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Mi spaventano i vecchi. Sono ciò che sarò.

Sarò un altro zombie in una stanza introvabile del reparto di geriatria di un ospedale senza nome, soltanto con un numero. Ospedale numero 7, per esempio. Sì, adesso penso molto all’invecchiare, a quando non sarò più autonomo e sarò alla mercé della rabbia o della carità di qualche badante la cui vita intera posso vedere in questo istante. Il dono di vedere le vite, questo l’ho avuto.

Ho studiato dagli Scolopi per sette anni. Ho studiato in una scuola di preti perché era l’unica che c’era. Un giorno del 1971 un prete mi chiamò. Voleva che entrassi nel coro della scuola. Avevo otto anni. Si chiamava G. Sì, ci saranno ancora persone che lo ricordano, anche se poche. Entrai nell’aula. Il sole brillava attraverso le finestre. Ricordo la sottana. Una sottana da cui sporgeva una pancia. Tutti quei preti erano grassi. Mi parlò affettuosamente. Il franchismo era pieno di preti tarati. Cominciò ad accarezzarmi i capelli. Poi iniziò ad affondare le mani nelle mie. E io non capivo niente. Non sapevo cosa stava succedendo.

Trent’anni dopo, vidi il necrologio di G. sul giornale del paese. Era morto. Fumava Ducados. Non mi rallegrai che fosse morto. Rimasi pensieroso. Credo che alla fine non lo abbia fatto, ma non lo ricordo. Se qualcosa mi salvò, fu la luce del sole che entrava in quell’aula, e in quella luce quel tarato si spaventò delle sue azioni. Può darsi che il mio cervello abbia cancellato tutto. Non lo so. Non so fino a dove si spinse. Non lo ricordo. Il fatto è che non riesco a ricordarlo. So soltanto che cammino lungo un corridoio ed entro in un’aula e lui è là, infagottato nella sua sottana, e mi sorride e cominciano le carezze che io non so interpretare. Guardo la sottana, il suo nero strampalato, la sua oscurità simbolica, cosa significa andare in giro vestito così? Guardo il cordone della sottana, non riesco a scoprire la sua utilità, la metto in relazione con la cintura, però non è una cintura, non ha fibbia né buchi, è come un ornamento, ma cos’è che sta adornando, e qual è il motivo per adornare qualcosa lì, forse ha a che vedere con il Natale, con la nascita del Bambino Gesù. Sono io il Bambino Gesù, e perciò mi ha chiamato quest’uomo che ha degli ornamenti sulla pancia grassa? La mia intelligenza si infrange, la mia memoria si ferma. Non sapevo cos’era quella roba, se era buona o cattiva. Nessun bambino lo sa finché non passa il tempo. Torno e ritorno a quel ricordo, tentando di scoprire cosa accadde, ma c’è un blackout. Dopo le carezze, c’è un blackout.

I miei occhi sono all’altezza del cordone, guardano il cordone, cercano di decifrarne il senso. Non sapevo se dovevo dirlo ai miei, e non lo dissi perché pensai che la colpa fosse mia. Che fossi io il colpevole. Che avrebbero smesso di volermi bene. Che fossi stato cattivo. Che non li avessi amati abbastanza e che per questo mi fosse successo quello che mi era successo.

Il problema del Male è che se ti tocca ti trasforma in colpevole. È questo il gran mistero del Male: le vittime finiscono sempre per sentirsi colpevoli di qualcosa il cui nome è di nuovo il Male. Le vittime sono sempre escrementali. Le persone simulano compassione nei confronti delle vittime, ma dentro di loro c’è soltanto disprezzo.

Le vittime sono sempre irredimibili.

Vale a dire disprezzabili.

La gente ama gli eroi, non le vittime.