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Non è riuscito a dire né buon pomeriggio né buona sera né buongiorno né salve come va a nessuno dei due sovrani. Il suo mutismo è normale: proviene dalla notte avara di pane e di carne dei contadini iberici, dalla notte dei folli e dei ritardati mentali, e nella sua genetica ci sono soltanto terrore e angoscia ed errore.

Terrore e angoscia, contro la luce e la ricchezza, contro la sicurezza e l’amore che emanano i sovrani.

Il sorriso dei due sovrani è, a un metro di distanza, uno dei maggiori spettacoli che possa contemplare un cittadino spagnolo, perché vi è contenuta la vita di milioni di spagnoli che sono ormai morti e la cui dignità storica risiede soltanto in quel sorriso. Ciò che la Spagna ha saputo costruire politicamente è cifrato in quel sorriso, ai cui bordi si annidano milioni di serpenti accesi.

Si accendono, i serpenti.

Lo scrittore premiato, un anziano assente, un uomo indistinto, una persona di altri tempi, passeggia dando il braccio alla regina. Lei, a causa dei tacchi da tortura, sovrasta di due palmi la testa quasi calva di Juan Goytisolo. L’uomo dalla cravatta con il nodo triste cavilla sull’esibizione pubblica della tortura a cui la regina sottomette i propri piedi infilandoli in quei tacchi a spillo (stiramento e distorsione di ossa, dolori articolari, artrite, deformazione, collasso osseo); e cavilla su quali possano essere i pensieri dello scrittore premiato. Si nota in lui un certo disagio, una certa asprezza. Forse pochi dei presenti lo hanno letto. E perfino se fosse stato molto letto, in realtà a poco potrebbe servirgli, perché nessuno lo ama, e da questo punto di vista è come se non l’avesse letto nessuno. Non c’è amore qui, non c’è amore da nessuna parte. E forse lui lo sa e lo accetta. Lo sappiamo tutti e lo accettiamo tutti, perché la letteratura è ormai una cosa irrilevante nella misura in cui in lei non c’è amore. In lei non c’è amore, pensa l’uomo dalla cravatta gialla, e dovrebbe esserci, perché soltanto l’amore ha senso, e dov’è il suo amore, e cosa ci fa qui se non ci troverà l’amore, e allora si ricorda di suo padre, la cui vita si è svolta sotto quest’ordine simboleggiato dalla donna con i tacchi alti.

Suo padre sarebbe stato contento di vederlo lì, insieme ai sovrani. Gli sarebbe piaciuto che gli raccontasse qualche aneddoto, forse per questo lui ci è andato, per amore del padre.

Camminano, lo scrittore e la regina, lungo la tavola con gli invitati in piedi. Camminano lentamente, sottobraccio. La regina rallenta il passo per farlo coincidere con l’andatura stanca dello scrittore.

La voce ritorna e dice all’uomo dalla cravatta calda: «Hai visto, questo è tutto, questa è la fine dei grandi scrittori spagnoli, un deambulare a palazzo sottobraccio a una regina, un protocollo, ma per quel protocollo finale la gente sarebbe capace di ammazzare la madre, perché la vita è vuota, vuotissima di sé».

L’uomo dalla cravatta spaventata non aveva mai visto un tavolo tanto grande, un tavolo per più di cento persone. Sogna di festeggiare una vigilia di Natale a quel tavolo, e sogna che a sedersi a quel tavolo siano i fantasmi senza rango dei suoi antenati, i suoi genitori, i suoi nonni, i suoi bisnonni, i suoi trisnonni.

Gli piacerebbe parlare con il suo trisnonno, se pure è esistito. Dev’essere esistito un uomo che biologicamente potrebbe essere considerato un suo antenato, e pertanto un trisnonno secondo l’aritmetica generazionale, ma quell’uomo non ha mai pensato che sarebbe stato il trisnonno di un altro uomo.

Non c’è vincolo.

Non c’è nulla.

Invece la monarchia è vincolo. Gli antenati del re sono ritratti al Museo del Prado. Il re può andare quando vuole a vedere il suo trisnonno e parlare con lui.

Tutto è giallastro, e il colore della monarchia è il giallo. La famiglia reale rappresenta la famiglia scelta perché su di essa ricada lo sfarzo giallo della memoria, quella memoria di cui sono prive migliaia e migliaia di famiglie spagnole, che si è persa negli stanchi giorni della Storia, che si è persa nella fame, nella guerra e nella miseria.

L’uomo dalla cravatta con il nodo triste non potrà mai andare in un museo a ritrovarsi con i suoi trisnonni, dipinti da Francisco Goya. Ma se una sola famiglia lo può fare, è sufficiente. È questo il mistero morale delle monarchie. È questo il simbolo, la grande invenzione.

All’uomo dalla cravatta umiliata piacerebbe sapere se ha qualcosa in comune con il suo trisnonno: qualche gesto, qualche somiglianza fisica, qualunque cosa implichi una necessità, un significato, una spiegazione di questo presente storico, biologico, genetico.

Mentre tutti gli invitati osservano l’anziano e la regina, l’uomo dalla cravatta maledetta ne approfitta per poter guardare il tavolo, che adesso non sta guardando nessuno.

Anche il tavolo gigantesco svolge una funzione, uno star lì in quanto mobile, svolge il poco ambito compito nella storia di Spagna di «stare lì a resistere, a eseguire il suo lavoro».

L’anziano premiato ha sul viso una smorfia che vuol dire qualcosa di più di ciò che in realtà dice, un naso inclinato verso il precipizio della più grande tristezza immaginabile. È uno spettacolo feroce, la sua mano serrata dalla mano della regina di Spagna. Una donna bella, ieratica, dall’arroganza silenziosa, dall’arroganza non colpevole. Camminano i due fantasmi, sotto il presunto ordine della democrazia spagnola, che non aiuta a morire in pace.

Una democrazia non aiuta a morire in pace.

Nulla che sia umano aiuta a morire in pace; a morire in pace aiutano soltanto le droghe, il cui monopolio è dello Stato.

E chi è lo Stato? È una sovrapposizione giallastra di volontà stanche, che non pensano più, che hanno pensato molti decenni fa, e che la pigrizia, che è la madre dell’intelligenza, perpetua.