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Mia madre morì mentre dormiva. Era stufa di trascinarsi, perché non riusciva a camminare. Non ho mai saputo esattamente quali fossero le sue reali malattie. Mia madre era una narratrice caotica. Anch’io lo sono. Da mia madre ho ereditato il caos narrativo. Non l’ho ereditato da nessuna tradizione letteraria, né classica né d’avanguardia. Una degenerazione mentale provocata da una degenerazione politica.

Nella mia famiglia non si è mai narrato con precisione ciò che stava accadendo. Da lì proviene la difficoltà che ho a verbalizzare le cose che mi succedono. Mia madre aveva una moltitudine di acciacchi che si sovrapponevano gli uni agli altri e collidevano tra loro nelle sue narrazioni. Non c’era modo di mettere in ordine ciò che accadeva. Ho finito per decifrare quello che le succedeva: voleva introdurre nelle sue narrazioni il disagio personale e voleva inoltre trovare un senso per i fatti narrati; interpretava, e alla fine tutto la conduceva al silenzio; dimenticava dettagli che raccontava solo dopo diversi giorni, dettagli da cui credeva di non trarre vantaggio.

Manipolava i fatti. Aveva paura dei fatti. Aveva paura che la realtà dell’accaduto andasse contro i suoi interessi. Ma nemmeno riusciva a sapere quali fossero i suoi interessi, al di là dell’istinto.

Mia madre ometteva ciò che pensava non la favorisse. Questo l’ho ereditato io nelle mie narrazioni. Non è mentire. È, semplicemente, paura di sbagliarti, o paura di fare brutte figure, terrore dell’atavico giudizio degli altri per non aver fatto ciò che si presume avresti dovuto fare secondo l’incomprensibile codice della vita in società. Non abbiamo capito bene, né mia madre né io, cosa si presume che uno debba fare. D’altro canto, neanche i medici e i geriatri che l’hanno avuta in cura sono riusciti a fare in modo che le versioni mediche trionfassero sulle sue versioni caotiche ed errabonde. Mia madre metteva alle strette la logica della medicina, la conduceva all’abisso. Le domande che rivolgeva ai medici erano memorabili. Una volta riuscì a indurre un medico a confessarle che in realtà non conosceva la differenza tra un’influenza di origine virale e una di origine batterica. Nel suo caos morale e nel suo desiderio di salute, le osservazioni intuitive e visionarie di mia madre risultavano più interessanti delle spiegazioni dei medici. Lei vedeva il corpo umano come un serpente ostile, e crudele. Credeva nella crudeltà della circolazione del sangue.

Era una donna-dramma. La sua drammaticità era superiore alla pazienza dei medici. I medici non sapevano cosa fare con lei. Aveva le ossa di una gamba molto malridotte. Portava una protesi che le si infettò. Gliel’avevano impiantata proprio il giorno in cui avevano fatto la stessa cosa al re di Spagna, Juan Carlos I. Lo disse la televisione. Ci scherzammo sopra. Quando le si infettò la protesi, non potevano estrarla perché questo avrebbe comportato un’operazione e mia madre soffriva anche di malattie cardiovascolari.

I suoi mali erano enumerativi. Enumerava dolori, alcuni di un’originalità immensa.

Rimase da sola. Stava lì, nel suo appartamento, completamente sola, a enumerare malattie.

Soffriva anche di asma. E di ansia. Era un compendio di tutte le malattie che avessero un nome. Aveva trasformato in malattia non grave la sua stessa coscienza della vita. Le sue malattie non erano mortali, erano piccoli supplizi quotidiani. Erano sofferenza, e basta.

Viveva in una casa in affitto: cinquantaquattro anni passati in una casa in affitto. Aveva fumato molto da giovane. Deve aver fumato finché non ha compiuto sessant’anni. Non so esattamente quando abbia smesso.

Posso cercare di calcolare in modo approssimato quando ha smesso di fumare. Doveva essere attorno al 1995, qualcosa del genere. Vale a dire che allora doveva avere sui sessantadue anni.

Fumava con modernità, e inoltre si distingueva dalle donne anziane della sua epoca perché fumava. Ricordo la mia infanzia presieduta da marche di sigarette che a me sembravano esuberanti e misteriose.

Per esempio, le Kent, che mi hanno sempre sedotto, specialmente per quel pacchetto così bello, di quel colore bianco. Mia madre fumava Winston e L&M. Mio padre fumava poco, e fumava Lark.

Tutti quei pacchetti di sigarette che stavano sui tavoli e i tavolini di casa mia sono associati alla giovinezza dei miei genitori. C’era allegria allora in casa mia, perché i miei erano giovani e fumavano. I genitori giovani fumavano. Ed è incredibile la precisione con cui ricordo quell’allegria, un’allegria degli anni Settanta, degli inizi degli anni Settanta: 1970, 1971, 1972, fino al 1973.

Loro fumavano e io guardavo il fumo, e così passarono gli anni.

Né mio padre né mia madre hanno mai fumato tabacco scuro.

Non hanno mai fumato Ducados, niente tabacco scuro. È per questo che mi fissai con quella marca, le Ducados, che mi sembravano sigarette sordide, brutte. Non le fumavano i miei genitori. Associai il tabacco scuro alla sporcizia e alla povertà. Vidi che c’era anche gente ricca che fumava Ducados, ma questo non mi impedì di continuare a guardare il tabacco scuro con disprezzo o con paura. Piuttosto con paura. La paura, almeno in personalità come la mia, è associata allo spirito di sopravvivenza. Più paura hai, più sopravvivi. Sempre ho avuto paura. Però, in certo qual modo, la paura non ha impedito che mi cacciassi nei guai.

Noto adesso una gigantesca crepa. Evocando le marche di sigarette che fumavano i miei, mi sembra di scoprire un’allegria inattesa nelle loro vite, nelle vite dei miei genitori.

Voglio dire che credo siano stati più felici di me. Anche se alla fine sono stati delusi dalla vita. O forse delusi dal semplice deterioramento dei loro corpi.

Non sono stati genitori normali. Hanno avuto la loro originalità storica. Oh, sì, davvero. Sono stati originali, perché facevano cose strane, non erano come gli altri. Il motivo della loro eccentricità o del fatto che quell’eccentricità toccasse me in quanto figlio mi appare come un enigma amoroso. Mio padre nacque nel 1930. Mia madre – è un’ipotesi, perché si cambiava la data di nascita – nel 1932. Credo che avessero due anni di differenza, o forse tre. A volte ne avevano sei, perché ogni tanto mia madre sosteneva di essere nata nel 1936, le sembrava una data famosa, perché l’aveva sentita nominare molte volte, va’ a sapere perché.

In realtà, era nata nel 1932.