenzione a non fare rumore; lei, abbandonandosi al più totale sconforto, si girò sulla schiena e pianse fino ad avere la nausea.
Giacque sul letto fino a sera, quando udì di nuovo i passi, ora accompagnati dal tintinnio di cucchiai e stoviglie. Si sedette presso la finestra affacciata sul cimitero, e fissò il cielo buio con le poche, deboli stelle. Quando capì che lui era ancora fuori dalla porta in preoccupato silenzio, si alzò e andò ad aprirgli.
Fritzing teneva un piatto con del cibo in una mano e un bicchiere di latte nell’altra. Assurdamente, aveva in viso la stessa espressione di una madre che si strugge per il proprio figlio malato. «Mein liebes Kind... mein liebes Kind» balbettò quando lei emerse dalla stanza desolata, distrutta e incredibilmente diversa da qualunque altra Priscilla mai vista, e in uno stato d’animo diverso da qualunque altro mai conosciuto. Aveva gli occhi rossi, le palpebre gonfie, il viso chiazzato e come più scarno, gli angoli della bocca piegati in una penosa curva all’ingiù; persino i capelli, ravviati indietro sulla fronte, sembravano tristi e spiovevano in ciocche informi sul collo e sulle orecchie. «Mein liebes Kind» balbettò il povero Fritzing; e le mani gli tremavano al punto che rovesciò un po’ di latte.
Priscilla si appoggiò allo stipite della porta. Aveva la nausea e il capogiro. «Che cosa agghiacciante» mormorò posando su di lui gli occhi stanchi e addolorati.
«No, no, si sistemerà tutto» rispose Fritzing cercando di darsi un tono. «Bevete un po’ di latte, vostra altezza».
«Oh, sono stata malvagia».
«Malvagia?»
Precipitosamente, Fritzing posò piatto e bicchiere sul pavimento e, afferrata la mano che ciondolava lungo il fianco, la baciò con trasporto. «Voi siete la più nobile delle donne sulla terra» dichiarò.
«Oh» rispose Priscilla voltando la testa e chiudendo gli occhi tanto era stanca di udire frasi così futili.
«Ma voi lo siete. Ve lo giuro. Però siete anche una bambina, e in quanto tale pronta, alla prima avversità, a pensare di avere chiuso per sempre con la felicità. Chi può dire che non vi troviate invece proprio sulla soglia di una vita felice?» proseguì Fritzing sforzandosi di mostrarsi convinto di quella sua profezia. In realtà si sentiva il cuore pesante come un macigno.
«Oh, mormorò Priscilla» troppo avvilita per fare qualcosa che non fosse starsene a capo chino.
«Non dovete dimenticare il luogo comune: l’ora più buia è quella prima dell’alba. Eppure si tratta di un fenomeno naturale ben noto».
Priscilla appoggiò la testa contro lo stipite. Rimase immobile, le mani penzoloni lungo i fianchi, gli occhi serrati, la bocca leggermente dischiusa, il ritratto di una persona che si è arresa.
«Bevete un po’ di latte, vostra altezza. Fate uno sforzo».
Lei non gli diede retta.
«Per amor del cielo, non affrontate queste piccole sventure in modo tanto tragico. Voi non avete fatto niente di sbagliato. Lo so, vi incolpate dell’accaduto. Ma è una follia. Io, che tanto spesso vi ho rimproverato, e negli anni passati non vi ho mai risparmiato la sferza della mia lingua non appena vedevo un giusto motivo per farlo, ora vi dico con la stessa sincerità che in questo paesino le vostre azioni e i motivi che le hanno ispirate sono state tutte dettate dalla più eccelsa nobiltà d’animo».
Fritzing si chinò a raccogliere il bicchiere.
«Bevete un po’ di latte. Qualche sorso, anche uno solo, vi aiuterà a liberarvi la mente da questi pensieri poco lucidi. Non riesco a capire» proseguì tra l’avvilito e l’esasperato, «perché vi rifiutate di bere un po’ di latte. Non è poi così difficile».
Priscilla non si mosse.
«Non sapete che in un corpo affamato e trascurato non potrà mai albergare il più prezioso dono degli dei, una mente lucida e assennata?»
Priscilla non si mosse.
Lui la fissò in silenzio per un istante, quindi posò il bicchiere. «È tutta colpa mia» articolò lentamente. «La responsabilità di tutta questa infelicità ricade sulle mie spalle. È un fardello così pesante, devo confessare, che non so come farò a sopportarlo».
Fece una pausa, ma lei non disse nulla.
«Vostra altezza, io vi ho voluto molto bene».
Ancora nulla.
«E la caratteristica dell’amore, ho notato, è spesso straziare e uccidere l’oggetto dell’amore stesso».
Priscilla avrebbe potuto essere addormentata.
«Vi ho trascinato in una situazione orribile. Ero vecchio, e voi giovane. Io esperto, voi ignorante. Io riflessivo, voi impulsiva. Io un uomo, voi una donna. Invece di frenarvi, di guidarvi, di proteggervi da voi stessa, sono stato spregevole, e ho acceso in voi desideri di libertà moralmente indegni, date le particolari circostanze; ho lanciato una palla che non sarebbe stato più possibile fermare, e avrei dovuto prevederlo. Vi ho messo in testa pensieri che altrimenti non vi sarebbero mai entrati; vi ho fatto imbarcare in un’impresa che rischia di compromettere per sempre la vostra felicità».
Priscilla si mosse appena e sospirò una debole protesta.
«Tutto questo è terribile, un peso che mi schiaccia, che mi uccide. E come se non bastasse ho fatto scempio della vostra anima, offuscato la vostra ragione, pregiudicato la dolce ragionevolezza, l’incantevole stabilità di ciò che era un tempo una mente obiettiva ed equilibrata».
Lei sollevò lentamente la testa e lo guardò. «Cosa? Credi... credi che io stia diventando pazza?»
«Penso sia molto probabile» replicò Fritzing convinto.
Negli occhi di Priscilla si affacciò un’espressione sbigottita.
«Tanta morbosa introspezione, seguita da ore di pianto e digiuno, senza che vi si ponga un freno, finiscono senz’altro per produrre un simile risultato» proseguì. «Una persona che digiuni troppo a lungo, finisce per perdere una parte considerevole delle proprie facoltà mentali».
Lei allungò una mano.
Lui fraintese e si chinò per baciarla.
«No, dammi il latte» disse Priscilla.
Fritzing afferrò lesto il bicchiere, glielo porse e la osservò bere con tutto il sollievo, tutta la gratitudine di una madre che veda un miglioramento improvviso nel figlio malato. Finito il latte, Priscilla gli restituì il bicchiere. «Fritzi, vediamo di non colpevolizzarci, allora, se riusciamo a evitarlo...» disse, ora guardandolo con occhi ben aperti ma cupi di angosciosi interrogativi.
«Certo, mia signora. Sarebbe alquanto insensato».
«Cercherò di credere a ciò che dici di me, se mi prometti di credere a ciò che dico di te».
«Vostra altezza, se vi comportate in modo ragionevole crederò a tutto quello che volete».
«Sei stato tutto per me... questo voglio dire. Da sempre, da che serbo memoria».
«E voi, allora? Cosa non siete stata per me?»
«E non hai niente, assolutamente niente, da rimproverarti».
«Vostra altezza...»
«Sei stato troppo buono, troppo altruista, e io ti ho trascinato a fondo».
«Vostra altezza...»
«Bene, non ricominciamo da capo. Ma dimmi una cosa, dimmi la verità... oh, Fritzi, giura sul tuo onore che mi dirai la verità: riesci a vedere anche il più esile spiraglio di luce sul nostro futuro? Riesci a vedere un minimo barlume di speranza?»
Lui le prese la mano e gliela baciò; poi sollevò la testa e la fissò con espressione solenne. «No, vostra altezza» articolò con la risolutezza che nasce da una convinzione incrollabile, «giuro sulla mia anima immortale che non ne vedo l’ombra».