Succedeva anche a mio padre, aveva dei crolli della volontà. Come me. Ci fu un momento in cui andare a vendere non gli conveniva, doveva pagare la benzina, pagare le locande e il cibo, e vendeva poco. Non ne valeva la pena. Lui vendeva poche stoffe e io vendo pochi libri, siamo lo stesso uomo. L’ossessione che siamo lo stesso uomo ce l’ho da prima della sua morte.
Mio padre era un lavoratore autonomo, doveva pagarsi le spese. E la commissione che prendeva sulle vendite era inferiore a quanto doveva sborsare. Il suo «cosa parto a fare?» arriva a me in un «cosa scrivo a fare?»
Sono crolli della volontà.
Perciò scelse di mettersi la vestaglia verde e di guardare i cuochi della tele. Tutto quanto successe a mio padre si ripercuote sulla mia vita con una precisione millimetrica. Stiamo vivendo la stessa vita in contesti diversi, però è la stessa vita. E in questa comunione di vita possono essere latenti un messaggio o un’ironia nascosti. Chi manda il messaggio? Si trasformano i dettagli sociali e culturali, ma siamo la stessa cosa. A volte quel grado di coincidenza massacra il tempo, fonde il tempo rendendolo liquido e insicuro, e le due vite diventano equivalenti. E neppure voglio arrivare a essere qualcuno di distinto da mio padre, mi fa terrore arrivare ad avere un’identità mia.
Preferisco essere mio padre.
Quando scopro le profonde e potenti coincidenze fra la vita di mio padre e la mia non soltanto mi stupisco, mi spavento anche, ma allo stesso tempo mi sento sicuro, credendo che in quella ripetizione ci siano un ordine e un codice più grandi.
Tutta la vita a scrivere, come mio padre. Io, poesie e romanzi; lui, duplicati di ordinazioni dei sarti spagnoli.
Mio padre era commesso viaggiatore, agente di commercio. Più o meno, anch’io. Io scrivo, lui scriveva. Non importa cosa. Stiamo facendo la stessa cosa. Lui chiamava la sua opera letteraria «ordinazioni e duplicati». Lo vedo: si sedeva al tavolo da pranzo e tirava fuori la sua Parker (che gli aveva regalato la ditta) e annotava tutto con un’attenzione quasi infantile, con la sua calligrafia eccellente e barocca. Fu mio padre a farmi scoprire la parola «calligrafo». Mi disse quello che significava. Mi si incise nella memoria: calligrafo. Il tavolo era instabile e doveva mettere una zeppa sotto una gamba perché la sua grafia non ne risentisse. Credo che mio padre non abbia mai avuto un tavolo decente sul quale scrivere.
La calligrafia era importante. I duplicati erano gialli. La vita si fa gialla. Perfino l’alba è gialla.