Passarono gli anni, e mio padre, ormai alla fine degli anni Novanta, divenne dipendente dai programmi di cucina. Passava le ore a guardare come i cuochi facevano le frittelle o il baccalà o la paella in televisione. Indossava una vestaglia verde molto raffinata che aveva, una vestaglia di seta, si metteva gli occhiali e si sedeva davanti al televisore a guardare programmi di cucina.
Sembrava un angelo, mio padre; un angelo allegro, che contemplava l’organizzazione gastronomica della realtà.
Sembrava un inviato la cui missione era santificare il cibo con il senso della vista.
Non c’era alcuna trama in quei programmi, o la trama era semplicemente come si cucinava un merluzzo alla maiorchina. Credo che ciò che in realtà lo affascinava fosse l’appartenenza geografica delle ricette della cucina spagnola. Che ogni piatto venisse cucinato in modo diverso a seconda del posto in cui lo si faceva. Forse in fondo immaginava di vivere a Maiorca, o a Bilbao, o a Madrid e di mangiare un merluzzo, un baccalà o un cocido. Sapeva cucinare e sapeva come si preparavano tutti quei piatti, ciò che gli piaceva era vedere come cucinavano gli altri.
Gli piaceva vedere la felicità prodotta da una persona che sta cucinando. Perché in una persona che sta cucinando c’è una proposta di futuro. Tutto sarà, tutto è preparato per la posterità, sebbene sia una posterità di lì a quindici minuti.