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A mio padre piaceva essere sempre ben pettinato, al punto che se c’era vento non usciva di casa, perché si spettinava.

Mio padre cominciò ad accumulare qualche chilo di troppo, e ne era consapevole. Chiedeva spesso se era grasso. Cercava il nostro parere. Gli piaceva mangiare. Era una relazione particolare con il mondo: prendere, del mondo, il cibo.

O fornichi o mangi, o entrambe le cose. Entrambe le cose cercano la combustione di un corpo. Ogni essere umano cerca la sazietà.

Si pettinava, ci metteva molto a pettinarsi. Un compito complesso, in cui bisognava impegnarsi. Dispiegava tutte le sue tecniche affinché i capelli stessero come dovevano. Io lo osservavo come se si stesse pettinando un dio o un eroe dell’antichità.

Ricordo quel pettine, che pian piano si ricoprì di materia oscura, che via via raccolse strati di grasso, che diventò bianco, che passò dal bianco al giallo, che contaminò di sostanze organiche il nécessaire in cui abitava, che si trasformò in un simbolo dell’identità maschile di mio padre, che avvisava che mio padre era in casa, che era tornato.

Mio padre era un errore delle categorie sociali della Spagna in cui visse; andava alla deriva verso un marchesato immaginario, perché tra i riccioli inerti della sua intelligenza portava i suoi conti, che gli permettevano di far venire il barbiere la domenica a casa per farsi tagliare i capelli.

Non voleva andare dal barbiere.

Davo per scontato che questo fosse normale, ma in realtà era un evento straordinario. Accadeva di domenica. Veniva un barbiere a domicilio. Era il lusso di mio padre. Quanto pagava quel barbiere errante?

Mi affascinava: mio padre si rifiutava di andare dal barbiere mentre mia madre faceva il giro di tutte le parrucchiere del mondo.

Mi sembrava inquietante che facesse venire il barbiere a casa. Perché lo faceva? Non entrò mai in un negozio di barbiere. Mio padre fu l’uomo che non entrò mai in un negozio di barbiere come non entrò mai in una chiesa, se non per i funerali di qualcuno. E allora arrivava tardi, quasi non entrava, e si metteva accanto alla porta della chiesa, nei pressi del fonte battesimale, vicino all’acqua fredda, non fosse mai che il folle e incompetente Dio degli uomini lo notasse.

Non ci sarà al mio funerale. Mio padre non potrà venire al mio funerale, per me questa assenza simboleggia l’evaporazione del senso della vita, la caduta nella fine di tutto. Dovrebbe sconfiggere le ombre e tornare dalla morte, come dicono che abbia fatto Gesù Cristo, e presentarsi al mio funerale e dire qualcosa. Dire qualche parola, come si fa ai funerali americani.

Mi fa molto male la testa in quest’istante. Abuso dell’Espidifen, che mi toglie il dolore, ma ormai non tanto. Le medicine perdono forza.

Urlava di dolore e chiedeva la morfina.

Insieme a quelle coliche epatiche di mia madre, mi viene adesso in mente un ricordo quasi maledetto: cammino per mano a mio padre, dev’essere il 1968, o il 1970, siamo per strada. Era la cosa che più mi piaceva al mondo: camminare per la strada con mio padre. Io ero un bambino di sette anni che esibiva suo padre, perché sapeva che era un uomo alto, bello ed elegante. Camminavamo per strada e passammo davanti a una bella donna. Ci fermammo. Si guardarono. Ci fu un momento di tensione. La nascita di un sorriso sui due volti, io li osservavo da sotto come chi osserva passare le nuvole. Mio padre non la salutò, e nemmeno lei.

Allora mio padre mi guardò. Mi sorrise lievemente e mi disse: «Se non avessi sposato la mamma, quella donna che hai visto adesso sarebbe stata tua madre».