Da quando raggiunsi l’adolescenza, con i suoi deplorevoli rigori, rifiutai qualunque contatto fisico sia con mio padre sia con mia madre. Non mi piaceva toccarli. Non è che non mi piacesse, non era quello. Il fatto era che non avevamo creato quella tradizione. Non avevamo forgiato quel rituale. Davo loro a stento due baci formali. Tanto meno avrei toccato mio padre quando stava morendo. Ho già detto che siamo stati una famiglia strana; «disfunzionale», si direbbe adesso. Non credo che questo fosse un bene né un male.
Mio padre non era nemmeno andato al funerale di sua madre, mia nonna, e non aveva fatto neanche una telefonata. E mia madre si occupò di minare il rapporto di mio padre con i suoi fratelli, ma non importa. Mio padre diceva che mia madre gli nascondeva le carte. Il modo di mia madre di rassettare la casa era gettare nella spazzatura tutte le carte che vedeva.
Ricordo mio padre dare testate contro uno scaffale perché non trovava il duplicato di un contratto di vendita che aveva fatto. Alzavano spesso la voce, ma non si insultavano mai. Mio padre non insultò mai mia madre, mai. Semplicemente si arrabbiava e si disperava e prendeva a pugni le cose, era quella la sua ira. Da allora, ogni volta che passavo accanto allo scaffale lo guardavo con intensità: il posto contro cui mio padre aveva dato testate. E naturalmente il giorno in cui smontai casa, quando morì mia madre, rimasi a guardare l’asse dello scaffale e lo accarezzai per l’ultima volta. Non era neanche un’asse di legno nobile. Doveva essere di laminato o sintetico. Avevo sempre pensato che fosse di legno, invece no, non lo era.
Avevo dimenticato quelle urla. Ero piccolo, molto piccolo, ero quasi microscopico, ma la mia fragile intelligenza si attivava e fabbricava una minuscola domanda: perché mia madre non lasciava stare le carte di mio padre?
Mia madre era cieca, era quello l’unico motivo. Però era una cecità selettiva. Mia madre non capiva l’importanza delle carte. Gettava via tutto. Non conservava nulla. A me gettava via i fumetti. A mio padre le carte. Mi compravo un fumetto e dopo una settimana l’aveva fatto sparire. Ma se l’hai già letto a cosa ti serve, diceva. Voleva gettare via anche i libri, ma scoprì di non avere abbastanza statuette e ninnoli da quattro soldi da mettere sugli scaffali e decise di dargli un’opportunità. Così si salvarono i libri.
Ma non è un rimprovero. Le persone sono come sono, e basta. E quando sono morte tutte non importa più nulla, perché tutti i morti sono stati grandi uomini e grandi donne; la morte ha dato loro un significato finale degno e appropriato.
Perché non contano la vita sociale e quella famigliare e la vita lavorativa e la vita sentimentale, sono un’invenzione che si scopre con la morte. Perciò scrivo così. Perché in qualunque vita ci sono milioni di errori che costituiscono la vita stessa. Gli errori si ripetono di continuo. L’infedeltà si ripete e si ripete il tradimento. Si ripete la menzogna. E non risulta da nessuna parte il registro delle ripetizioni. Raccontare quello che mi è successo va bene, è un buon lavoro. Provare a raccontare quello che mi è successo, intendo. Forse per questo la contemplazione delle fotografie di famiglia mi brucia dentro, perché la fotografia rappresenta ciò che abbiamo visto alla luce del sole; ciò che è stato sotto il sole e così come la luce ha modellato la vita degli uomini e delle donne; per questo la fotografia è così perturbante, è la cosa più perturbante che esista: siamo stati capaci di mettere la luce dentro un foglio di carta; i miei genitori sono stati illuminati dalla luce del sole e quella luce si conserva ancora in quei fogli incartapecoriti, in quei ritratti consunti.
La luce, che è stata condannata a discendere dal sole e ha finito per combattere contro i corpi umani, qui nella vita.
Le foto dei miei genitori, ostinatamente, affermano che una volta sono stati vivi. Quel loro remoto ricordo è più importante del capitalismo presente, della generazione universale di ricchezza.