A dieci o dodici anni guardavo quelle amiche tanto ben vestite e tanto ingioiellate di mia madre. Erano donne sulla quarantina. C’era una bionda, splendida, che rimase vedova e poi sparì. Era molto voluttuosa e risvegliava in me pensieri erotici. Aveva un corpo spettacolare ed era un po’ più giovane di mia madre, aveva forse quattro o cinque anni di meno. Era alta, e una volta dovetti andare a casa sua su indicazione di mia madre e venne ad accogliermi con un asciugamano, appena uscita dalla doccia. Poi ricordo che i miei genitori andarono al funerale del marito, che morì all’improvviso. Lo vedo in questo momento. Era più basso della moglie e questo per me era un enigma.
La storia degli amici dei miei genitori è confusa e labirintica. Adesso sembrano tutti dei fantasmi. Via via morirono, cadevano a poco a poco.
Un giorno uno, l’anno dopo un altro.
Sono tutti morti.
Sono morti i miei genitori e morti i loro amici.
Non so se furono amici.
Credo che a mio padre agonizzante non abbia fatto visita nessun amico. Credo che quella sia stata un’eterodossa forma di libertà. E, come ho detto prima, alla fine della vita mia madre ebbe amiche singolari, non so cosa ne sia stato di loro. Erano donne impoverite, vedove e nubili, uscite da non so dove, uscite da una storia fantastica della Spagna. Mal vestite e mal pettinate. Punk di settant’anni, quello erano. Mia madre aveva patti strani con le cose. Mia madre ha sempre avuto regioni oscure, scantinati in cui scendeva soltanto lei. E alla fine della vita mio padre raggiunse un livello di indolenza che lo avvicinava alla santità; non alla santità religiosa, ma alla santità legata alla mobilità introdotta dalla brezza del mattino sul suo viso appena rasato, alla gratuità del silenzio, e agli echi del sole che risuonavano nei suoi occhi rugosi; la santità o la beatitudine di chi rinuncia alla memoria, alla madre, al figlio e a qualunque forma di permanenza; l’esemplarità della sua recondita indifferenza; un’indifferenza simile a quella dell’universo, che è là, ma in silenzio, in segreto; o a quella del mare, che è là da millenni, ed è un essere là che si è sempre consumato nell’oscurità e nell’invisibilità, fino a quando gli uomini gli hanno dato coscienza, gli hanno dato l’«essere guardato», però è un «essere guardato» senza scopo.
Mio padre sapeva per istinto che gli uomini ti concedono la grazia di «essere guardato», ma è un «essere guardato» equivoco, illusorio, qualcosa che tende alla vanità. Esatto, lì andò mio padre: nel luogo in cui ogni forma di vanità è incerta o insolente o inappropriata.
Si spogliò della vanità.
Questo è essere libero, e mendicante.
Ricordo gli amici di mio padre. Quelli che sono ancora vivi mi piacerebbe chiamarli al telefono. Non so cosa direbbero. È allucinante che alla fine della vita non ci sia nulla da dire. Che la gente non voglia nemmeno spendere un po’ di memoria. Perché ricordare significa bruciare neuroni invano.
Perché ricordare è maligno.
Non venne nessun musicista famoso e nessun amico quando Johann Sebastian se ne andò da questo mondo. Sembrava quasi che non avesse mai avuto amici. Quanto immensamente solo se ne andò. Nessun vecchio amico venne a dirgli addio. Fu Johann Sebastian a volerlo. Non aveva voglia di pensarci. Si stava preparando per qualcosa che non aveva suono.
Non voleva vedere nessuno, è questa la verità. Non voleva perdere il tempo con l’illusione dell’amicizia. Non voleva dire parole cerimoniose, sociali, educate, amichevoli. Aveva sconfitto la leggenda della considerazione sociale, quando in realtà è l’unica riprova dell’esistenza, del fatto di essere stati vivi.
Non aveva voglia che di sé stesso.
E in sé stesso c’era soltanto solitudine.
E in sé stesso c’ero soltanto io, suo figlio, che tanto amava e continua ad amare dalla morte.