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Ormai sono due sconosciuti.

Ho cucinato per loro. Ho tentato di abbracciarli, ma tutto si esaurisce in un rito imbarazzato. Non so dove mettere la faccia, dove le braccia. Sono diventati adulti, questo è tutto.

Non sono necessari gli abbracci, mio padre e io non ci siamo mai abbracciati. Però insisto, insisto nel creare l’abitudine di abbracciarci e baciarci. E ci riuscirò. Ci sono quasi. Quando nacque il mio primogenito, bisognò operarlo di stenosi pilorica. Era al mondo da quindici giorni. Vomitava tutto ciò che mangiava. Era ridotto pelle e ossa. Passai la notte intera a soffrire. Sua madre, la mia ex moglie, piangeva, e a me quel pianto suscitava una tenerezza dolorosa, perché capivo il suo pianto. Lei diceva «povero figlio», e quelle due parole mi sembrava che non le dicesse lei ma un uragano di antenati che parlavano attraverso la sua bocca. Pensai a Pergolesi, allo Stabat Mater. Quelle due parole, «povero figlio», sorgevano dalla notte dei tempi, dalla notte della maternità. Non so cosa mi feriva di più, se la tenerezza di una madre o il pericolo che correva mio figlio, o se le due cose si sommavano, si aggiungevano l’una all’altra, creando un fiume profondo d’amore e di tenerezza e di paura. Però il giorno dopo mio padre non mi chiamò. Non è un rimprovero, so benissimo che gli voleva bene. Non è un rimprovero, è un mistero.

Non l’imbrocco mai con gli abbracci, sembra quasi che i nostri corpi non riuscissero a incontrarsi nello spazio.

Forse mio padre lo sapeva. Conosceva l’impossibilità degli abbracci. Per questo non chiamò per chiedere se suo nipote era vivo. Andò tutto bene, l’operazione riuscì e dopo due giorni lo dimisero.