Dopo il mio divorzio (avvenuto un anno fa, anche se non si può mai sapere il momento preciso, perché non è una data, è un processo, sebbene ufficialmente sia una data; agli effetti giudiziari forse è un giorno concreto; in ogni caso, bisognerebbe tenere conto di molte date significative: la prima volta che ci pensi, la seconda volta, l’insieme delle volte, il rigoglioso accumularsi di fatti pieni di dissapori e discussioni e tristezze che via via puntellano quanto si è pensato, e finalmente l’andar via di casa, e quell’andarsene è forse ciò che fa precipitare la cascata di avvenimenti che terminano in un tassativo avvenimento giudiziario, che sembra la fine dal punto di vista legale; perché il punto di vista legale è quasi una bussola nel baratro, una scienza, nella misura in cui abbiamo bisogno di una scienza che fornisca razionalità, un principio di certezza) mi sono trasformato nell’uomo che ero già stato molti anni prima, vale a dire che ho dovuto comprare uno spazzolone e uno straccio, e prodotti per la pulizia, molti prodotti per la pulizia.
Il custode del palazzo era sulla porta. Abbiamo parlato un po’. Qualcosa che aveva a che fare con una partita di calcio. Anch’io penso alla vita della gente. Il custode è di etnia orientale, anche se di nazionalità ecuadoriana. Vive da molto tempo in Spagna, non si ricorda dell’Ecuador. So che, in fondo, invidia il mio appartamento. Per quanto male ti vada nella vita, c’è sempre qualcuno che t’invidia. È una specie di sarcasmo cosmico.
Mio figlio mi ha aiutato a pulire casa. C’era un sacco di corrispondenza accumulata, piena di polvere. Prendevi una busta e avvertivi quella sensazione di lerciume che lascia la polvere, quasi sul punto di essere terra, sui polpastrelli.
C’erano lettere scolorite di amore antico, innocenti e tenere lettere di gioventù, le lettere della madre di mio figlio e di colei che è stata mia moglie. Ho detto a mio figlio di mettere tutto nel cassetto dei ricordi. Ci abbiamo messo anche le foto di mio padre e un borsellino di mia madre. Una specie di cimitero della memoria. Non ho voluto, o non ho potuto, trattenere lo sguardo su quegli oggetti. Li ho toccati con amore, e con dolore.
Non sai cosa fare di tutte queste cose, vero?, mi ha detto mio figlio.
Ci sono ancora altre cose; ci sono le fatture e i documenti che sembrano importanti, come le polizze, e le lettere della banca, gli ho detto.
Le banche ti riempiono la cassetta di lettere deprimenti. Un mucchio di estratti conto. Mi fanno innervosire le lettere della banca. Ti dicono ciò che sei. Ti spingono a riflettere sul tuo inesistente senso nel mondo.
Mi sono messo a guardare estratti conto.
Perché ti piace tenere l’aria condizionata così alta?, mi ha chiesto.
Il caldo mi fa venire il panico, succedeva anche a mio padre. Ti ricordi di tuo nonno?
È una domanda scomoda, perché mio figlio pensa che con questo genere di domande io cerchi qualche tipo di vantaggio, qualche tipo di trattamento benevolo da parte sua.
Mio figlio possiede capacità di risolutezza e di lavoro. È stato meticoloso nell’aiutarmi a pulire il mio appartamento.
All’improvviso, mi è sembrato che il mio appartamento non valesse i soldi che sto pagando per abitarci. Immagino che questa certezza sia la prova di maturità più ovvia di un’intelligenza umana sotto il peso del capitalismo. Però, grazie al capitalismo, ho una casa.
Ho pensato, come sempre, alla rovina economica. La vita di un uomo è, essenzialmente, il tentativo di non cadere nella rovina economica. Non importa che lavoro faccia, è quello il grande fallimento. Se non riesci a dar da mangiare ai tuoi figli, non hai nessuna ragione per esistere in società.
Nessuno sa se si possa vivere se non socialmente. La considerazione degli altri finisce per essere l’unica certificazione della tua esistenza. La considerazione è una morale, modella i valori e il giudizio su di te, e da quel giudizio deriva la tua posizione nel mondo. È una lotta fra il corpo, il tuo corpo, in cui risiede la vita, e il valore del tuo corpo per gli altri. Se la gente ti desidera, se ambisce alla tua presenza, ti andrà bene.
Tuttavia, la morte – questa folle sociopatica – equipara tutte le considerazioni sociali e morali alla corruzione della carne, che continua a essere attiva. Si parla molto della corruzione politica e della corruzione morale, e pochissimo della corruzione di un corpo per mano della morte: dell’infiammazione, dell’esplosione di gas nauseabondi e della trasformazione del cadavere in fetore.
Mio padre parlava pochissimo di sua madre. Ricordava soltanto quanto cucinasse bene. Mia nonna partì da Barbastro alla fine degli anni Sessanta e non tornò mai più. Dev’essere stato verso il 1969. Partì con la figlia.
Barbastro è il paese in cui sono nato e dove sono cresciuto. Quando sono nato aveva diecimila abitanti. Ora ne ha diciassettemila. Con il passare del tempo, quel paese acquisisce la forza di un destino cosmico, e allo stesso tempo privato.
Questo desiderio di trasformare ciò che è informe in un personaggio dotato di forma gli antichi lo chiamarono «allegoria». Perché per quasi tutti gli esseri umani il passato ha la concretezza di un personaggio da romanzo.
Ricordo una foto degli anni Cinquanta di mio padre, in cui è dentro la sua Seat 600. Si distingue a malapena, però è lui. È una foto strana, molto tipica di quel periodo, con le strade come appena comparse. Sul fondo ci sono una Renault Ondine e un capannello di donne; donne di spalle, con le borse, donne che ora saranno ormai morte o saranno anziane. Distinguo la testa di mio padre nella Seat 600 targata Barcellona. Non ha mai alluso a questo fatto, al fatto che la sua prima Seat 600 fosse targata Barcellona. Non sembra né estate né inverno. Può essere la fine di settembre o la fine di maggio, lo ipotizzo per i vestiti delle donne.
C’è poco da dire sullo sgretolarsi di tutte le cose che sono state. C’è da segnalare la mia personale fascinazione per quell’automobile, per quella Seat 600, che fu motivo di gioia per milioni di spagnoli, che fu motivo di speranza atea e materiale, che fu motivo di fede nel futuro delle macchine private, che fu motivo per viaggiare, che fu motivo per conoscere altri luoghi e altre città, che fu motivo per pensare ai labirinti della geografia e delle strade, che fu motivo per visitare fiumi e spiagge, che fu motivo per rinchiudersi in un cubicolo separato dal mondo.
La targa è di Barcellona, e il numero è un numero perduto: 186.025. Da qualche parte, qualcosa resterà di quella targa, e pensare questo è come avere fede.
Coscienza di classe, è quello che non deve mai mancarci. Mio padre fece quello che poté con la Spagna: trovò un lavoro, lavorò, fondò una famiglia e morì.
E ci sono poche alternative a questi fatti.
La famiglia è una forma di felicità testata. Le persone che decidono di non sposarsi, come è stato dimostrato statisticamente, muoiono presto. E nessuno vuole morire prima del tempo. Perché morire non ha nulla di bello ed è qualcosa di antico. Il desiderio di morte è un anacronismo. E questo l’abbiamo scoperto da poco. È una scoperta recentissima della cultura occidentale: è meglio non morire.
Qualunque cosa succeda, non morire, soprattutto per una ragione molto facile da capire: non è necessario. Non è necessario che uno muoia. Prima si credeva di sì, prima si credeva che fosse necessario morire.
Prima la vita valeva meno. Ora vale di più. La produzione di ricchezze, l’abbondanza materiale, fa sì che gli straccioni storici (quelli per i quali decenni fa era uguale essere vivi o morti) amino essere vivi.
Il ceto medio spagnolo degli anni Cinquanta e Sessanta trasmise ai suoi rampolli aspirazioni più sofisticate.
Mia nonna morì non so nemmeno in che anno. Forse fu nel 1992 o nel 1993, o nel 1999 o nel 2001, o nel 1996 o nel 2000, giù di lì. Mia zia telefonò per dare la notizia della morte della madre di mio padre. Mio padre non si parlava con la sorella. Lasciò un messaggio in segreteria. Io sentii il messaggio. Diceva che, anche se non andavano d’accordo, condividevano la stessa madre. Questo: che avevano la stessa madre, il che era un motivo di avvicinamento. Io rimasi a pensare quando sentii quel messaggio, entrava sempre una luce molto forte in casa dei miei che faceva perdere consistenza ai fatti, perché la luce è più potente delle azioni umane.
Mio padre si sedette sulla sua poltrona. Una poltrona gialla. Non sarebbe andato al funerale, fu la sua decisione. Era morta in una città lontana, a circa cinquecento chilometri da Barbastro, a circa cinquecento chilometri da dove mio padre ricevette la notizia della morte di sua madre. Semplicemente, fece a meno di partire. Non gli andava. Guidare tanto. O stare su un autobus per ore. E dover cercare quell’autobus.
Quel fatto generò cascate di altri fatti. Non mi interessa giudicare ciò che accadde, ma narrarlo o dirlo o celebrarlo. La moralità dei fatti è sempre una costruzione della cultura. I fatti in sé, invece, sono sicuri. I fatti sono natura, la loro interpretazione è politica.
Mio padre non andò al funerale di mia nonna. Che rapporto aveva con sua madre? Non aveva alcun rapporto. Sì, certo, l’avevano all’inizio dei tempi, non so, verso il 1935 o il 1940, ma quel rapporto andò svaporando, scomparendo. Io credo che mio padre sarebbe dovuto andare a quel funerale. Non per sua madre morta, ma per lui, e anche per me. Disinteressandosi di quel funerale stava decidendo anche di disinteressarsi della vita in generale.
Il supremo mistero è che mio padre amava sua madre. Il motivo per cui non andò al suo funerale si fonda sul fatto che il suo inconscio rifiutava il corpo morto della madre. E il suo io cosciente era alimentato da una pigrizia invincibile.
Nella mia testa si mescolano mille storie, legate alla povertà e al modo in cui la povertà finisce per avvelenarti con il sogno della ricchezza. O al modo in cui la povertà genera immobilità, mancanza di voglia di salire in macchina e fare cinquecento chilometri.
Il capitalismo crollò in Spagna nel 2008, ci perdemmo, non sapevamo più a cosa aspirare. Con l’arrivo della recessione economica cominciò una commedia politica.
Provammo quasi invidia per i morti.
Mio padre venne bruciato in un forno a gasolio. Non manifestò mai alcun desiderio rispetto a ciò che voleva facessimo del suo cadavere. Ci limitammo a liberarci del peso del morto (il corpo giacente, ciò che era stato e che ora non sapevamo cosa fosse), come fanno tutti. Come faranno con me. Quando muore qualcuno, la nostra ossessione è far scomparire il cadavere. Estinguere il corpo. Ma perché tanta fretta? Per la corruzione della carne? No, perché adesso negli obitori esistono frigoriferi avanzatissimi. Ci impaurisce un cadavere. Ci impaurisce il futuro, ci impaurisce ciò in cui ci trasformeremo. Ci terrorizza la riconsiderazione dei vincoli che ci hanno unito a quel cadavere. Ci spaventano i giorni trascorsi accanto al cadavere, il mucchio di cose che abbiamo fatto con quel cadavere: andare al mare, pranzare con lui, cenare con lui, perfino dormire con lui.
Alla fine della vita della gente, l’unico problema reale che si presenta è cosa fare dei cadaveri. In Spagna ci sono due possibilità: l’inumazione o l’incinerazione. Sono due belle parole che affondano le radici nel latino: trasformarti in terra o in cenere.
La lingua latina conferisce prestigio alla nostra morte.
Mio padre venne cremato il 19 dicembre 2005. Adesso me ne pento, forse fu una decisione frettolosa. D’altra parte, il fatto che mio padre non fosse andato al funerale di sua madre, vale a dire di mia nonna, ebbe a che fare con la scelta di cremarlo. Cos’è più rilevante, segnalare la mia parentela e dire «mia nonna» o segnalare quella di mio padre e dire «sua madre»? Sono incerto su quale punto di vista scegliere. Mia nonna o sua madre, in questa scelta c’è tutto. Mio padre non andò al funerale di mia nonna e questo ebbe a che fare con il fatto che decidessimo di bruciarlo, di cremarlo. Non ha a che fare con l’amore, ma con la cascata dei fatti. Fatti che producono altri fatti: la cascata della vita, acqua che continua sempre a scorrere, mentre impazziamo.
In questo istante mi accorgo anche che nella mia vita non sono successe grandi cose, e tuttavia porto dentro di me una profonda sofferenza. Il dolore non è assolutamente un impedimento alla gioia, così come io intendo il dolore, perché per me è legato all’intensificazione della coscienza. La sofferenza è una coscienza espansa che raggiunge tutte le cose che sono e saranno. È una specie di amabilità segreta verso tutte le cose. Cortesia verso tutto ciò che è stato. E dall’amabilità e dalla cortesia nasce sempre l’eleganza.
È una forma di coscienza generale. La sofferenza è una mano tesa. È amabilità verso gli altri. Mentre sorridiamo, dentro di noi veniamo meno. Se scegliamo di sorridere invece di cadere morti in mezzo alla strada è per eleganza, per tenerezza, per cortesia, per amore degli altri, per rispetto degli altri.
Non so nemmeno come strutturare il tempo, come definirlo. Torno a quel pomeriggio del 2015 che sto vivendo in questo istante e vedo sparso in modo caotico sopra il mio letto un mucchio di medicine. Ce n’è di tutti i tipi: antibiotici, antistaminici, ansiolitici, antidepressivi.
E nonostante ciò, apprezzo di essere vivo e lo farò sempre. Sulla morte di mio padre cade pian piano il tempo, e già molte volte ho avuto difficoltà a ricordarlo. Tuttavia, ciò non m’intristisce. Che mio padre cammini verso la dissoluzione totale, nella misura in cui io sono, insieme a mio fratello, l’unico che lo ricorda, mi pare di un’elevata bellezza.
Mia madre è morta un anno fa. Quando era viva, qualche volta volevo parlare di mio padre, ma lei cambiava discorso. Neanche con mio fratello posso parlare troppo di mio padre. Non è un rimprovero, per nulla. Capisco il disagio, e in un certo qual modo il pudore. Perché parlare di un morto, in alcune tradizioni culturali, o almeno in quella che è toccata a me, presuppone un forte e acre grado di spudoratezza.
Così sono rimasto solo con mio padre. E sono io l’unica persona a questo mondo – ignoro se lo faccia mio fratello – che lo ricorda ogni giorno. E ogni giorno contempla il suo venir meno, che finisce per trasformarsi in purezza. Non è che lo ricordi ogni giorno, è che lo sento dentro di me in modo permanente, è che io mi sono ritirato da me stesso per fare spazio a lui.
È come se mio padre non avesse voluto essere vivo per me, voglio dire che non ha voluto rivelarmi la sua vita, il senso della sua vita: nessun padre vuole essere un uomo per suo figlio. Tutto il mio passato sprofondò quando mia madre fece la stessa cosa di mio padre: morire.