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Torno di nuovo a quella mattina, alla mattina del 24 maggio 2014. Rimasi a guardare la stanza dove mio fratello e io dormivamo da bambini. Andavo con gli occhi dalle pareti e dall’armadio al viso morto di mia madre. La testiera del letto era blu. Mia madre l’aveva fatta dipingere di blu. Anche l’armadio era blu.

Aprii l’armadio e non riuscivo a ricordarne l’interno: era stato il mio armadio durante l’infanzia e la prima giovinezza. Però non ricordavo di averci riposto i miei vestiti. Dall’armadio rivolsi ancora lo sguardo verso il letto. Adesso era presente la donna che badava a mia madre. Era una donna di circa quarantacinque anni. Una brava donna, con un gran cuore, di nazionalità bulgara. Stava piangendo per mia madre. Non abbiamo mai saputo bene come si chiamasse. Il suo nome era bulgaro, la chiamavamo Ani. Ma credo che non si chiamasse esattamente così. Avevamo castiglianizzato in modo approssimativo il suo nome bulgaro e a lei andava benissimo. Era bionda, alta e corpulenta, con un viso sereno e allegro. Aveva ancora qualche difficoltà con lo spagnolo. Mia madre le voleva molto bene. Mi lasciò sbalordito vederla piangere. Ani era commossa, e il suo pianto era vero. Perché piangeva se non era sua madre? Perché piangeva se ero io a dover piangere e non piangevo? Mia madre mi stava mandando un messaggio attraverso il pianto di Ani, mi stava ricordando che non l’avevo amata come lei avrebbe desiderato? Questo pensai. Pensai che mia madre avrebbe continuato a parlarmi dalla morte. Pensai che adesso avremmo parlato in un altro modo.

Provai invidia per il fatto che Ani sapesse piangere per qualcuno che non era sua madre. Io non so piangere, nemmeno una lacrima, ma se la mia capacità di soffrire fosse misurabile in lacrime tutta la Spagna verrebbe sommersa e gli spagnoli affogherebbero senza scampo. Inonderei la penisola iberica, e i quattro grattacieli di Madrid verrebbero sepolti dalle acque.

Così, dunque, esisteva la bontà. Era lì, a dirmi quanto lontano da lei io vivessi.

E Ani prendeva la mano di mia madre. Io fissai le due mani, una viva e l’altra morta. E la mano morta sembrava essere già in pace, la mano viva, toccando la mano morta con bontà, feriva la morte. Come se la morte non esistesse.

Guardai di nuovo la stanza. Così, mia madre era morta nella stanza in cui erano cresciuti i suoi due figli, in cui i due caposaldi che avevano formato la sua esistenza non dormivano più da molto tempo. Guardavo lo spazio di quella stanza, cercando di trovare una porta nell’aria. L’aveva fatta dipingere di blu, perché aveva pensato che i suoi due figli fossero blu. Era morta nella nostra camera da letto, e lì c’era un altro messaggio pieno di forza. Si era rifugiata lì, nella nostra stanza, che si stava trasformando sotto i miei occhi in uno spazio sacro, in una tomba.

Fummo blu per molti anni. Fino a diciott’anni, i figli sono blu. Con il tempo, però, tutto diventa giallo.

I figli blu diventano figli gialli.

C’era ancora il blu, lì. Il blu tornava per qualche secondo, e sconfiggeva il giallo. I due vecchi letti in cui avevano dormito i suoi rampolli sembravano due barche che andavano dalla vita alla morte, letti che a me da bambino sembravano indistruttibili; e quel blu dei piedi del letto, delle gambe e della testiera acquistava una purezza che mi bruciava gli occhi.

Rimasi a guardare com’erano dipinti bene. Come quella pittura aveva resistito per cinquant’anni. Era inconsueta quella durata. Non c’era neanche un graffio, né una minuscola scrostatura. Perché sembrava tutto come appena dipinto se quei letti avevano compiuto mezzo secolo?

Aprii di nuovo l’armadio blu, sapendo che era l’ultima volta che l’avrei aperto, sapendo che non avrei mai più rivisto quell’armadio. E ne uscirono in massa i macchinari da guerra e l’artiglieria e la cavalleria e la luce dei giorni antichi, e mi vidi scegliere una camicia quando avevo tredici anni, guardandomi allo specchio, chiedendomi se sarei riuscito a fare colpo su una ragazza che mi piaceva. E guardai verso il punto in cui si trovava mia madre morta, e là c’era una tempesta di tempo e di annichilimento, era un ordine logico per il quale non ero preparato.

Morire è quasi il meno.

È stata l’ultima volta che ti ho visto, mamma, e ho capito che a partire da quel momento sarei stato completamente solo nella vita, come lo eri stata tu e non me n’ero reso conto o non avevo voluto rendermene conto.

Mi lasciavi come io ti avevo lasciato.

Mi stavo trasformando in te, e in quel modo tu saresti durata e avresti sconfitto la morte.

Avrei dovuto fare decine di foto di quella stanza. Avrei dovuto fotografare l’intera casa, perché non si perdesse nulla. Un giorno non ricorderò più con esattezza quella casa in cui ci siamo voluti così bene, e quando non la ricorderò impazzirò. Credo nelle tue passioni. Le tue passioni ora sono le mie. E le tue passioni sono valse la pena. Mi mancano le foto, quello sì. Le tue passioni, mamma, la tua ossessione per la vita, le hai passate a me. Ce le ho qui, nel mio cuore, macinando rabbia.