Dopo il divorzio, comprai una piccola casa.
La chiamo appartamento, però l’idea dell’appartamento in Spagna non ha senso. Qui esistono soltanto le case. Esiste soltanto la parola «casa». E ci sono case grandi o piccole, e questo è tutto. L’idea dell’appartamento contiene una sofisticazione che non c’è nella cultura immobiliare spagnola. Mio padre non ha mai visto l’appartamento che ho comprato. È morto nove anni prima, è un sacco di tempo, moltissimo. Non ha visto la casa della mia solitudine. Vale a dire che non ha visto il mio grande presente. Vale a dire che non sa cosa sono diventato. Vale a dire che suo figlio è morto – il tipo di figlio che lui ha conosciuto – e al suo posto c’è un uomo che nessuno sa da dove sia venuto fuori, uno sconosciuto. Cosa avrebbe pensato dell’appartamento? Probabilmente non l’avrebbe nemmeno saputo. Perché negli ultimi anni della sua vita non veniva a sapere praticamente niente. Vagava per la vita, in attesa di chissà che. Si lamentava pochissimo, ma non della sua malattia, bensì di piccole avversità quotidiane. Sembrava non ricordare le cose. Come sempre, non parlava né di suo padre né di sua madre. Non parlava della sua vita. Mio padre sembrava essere nato per generazione spontanea. Mia madre faceva la stessa cosa. Era come se avessero fatto un patto. Quando l’avevano siglato? L’avevano verbalizzato?
Mia madre non parlava del passato. Non sapeva che esistesse il passato. Mia madre non capiva il tempo. Nella sua mente non possedeva categorie storiche. Questa è stata una strana creazione estetica di mia madre; come se in lei si fosse posato una specie di senso della vergogna storica. Si vergognava dei suoi genitori? Mia madre non ha mai riflettuto sulla propria vita; agiva per istinto, per un istinto che nascondeva una frustrazione. A volte, riferendosi a sua madre, diceva mama, e non mamá con l’accento sull’ultima sillaba. Quel modo di pronunciare mama era caratteristico di una dizione radicata nei paesi del Somontano di Barbastro. In gioventù, mia madre aveva avuto un senso allegro della vita a cui aveva voluto dare compimento. Ricordo che, quando io ero molto piccolo, i miei genitori uscivano praticamente tutti i fine settimana. Immagino che andassero a cena con gli amici. Parlo della metà o della fine degli anni Sessanta. Mi lasciavano con mia zia Reme. A volte, se mi concentro, riesco a immaginare i ristoranti in cui andavano. Immagino tovaglie bianche, flan per dessert, champagne servito in ampie coppe, le cosiddette coppe aperte, che non si usano più. Ora si usano coppe di champagne note come flûtes. Perché non si usano più le coppe aperte per servire lo champagne? Perché adesso si usano le flûtes? Suppongo che abbia a che fare con l’idea di eleganza, che è mutevole e capricciosa. La coppa ampia di champagne è conosciuta anche come coppa «Pompadour». E c’è una coppa intermedia, tra la Pompadour e la flûte, che è la cosiddetta coppa tulipano. I miei genitori bevevano champagne nella coppa Pompadour negli anni Sessanta del sempre più lontano XX secolo, la scomparsa coppa Pompadour che simboleggiava la festa e l’allegria.
Mi pentirò sempre di averli fatti cremare.