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Mio padre era un accanito giocatore di carte. Credo che abbia passato una ventina d’anni andando tutti i giorni a giocare, ogni volta che non era in viaggio. Sorrideva quando andava a farsi la partita. Le sue partite cominciavano alle tre del pomeriggio, e rispettava rigidamente gli orari. Perciò bisognava pranzare alle due in punto, in modo che potesse arrivare alla partita delle tre, che si teneva in un posto molto popolare di Barbastro chiamato La Peña Taurina, un luogo in cui alla parete principale veniva esibita una testa di toro imbalsamata. Da bambino fissavo quella testa con un misto di spavento e di tenerezza. Mio padre era esperto in due giochi di destrezza, quello che gli piaceva di più era l’Uno, poi la briscola. Giocava dalle tre alle sette. A volte, quando ero molto piccolo, andavo a vederlo giocare. Litigava con i compagni di tavolo. Era severo e inflessibile e aveva sempre ragione. Si giocavano il caffè e un bicchierino di cognac. Un Torres 5, era quello il cognac.

Le carte erano il suo paradiso. Giocava per il piacere della sorte. Mai per soldi.

Credo che giocare a Uno lo rendesse infinitamente felice. Dovevano essere i giorni dell’estate del 1969, o del 1970, o del 1971. E alle sette veniva a casa a prendere mia madre e uscivano a passeggio, e andavano nei bar a bere qualcosa e a parlare con la gente.

Ci fu in quel tempo un’intensa felicità nella vita di mio padre. Mi ricordo delle sue camicie. Mi ricordo del portachiavi che aveva e del suo orologio. Era un Citizen, comprato in un negozio che si chiamava La Isla de Cuba, gestito da una madre e da un figlio. I miei genitori erano amici di questa madre e di questo figlio. Madre e figlio erano misteriosi, tanto misteriosi quanto il nome del loro negozio; e non credo che vendessero troppi orologi, anche se non potrei giurarlo. Un giorno scomparvero da Barbastro come per incanto. E il loro negozio svanì con loro, concluse il suo tempo fra i vivi. Ora lì c’è un altro negozio, e ce ne sono stati molti altri dopo la chiusura della Isla de Cuba, che secondo i miei calcoli dev’essere avvenuta intorno al 1980. I negozi vanno e vengono, alcuni durano un anno, altri cento, altri tre mesi, altri sei anni, nessuno lo sa, e dove c’era un negozio di orologi ora c’è un bar o un negozio di scarpe o una pasticceria o semplicemente un locale vuoto. Io adoravo e rispettavo l’orologio di mio padre. Mi sembrava l’orologio di un dio; da lì è nata la mia devozione per gli orologi, dall’amore che provavo per il Citizen di mio padre. Guardavo il cinturino d’acciaio, il quadrante, le lancette, la chiusura e tutto mi sembrava prodigioso, inarrivabile. Mio padre era inarrivabile, lo è sempre stato per me.

Da bambino, non sono mai riuscito a capire perché gli piacesse tanto giocare a Uno, perché dedicasse tanto tempo alle carte, pensavo che quel tempo lo dovesse a me. Era un giocatore famoso in paese. Molto temuto, perché vinceva sempre e se non vinceva la colpa era degli altri.

La colpa era degli altri, quel fatto fu cruciale nella mia infanzia. Di fronte a qualunque contrarietà, o perfino alle avversità, mio padre dava la colpa agli altri, specialmente a mia madre. Non so da dove diavolo avesse tirato fuori quell’atteggiamento. Mio padre dava la colpa a mia madre di qualunque sventura e mia madre a poco a poco imparò a manipolare i fatti a proprio vantaggio, cosicché alla fine ci ritrovammo tutti in un labirinto emotivo che sfociava tanto nella disperazione quanto nella tristezza.

Mio padre si arrabbiava molto quando aveva quarant’anni; dai quaranta ai cinquanta fu il suo tempo dell’ira. Poi si calmò. Si calmò ancora di più quando diventò settantenne. Qualcosa gli successe al circolo in cui andava, la Peña Taurina. Doveva aver litigato con qualcuno, e smise di andarci. Sostituì quel circolo con un piccolo bar, il bar del cinema Argensola. A me parve un cattivo segno. Fu l’inizio della sua decadenza come giocatore di Uno. A metà degli anni Ottanta smise di giocare a carte e si mise a guardare la televisione. Non verbalizzò mai perché avesse smesso di giocare a carte. Un altro enigma che non risolverò mai. Mi fanno male al cuore gli enigmi del passato che non potrò mai più decifrare. Penso che lì ci siano cose meravigliose che resteranno nascoste per sempre.

Regnò come giocatore di Uno fra il 1968 e il 1974. Poi tutto cambiò, finì l’età dell’oro.

Si concentrava guardando le carte, seduto placidamente, facendo calcoli matematici sulla possibilità di vincere la partita, e si sedeva vicino al balcone aperto della Peña Taurina, e gli scorreva sul viso la brezza del pomeriggio di giugno, la brezza del 1970, quando il mondo era ancora buono e c’era pace nel suo cuore e gioia nel mio. E scrutava il volto degli avversari ed esplorava le loro debolezze e controllava i possibili errori del suo compagno. Cercava la perfezione, l’ha sempre cercata in ciò per cui era portato, e l’ha fatto a modo suo.

Non credo che sia più vivo nessun giocatore di quelli che hanno affrontato mio padre a quel tavolo alla Peña Taurina, un circolo in cui si organizzavano anche balli. C’era un piccolo palcoscenico per l’orchestra. Mio padre mi ordinava una Coca-Cola e io mi sedevo a guardarlo ballare con mia madre e poi mi davano una crocchetta, però non mi piaceva.

Un giorno portarono alla Peña Taurina un flipper. E mio padre ci si appassionò in maniera fanatica. E anch’io, io che dovevo avere otto anni scarsi.

Era un’autentica cerimonia.

Arrivavamo il sabato mattina, verso mezzogiorno, alla Peña Taurina. Mio padre mi ordinava una Coca-Cola e ci mettevamo a giocare a flipper.

Eravamo molto felici. Mio padre tendeva a muovere la macchina con forza ogni volta che pigiava sui comandi, e questo la faceva andare in tilt e perdevi la pallina.

Quelle palline argentate, che mio padre lanciava verso la parte più alta della macchina, verso la parte più alta del mondo e della vita, e guardava salire la pallina e io stavo in piedi su una sedia perché ero ancora molto piccolo.

Quelle sedie mi si sono impresse nella memoria, è come se le stessi vedendo in questo momento, sedie del 1970.

Dio mio, se gli piaceva, a mio padre, giocare a flipper. Ci affascinavano la discesa della pallina argentata, i colori, le luci, i suoni; aspettarne l’arrivo con il dito sul pulsante. A mio padre piaceva da matti vincere una pallina extra.

Anche a me.

A tutti e due piaceva moltissimo giocare. Ogni volta che in qualche bar vedevamo un flipper, mio padre e io ci andavamo immancabilmente. Giocavamo in silenzio. Comunicavamo a gesti. Era un rito. Un uomo di quarant’anni che patteggiava con il figlio di otto anni.

Credo che siano stati i momenti di più grande comunione fra di noi, quando giocavamo a flipper.

Eravamo padre e figlio, allora, in un modo in cui non lo saremmo stati mai più.

Giocavamo molto bene.

Diventavamo una sola persona, ci fondevamo.

Eravamo amore.

Ma non ne parlammo mai, non lo dicemmo mai.

Mai.