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Il 1º ottobre 1991, dopo aver vinto un concorso, l’uomo che ventiquattro anni dopo siederà vicino al re di Spagna agghindato con una falsa cravatta si vide assegnata una cattedra di professore di scuola secondaria, per la materia di lingua e letteratura, in un istituto del nord della penisola, di una città di cui l’uomo che siederà ventiquattro anni dopo vicino al re di Spagna non vuole ricordare il nome.

Fu la cosa migliore che capitò nella vita dal punto di vista economico a quell’uomo che sono io.

Giunsi perfino a pensare all’esistenza di Dio, che aveva deciso di vegliare sul mio passaggio nel mondo: avrei potuto disporre di uno stipendio fisso.

C’era allegria nel cuore dell’uomo che ventiquattro anni dopo siederà vicino, benché non molto vicino, non vicinissimo, al re di Spagna, indossando una cravatta deprimente attorno al collo, il suo allarmato e arrossato collo.

Quell’uomo allora aveva ventinove anni, quell’uomo che divenne quello che attualmente sono io, vale a dire un altro uomo. Un uomo fondato su un altro uomo, o su diversi. Avere ventinove anni è la più grande macchina per uccidere al mondo. Nessuno che abbia ventinove anni lo sa. Era il momento di godersi la vita. Tutti i giovani di quell’età desideravano allora un lavoro fisso, era l’ossessione della Spagna che usciva dalla Transizione.

L’istituto a cui fui destinato si chiamava Pablo Serrano, il nome di un illustre scultore. Mi comprai un’automobile: una Ford Fiesta. E con quell’automobile andavo a fare lezione in quell’istituto, che oggi è ancora lì. C’era, per fortuna, un parcheggio alberato, riservato ai professori. L’ombra degli alberi ricopriva le macchine. Lasciavo la mia macchina all’ombra. Per tutta la vita mi accompagnerà questa ossessione di lasciare la macchina all’ombra. Ho ereditato questa ossessione da mio padre. Mio padre cercava sempre di lasciare la macchina all’ombra. Se non ci riusciva, gli si guastava l’umore. Non capivamo, né mia madre, né mio fratello né io, quando eravamo piccoli, quell’ossessione. Andavamo nei posti in funzione del fatto che ci fosse ombra per la macchina. Quando mio padre ebbe un po’ di soldi e cominciò a portarci in vacanza sulla costa – era alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta – ci svegliavamo prestissimo per andare al mare, perché se arrivavamo tardi non trovava il posto per lasciare la macchina sotto certi eucalipti. Io ero molto piccolo e non capivo perché bisognasse svegliarsi alle sette del mattino se eravamo in vacanza e non c’era scuola. Cercavo di scoprirne la ragione. E la ragione era l’ombra degli eucalipti, così rimanevo a guardare quegli alberi, e giunsi a interiorizzare quell’ombra come qualcosa di meraviglioso e dalla sostanza divina. Se mio padre non lasciava la macchina parcheggiata all’ombra, non era felice, si angosciava e soffriva. Anni dopo abbatterono quegli eucalipti e allargarono il lungomare. Quegli alberi non esistono più.

Oggi capisco il desiderio di lasciare la macchina all’ombra, perché quell’ossessione è dentro di me, con me, nel mio cuore. Coltivo quell’ossessione perché è un’eredità di mio padre. Se la macchina era al sole, mio padre si tormentava. Fu un uomo originale in tutto.

Entrai a far parte dell’esercito dell’educazione in Spagna. Esisteva ancora la Formazione Professionale. E l’ombra degli alberi di quel parcheggio del 1991 mi conduceva al ricordo degli eucalipti del 1971.

Siccome ero un novellino, mi assegnarono i gruppi peggiori di quell’istituto. Mi toccò far lezione agli alunni di Elettricità. Erano ragazzi di quattordici anni che nessuno amava; ragazzi che lo Stato aveva deviato verso presunti studi professionali, la famosa FP. Mi assegnarono anche un gruppo di parrucchiere. E un gruppo di assistenti amministrativi. Passavo le giornate a spiegare l’accento diacritico. Tutti gli spagnoli che sono andati a scuola finiscono per distinguere il «tú» pronome dal «tu» aggettivo (tuo). Non è lo stesso tu in «tú piensas» (tu pensi) e in «tu pensamiento» (il tuo pensiero). Nel primo caso è pronome e ha l’accento, nel secondo è aggettivo e non ha l’accento. E questo facevo. Ho passato venticinque anni a contemplare quel maledetto «tú» o «tu». E per questo mi pagavano. Tutto il giorno insegnavo questo, che non è la stessa cosa «tú vienes» (tu vieni) e «tu venida» (la tua venuta), era ridicolo, soprattutto quando non veniva un cazzo di nessuno. Ma lo facevo perché non mi avevano mai pagato tanto bene quanto mi pagavano lì. Mi nominarono responsabile di un gruppo del primo anno di Elettricità. Nel sistema scolastico spagnolo, alcuni professori sono incaricati di seguire un certo gruppo di alunni dal punto di vista disciplinare e pedagogico. Ben presto mi resi conto che era tutta una farsa. Entravo in aula a metà ottobre e faceva ancora caldo. Un alunno di terza Amministrazione mi chiese di un avvenimento appena accaduto negli Stati Uniti. Credetti che fosse una domanda seria.

Il 16 ottobre 1991 George Hennard aveva assassinato ventitré persone nella città di Killeen, in Texas.

Feci una lunga riflessione sulla violenza, ma non mi ascoltavano. Così lasciai che fossero loro a parlare.

«Alla tele c’era il cranio a pezzi di uno di quelli a cui ha sparato, aveva una pistola a ripetizione, cento pallottole ha sparato quel tizio, grande» disse Castro, l’alunno che di solito parlava di più. «Ne ha fatti fuori ventitré, e per di più finché uno non era bello secco non ne andava a cercare un altro.»

Il gruppo esplose in una risata. E sentii la voce, può darsi che fosse una delle prime volte o perfino la prima volta che mi si presentava: «Non conoscono le vittime, non sanno cosa significhi morire, non sanno cos’è un assassinio, sparare a un altro corpo, non sanno niente, e neanche tu sai niente. E in realtà non sai se neanche a te interessa davvero dei ventitré corpi dilaniati dalle pallottole. Devi ripudiare la violenza perché sei un morto di fame, e ti tieni questo lavoro perché ti pagano uno stipendio a fine mese. E sei un educatore. E devi educarli a valori ragionevoli, devi fare in modo che capiscano che non si può andare in giro ad ammazzare la gente. E quando ti metti a fare la morale, questi si addormentano. Inventati una storia, professore del cazzo. Pensi soltanto al tuo stipendio, ma lo capisco. Credi che se parli come loro ti licenzieranno, e non avrai i tuoi soldi a fine mese. E questo finirà per ucciderti. Di solito la gente crede nel proprio lavoro. E questa è assolutamente un’alienazione, perché è utile credere in qualcosa; migliora la vita della gente. Però in te si annida, fin dall’inizio, il virus storico e genetico di tua madre: un’insoddisfazione che si estende come una macchia di petrolio sugli oceani del mondo, in modo costante e inarrestabile».

Il professore novellino che io ero (di nuovo viene fuori lo spettro) rimase a guardare Castro. E imitò con la mano una pistola.

Prese di mira Castro e disse: «Bang, bang bang».

«Castro, ti ho appena fatto saltare la testa» dissi.

E tutti rimasero in silenzio.

La lezione terminò e uscii con una certa aria trionfale.

«Però, ce l’hai fatta» disse la voce.

Passarono alcune settimane, e un alunno di prima Elettricità che abitualmente saltava le lezioni, difatti quasi nessuno ricordava la sua faccia, si presentò all’entrata della mia classe. Il professore novellino che io ero si sorprese.

«No, non vengo alla sua lezione» disse. «Devo dare un paio di sberle a quel figlio di puttana» e indicò uno dei suoi compagni.

Stava indicando Maráez, che era soprannominato Cavolfiore.

«Quel bastardo di Cavolfiore l’hanno beccato a rubare al Corte Inglés e lo stronzo ha detto al vigilante che non aveva la carta d’identità, ma che gli dava l’indirizzo di casa sua. E ha dato il mio, ha dato il mio indirizzo e il mio nome, e ieri sono venuti a casa mia gli sbirri a chiedere di me, e mio padre mi ha spaccato la testa con un mestolo» e indicò una ferita purulenta sulla propria testa.

Cavolfiore rideva. Tutti ridevano. Il professore novellino che io ero guardò la ferita.

Oggi ricordo ancora quella ferita, e sentii davanti a quella ferita un misto di rabbia incosciente e di lugubre tenerezza. Oggi mi viene in mente una parola solare: «clemenza». Dovremmo essere tutti più clementi. Arrivai a pensare che avrei dovuto scrivere un libro intitolato Clemente. Mi sarebbe piaciuto infilare il pugno in quella ferita e aprirla di più, finché quel ragazzo si fosse dissanguato, e poi bere quel sangue con tenerezza, come in una cerimonia della disperazione.

Sensazioni di disperazione profonda come questa mi hanno accompagnato spesso nella vita. Non so da dove vengano. Sono sentimenti meticci, sono violenza e sono malinconia. Sono anche euforia. Credo che questi sentimenti provengano dai miei più remoti antenati. Ci dev’essere qualcosa in me che mi ha reso resistente malgrado la mia deformazione e il mio deterioramento emotivo; se così non fosse, non sarei più a questo mondo.

Resistente ai batteri biologici e ai batteri sociali.

«Be’, già che sei venuto, entra in classe» dissi.

Horcas, era questo il nome del ragazzo, entrò in classe, ripetendo la frase: «Nell’intervallo ti mangio il fegato, Cavolfiore».

«Hai sentito» disse la voce, «vuole mangiarsi il fegato di Cavolfiore. Che sapore avrà il fegato di un ragazzo di quattordici anni? Guarda, hai davanti a te il ceto basso spagnolo, è uno spettacolo storico per il quale pochi hanno il biglietto, goditelo; questi ragazzi sono come fiumi di sangue giovane e a buon mercato, vivono in case di merda, dormono in letti puzzolenti e i loro genitori non valgono nulla. Le loro madri non hanno corpi fortunati e i loro padri non hanno competenze professionali. Non tutti hanno il biglietto per vedere tutto questo. Tu ce l’hai. Guarda come si ammazzano. Hai un biglietto di palco. Sei uno scrittore, o finirai per esserlo. È la Spagna irredimibile. Ti pagano per spiegargli cazzate come l’accento diacritico; perché non confondano Quevedo con Góngora, e vedi tu a chi diavolo importa chi era Quevedo e chi Góngora. Certamente non a loro due, che sono abbondantemente morti. Piuttosto, a chi importa che tu riproduca questo tipo di cazzate e che li costringa a impararle a memoria è a una certa aristocrazia culturale spagnola, che non ha nulla a che vedere con te e con questi disgraziati che la società ha abbandonato. Invece sì che dovrebbero sapere chi sono stati Góngora e Quevedo, perché se mai qualcuno darà loro una mano, saranno i morti a dargliela. Come se Góngora e Quevedo fossero una ONG, perché la Storia finirà per essere una ONG per coloro che più ne hanno bisogno, vale a dire per coloro che non hanno niente, tranne la Storia. Dovresti scrivere una storia per quelli che non hanno niente, soltanto la Storia.»

Anni dopo lessi sui giornali della morte di Cavolfiore. Si era schiantato con l’auto contro un muro. Un’auto vecchia, ma rubata. Avrebbe potuto rubare un’auto nuova anziché una vecchia, ma Cavolfiore aveva stile, e soprattutto aveva il senso dello humour. Scommetto che quel figlio di puttana aveva rubato la macchina a Horcas.

Cavolfiore se ne andò da questo mondo a ventisette anni.

Il povero Cavolfiore, la cui vita passò in un minuto, che nessuno conobbe, nemmeno lui. Anche in questo c’è una stupefacente purezza. Purezza e miseria contrassero matrimonio nel seno della breve vita di quello stupido di Cavolfiore.

Mi piace ricordarlo così, come quello stupido di Cavolfiore, dove la parola «stupido» denota pace, onore e santità.

Identificai Cavolfiore perché sul giornale c’erano il nome e il cognome completi: Iván Maráez.

Era lui, Cavolfiore.

Era molto ingrassato, il povero Cavolfiore. Tutti i miei allievi finirono per ingrassare. Tutti diventarono grassi.

Il più gran bastardo spagnolo di tutti i tempi: Cavolfiore.

Eppure, Cavolfiore, i tuoi genitori, al momento della tua nascita, ti avevano messo un bel nome, che sembra frutto di una motivazione. Vale a dire che avevano pensato al tuo nome, e questo conta.

Ti chiamarono Iván.

Dev’essere stato il giorno migliore della tua vita, quando i tuoi decisero che avresti avuto un nome. Però è impossibile che tu ricordassi quel giorno. Nessuno ricorda il giorno in cui riceve il nome scelto dai suoi genitori. Dev’essere stato il giorno più bello della tua vita e non l’hai saputo, non hai toccato con mano quel giorno, non te lo sei goduto.

Insomma, Cavolfiore, io credo che nel giorno del tuo battesimo tu sia stato amato. Non so, sembra che nel fatto che ti abbiano chiamato Iván ci sia un senso della bellezza, un po’ di volontà, di desiderio che tu fossi a questo mondo.

O forse quel giorno i tuoi genitori erano incazzati.

O forse è stato uno dei tuoi nonni a occuparsi del tuo battesimo, caro Cavolfiore. E gli è venuto in mente di battezzarti con il nome Iván per qualche motivo ridicolo e insignificante.

La ragione del suo nome, Cavolfiore se la portò nella tomba.

Ehi, Cavolfiore, devo dirti una cosa molto divertente: il tizio che ti faceva lezione di spagnolo nel 1991 è arrivato a sedersi vicino – va be’, non vicinissimo – al re di Spagna. Eh, che te ne pare, Cavolfiore? Non che sia importante, perché niente è importante quando si è morti e si è stati infelici da vivi.

Non è importante, però è comico.

Comico, sì, e ho pensato che ti avrebbe fatto ridere.

Perché in qualche misura sei stato una vittima di tutto un ordinamento storico, della costruzione di gerarchie, della constatazione che effettivamente esiste un determinismo biologico, e io sono stato il portatore ufficiale delle notizie dello Stato spagnolo, sono stato il postino, il notaio. Perciò qualcuno mi ha messo vicino al re di Spagna molti anni dopo. È come se tutto finisse per avere un senso, anche se si tratta di un cattivo senso.

Eh, Cavolfiore, ormai avranno trasferito le tue ossa nella fossa comune; credo che siano cinque anni. E non credo che i tuoi genitori, se sono ancora vivi, abbiano pagato per altri cinque anni.

Eh, Cavolfiore, quel Natale del 1991 parlai di te a mio padre. Mio padre ti si affezionò. Gli raccontai com’eri. Provò curiosità per te. Mio padre era una calamita per i disgraziati di questo mondo. Ricordo come rideva mio padre con la storia che quando ti avevano fermato al Corte Inglés avevi dato il nome del tuo amico. Era il mio primo lavoro serio, e a mio padre piaceva sentirmi raccontare. Cavolfiore, sei stato nei pensieri di mio padre. Sai, Cavolfiore, a mio padre a Barbastro volevano bene i malati, i ritardati, i poveri, i pazzi, gli infelici. Era una calamita per le disgrazie. Da dove aveva preso quel sacro dono? Era un dono che veniva dalle profondità della terra che l’aveva visto nascere, da lì, da quella terra, dal Somontano. Era strano, mio padre; perché gli scemi gli si avvicinavano sempre e si mettevano a parlare con lui? Credo che fosse perché mio padre era profondamente buono.

La sua bontà era leggendaria.

«Raccontami altre cose di Cavolfiore, che grande ragazzo» disse mio padre la vigilia di Natale del 1991, davanti a un pollo ruspante che mia madre aveva cucinato.

Mio padre ti ha voluto bene, Cavolfiore.

Io no.

Io allora no, adesso sì, Cavolfiore. Perché i tuoi occhi, che in questo istante ricordo, erano buoni, e la malasorte non dovrebbe separarci mai al momento di rivolgere il nostro sguardo al cielo, rendendo grazie per aver contemplato i sospiri di tutti gli uomini incatenati nell’aria.