146

In questo istante sto sorvegliando l’appartamento di Ranillas. Sto contemplando l’accumulo di polvere sopra un telefono fisso che mi sono portato da casa di mia madre quando è morta. Ho sollevato la cornetta e la mano mi si è riempita di polvere. È un telefono che non uso mai. Uso un cordless che ho comprato da Media Markt e le cui istruzioni si sono riempite di polvere e sono sotto uno scaffale, anch’esso pieno di polvere. Questo telefono fisso lo tengo come se fosse una scultura, un ricordo di mia madre. È il telefono dal quale lei mi chiamava. Sapeva a memoria un sacco di numeri di telefono. Ci scherzavamo sopra. Mio padre la metteva alla prova, le chiedeva numeri di telefono e lei li sapeva tutti. Imparava i numeri di telefono e li componeva da questo apparecchio che ho qui davanti, pieno di polvere. Ereditare un telefono è strano. Mi rendo conto che sto costruendo una cappella. La voce me lo sta dicendo proprio ora: «Ranillas è una cappella, hai appeso alle pareti foto e carte, i quadri che ha dipinto tuo zio, di quello zio non hai parlato, era il fratello di tuo padre, invece hai parlato di Monteverdi, che era il fratello di tua madre, adesso parla del fratello di tuo padre, chiamalo Rachmaninov, chiamalo Rachma».

Rachma era il fratello minore di Johann Sebastian, mio padre. Era pittore, e nella cappella di Ranillas ho due suoi quadri, dipinti alla fine degli anni Cinquanta. Rachma dipinse una ballerina nel 1958.

La data è nella parte bassa del quadro. Fisso sempre quella data, dipinta in rosso sotto la firma di Rachma. Una data in cui io non ero al mondo né mi si aspettava né mio padre aveva ancora conosciuto colei che sarebbe stata mia madre. Immagino mio padre e suo fratello nel 1958. Mio padre aveva ventotto anni e Rachma ventiquattro. Non c’era alcun segnale del futuro che sarebbe arrivato quando Rachma dipinse questo quadro. Vivevano insieme a casa della madre, mia nonna. Nessuno mi ha mai parlato di quella casa e di quel periodo. Ma dev’essere stato un buon periodo. So qual era la casa, qualcuno me l’ha detto. Non loro. Non mio padre. Ma posso vederla. Posso vedere i letti dei due fratelli.

ORDE_bailarina

La ballerina del 1958 l’ho salvata quando ho svuotato la casa di mia madre morta. Quando morirò io, la ballerina di Rachma inizierà un altro viaggio. Finirà da qualche antiquario, e forse qualcuno la comprerà. La ballerina di Rachma ha cominciato a muoversi adesso. È stata per quasi sessant’anni senza movimento, sempre sulla stessa parete. Quando me ne andrò da questo mondo, per Valdi e Bra non avrà valore.

La ballerina di Rachmaninov ha valore soltanto per me. Quanto poco ho visto Rachmaninov in questa vita. Viveva in Galizia. Lo destinarono in Galizia. Lavorava nello stesso campo di mio padre, lavorava come agente di commercio. Lavoravano entrambi per la stessa ditta catalana.

Fecero gli stessi lavori e rappresentarono quella ditta catalana in regioni diverse: Bach, commesso viaggiatore in Aragona; Rachma, commesso viaggiatore in Galizia. La borghesia catalana si arricchiva mentre loro due andavano di paese in paese (paesi aragonesi mio padre, paesi galiziani mio zio) vendendo ai sarti stoffe di Sabadell e di Barcellona, dove vivevano i ricchi, i privilegiati per i quali Bach e Rachma lavoravano su commissione, su una ridicola commissione. Non c’era la fabbrica né in Aragona né in Galizia. La fabbrica era a Barcellona. Saranno già morti i loro capi, e i capi dei loro capi. I nomi di Bach e Rachma non figureranno più in nessun archivio, tutto sarà stato ghigliottinato. A volte chiamava qualche segretaria della fabbrica tessile per la quale lavorava mio padre. Anche quella segretaria sarà morta. E i suoi nipoti non sapranno più che lavoro facesse la nonna né a chi telefonasse dalla ditta.

Non sappiamo quali morti abbiano conosciuto i nostri morti.

I due fratelli smisero di vedersi. E Wagner non fece molto perché si incontrassero di nuovo. Feci un viaggio in Galizia, verso il 2002, e lo chiamai al telefono. Disse il mio nome al diminutivo, come se fossi un bambino. Avevo quarant’anni. Non capii bene quella conversazione con Rachma, perché il modo precipitoso in cui parlava mi ricordava Monteverdi.

Non dissi quasi nulla in quella confusa conversazione. Rachma non mi lasciava parlare. Ma non diceva nemmeno nulla di rilevante. Parlava di cose che non importavano. Non mi vedeva da trent’anni. Chi diavolo lo stava chiamando? Lo stava chiamando il figlio primogenito del suo fratello maggiore, che era stato anche lui il primogenito.

La primogenitura fondò le cose di questo mondo, in uno sfoggio di luce.

A poco a poco ho scoperto che tutta la mia famiglia era di aria. Non c’era nessuno lì. Va’ a trovare tua cugina, mi disse Rachma. Stavo chiamando Rachma da Pontevedra e lui era a Lugo. Mia cugina, invece, stava a Combarro.

Ci fu un tempo in cui mio padre parlava di Combarro, e nella mia mente si affollano ricordi stupendi di quel paesino sulla costa, ricordi di quando avevo sei o sette anni: le strade strette, gli hórreos, i granai sui pilastri, il mare, la ria di Pontevedra, l’odore, l’odore intenso di mare delle rías galiziane.

Mio padre fu felice lì, a Combarro, con Rachma. Andavano in giro per i bar di Combarro, andavano a bere birra. Fine degli anni Sessanta, con il futuro ancora limpido. Perché Rachma aveva la virtù della popolarità. Gli amici galiziani di Rachma. Ma anche i suoi amici di Barbastro, che ancora si ricordano di lui, e sono più di sessant’anni che se n’è andato da Barbastro, e sono tre o quattro anni che è morto.

La memoria di Rachma a Barbastro si è andata diluendo, sì, ma ancora lo ricordano. Pochi, molto pochi lo ricordano. Perché tutti se ne vanno via.

Però in quell’estate del 2002 parlai con lui al telefono.