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A volte confondo il mio divorzio con la vedovanza. Penso che la vedovanza sarebbe peggio. Quando divorzi, il tuo passato diventa una cosa difficile da ricostruire o da ricordare o da precisare o da possedere; per ricostruire poi quel passato bisogna rivolgersi ai documenti: foto, lettere, testimonianze, carte. È come la fine di un periodo storico. Per conservarne memoria, si può soltanto chiamare gli storici. E gli storici sono pigri, stanno dormendo, non gli va di lavorare. Vogliono prendere il sole.

Forse la colpa è un modo di permanenza. Forse i grandi colpevoli finiscono per scorgere, a partire dalle loro colpe, un modo di perdurare.

Qualche volta ho sperato che Dio o il caso rendessero possibile che la mia morte precedesse quella della mia ex moglie. Nelle separazioni, il tempo che si è condiviso è fondamentale. Una separazione dopo due anni di convivenza, per esempio, può essere inoffensiva. Una separazione dopo trent’anni di convivenza è un intero periodo storico. È come il Rinascimento, o il Romanticismo. Poco tempo fa lo scrittore Alejandro Gándara mi ha detto che erano necessari cinque anni per la cauterizzazione di un divorzio. Credo che avesse ragione: cinque anni.

Mi faceva male in particolare lo sgretolarsi della tenerezza. Mi vengono in mente frasi che lei diceva, piene di bontà. Allora capii che la morte di un rapporto è in realtà la morte di un linguaggio segreto. Un rapporto che muore dà origine a una lingua morta. L’ha detto lo scrittore Jordi Carrión in un post su Facebook: «Due persone, quando si innamorano e si frequentano e convivono e si amano, creano un idioma che appartiene soltanto a loro. Quell’idioma privato, pieno di neologismi, inflessioni, campi semantici e sottintesi, ha solamente due parlanti. Comincia a morire quando si separano. Muore del tutto quando i due incontrano nuovi partner, inventano nuovi linguaggi, superano il lutto che sopravvive a ogni morte. Sono milioni, le lingue morte».

Anche i miei genitori possedevano un linguaggio. Non ricordo quasi mio padre pronunciare il nome di mia madre. Come pronunciava il suo nome, come via via cambiò il modo di dirlo. Ricordo invece una cosa meravigliosa: mio padre inventò un modo di fischiare. Quel fischio era un suono segreto, che conoscevano soltanto mio padre e mia madre. Una parola d’ordine. Io so riprodurre quel suono, non ricordo né come né quando lo imparai né da dove l’avesse tirato fuori mio padre. Comunicavano con quel fischio quando si cercavano per strada, o in un negozio, o in una folla; e soprattutto quando, ai primi di settembre, arrivava la festa di Barbastro e la gente riempiva le strade, quando comparivano i pupazzi giganti di cartapesta e le carrozze e le mascherate in musica. Quando mio padre perdeva di vista mia madre, intonava quel fischio, e mia madre sapeva che lui era vicino. Erano giovani, allora. Ed erano guidati da quel suono.

Non l’ho mai più sentito, quel modo di fischiare, nemmeno qualcosa di simile.